Daniele Cortis/Capitolo diciassettesimo: differenze tra le versioni

Contenuto cancellato Contenuto aggiunto
IPork (discussione | contributi)
Nessun oggetto della modifica
(Nessuna differenza)

Versione delle 15:13, 17 mar 2006

Daniele Cortis/Capitolo diciassettesimo
◄   Capitolo sedicesimo Capitolo diciottesimo   ►
UN INTERVENTO


“Il diretto di Firenze?” chiese a un guardasala il senatore Clenezzi entrando tutto trafelato, verso le quattro pomeridiane, nella stazione di Termini.

“Venti minuti di ritardo” rispose quegli.

Il senatore respirò, si levò il cappello, si asciugò il cranio col fazzoletto, guardando gli omnibus schierati sulla piazza. Egli non temeva piú, ora, di essere arrivato troppo tardi, ma tornava a poco a poco sulla sua vecchia faccia una preoccupazione molto piú grave, la irrequietudine senile delle labbra e delle sopracciglia tradiva il turbamento dell'animo.

“Si parte, senatore?” gli disse in bergamasco un giovanotto, accostandoglisi.

“Oh caro!” rispose il vecchio. “Scusi che non l'avevo veduto.”

“Si parte?” ripeté l'altro.

“Ah Madonna! Non lo dica neppur per ischerzo! Sarei cosí mai felice di svegliarmi domattina su al Mercato delle Scarpe! Si ricordi bene, Lei che è giovane, c'è tante cose belle al mondo, ma un altro Bergamo non c'è proprio mica, sa!”

“Lei è qui in servizio, non è vero? In servizio di belle signore, eh? Quando si tratta di belle signore, il senatore Clenezzi...”

“Andiamo, andiamo, non dica delle fatuità. Adesso arriva il conte Carrè, se Dio vuole, e allora io me la cavo presto. Lei va a Napoli?”

“Sí, signore.”

“Buon viaggio, neh?”

Il treno di Firenze entrò in stazione alle quattro e dieci. C'era calca, all'uscita, e fra la calca c'era il senatore con la bocca aperta e con gli occhi sbarrati, fissi sulla corrente che usciva. Passavano facce d'ogni età e d'ogni forma, esotiche e nostrali; facce che tiravan via dure coi fastidi in fronte di quel pigia pigia, di quella curiosità; e mai non compariva la faccia pallida, con il gran naso aristocratico, con la barba nera. Gli occhi del senatore diventavan sempre piú ansiosi. Oramai erano usciti quasi tutti, la folla s'era sciolta. Possibile? Si fece avanti, guardò, s'illuminò di piacere e andò incontro al conte Lao che veniva appunto l'ultimo, adagio adagio, fumando, con le mani in tasca e il bavero del soprabito rialzato. Lo seguiva un facchino carico di valigie, di scialli e di coperte.

“Caro conte” disse il senatore, “io sono qui a riceverla a nome delle Sue Signore.”

Lao gli fece un leggero cenno di saluto, gli chiese subito:

“E Cortis?”

“Ah, bene, bene! Oggi ne abbiamo 28, non è vero? Son passati tre giorni. Non c'è confronto col primo giorno.”

“Manco male!” esclamò il conte Lao. “Però potevano telegrafarmi ancora, darmi altre notizie. Io credevo quasi di trovarlo morto!”

“Ma, vede, non si sapeva quando Lei fosse partito, non si sapeva dove telegrafarle. E poi Lei ha potuto vedere il bollettino sui pubblici fogli.”

“Non ne leggo” fece il conte bruscamente, scotendo la testa. “Dunque guarisce?”

“Oh certo, non c'è dubbio, è quasi guarito adesso.”

Entrarono nell'omnibus della Minerva. Lao si affrettò di chiudere tutti i vetri, e si ravvolse le gambe in una coperta brontolando:

“In vagone si bolliva e qui si gela. Lui guarisce e creperò io.”

Clenezzi, che lo conosceva poco, lo guardava come una bestia curiosa.

“È infreddato?” diss'egli.

“Infreddato? Magari! Rovinato, sono. Del resto, sa, mi seccherebbe di morire a Roma, perché ogni volta che ci son venuto mi son pigliate le febbri, e, se risuscitassi qui, me le piglio subito ancora. Dunque mi dica. Cos'ha avuto Cortis?”

Il senatore gli raccontò tutto. Oramai la minaccia di congestione cerebrale era svanita e con essa qualunque pericolo.

“È ancora alla Camera?” chiese il conte.

“Ancora alla Camera.”

“E mia cognata? E mia nipote? Sempre là, m'immagino!”

“La baronessa Elena, sí, sempre là, tranne qualche ora la notte e qualche momento il giorno.”

“Però saranno tranquille, adesso?”

“Ma, so mica, ci sono per aria delle altre cose.”

Il conte Lao, assordato dal rumore dell'omnibus e delle carrozze con cui l'omnibus s'incrociava, maledí tutte le ruote di Roma e si chinò, stringendo gli occhi, verso il suo compagno.

“Cosa?” diss'egli.

Il senatore guardò fuori dell'omnibus fino a che quel fracasso fu passato e poi ripeté:

“Vi sono delle altre cose. Sa che la madre di Cortis è qui?”

“Daniele mi ha scritto che doveva venire” rispose il conte, “ma non sapevo che fosse già qui... Io gli ho risposto: Sei un asino. Senta, già; qualche bestia può avere il cuore cosí grande, ma un uomo, no.”

“Ecco dunque una causa di fastidi” riprese Clenezzi. “E poi... Lei sa, già... Si può dirlo... quel mio signor collega Suo parente...”

Il conte Lao aggrottò le ciglia, mise, stringendo le pugna, una lunga voce tra il rantolo e il ruggito.

“Basta, insomma” proseguí l'altro. “Adesso ci siamo. Sentirà.”

L'omnibus entrava allora in via Piè di Marmo. Un istante dopo il conte Lao saliva piano piano, con Clenezzi, le scale della Minerva, ed Elena gli scendeva incontro di corsa.

“T'ho visto” diss'ella stendendogli le braccia. “Come sono felice che tu sia qui!”

Lao se la strinse al petto silenziosamente, la baciò in fronte e, nel rialzare il viso, disse con voce commossa:

“Addio.”

Elena stese la mano a Clenezzi, piuttosto per congedarlo che per ringraziarlo. Le si vedeva in viso l'impazienza di restar sola con lo zio. Lo prese a braccetto.

“Andiamo su” diss'ella.

“Piano, piano” ripeteva Lao, “piano che ho otto maledette ore di ferrovia nella schiena, senza contare le dieci o dodici di ieri. Ho pensato che se non dormivo a Firenze arrivavo morto, e allora cosa ne volevi fare di me? Miracoli no, sai.”

“Caro zio!” sussurrò Elena stringendogli forte il braccio. “Noi siamo al secondo piano, ma per te ho fatto preparare una camera al primo e adesso andiamo subito da te. La mamma è andata a riposare un'ora fa. Mi aveva detto di svegliarla subito, ma possiamo aspettare un poco.”

“Spero in Dio” disse Lao “che non sarà mica a tramontana questa camera!”

“No, no, zio.”

Ci volle alquanto tempo prima che tutte le valigie, gli scialli e le coperte del nuovo arrivato fossero a posto. Finalmente zio e nipote si trovarono soli sopra un canapè, tenendosi per mano.

“Dunque” cominciò il primo, “Daniele bene?”

Elena rispose tranquillamente, senza alzar gli occhi in viso allo zio:

“Sí, benino.”

“Me l'ha detto adesso quel da Bergamo; come si chiama? Clenezzi. Di Daniele m'ha detto tutto. E poi m'ha detto anche di altri fastidi che avete.”

“Bisogna che tu sappia tutto e presto, zio; prima di veder la mamma, perché con la mamma, sai bene com'è, non si può parlarne. Si turba, si agita... insomma è meglio che ne parliamo prima tra noi.”

“Parla” disse Lao. “Io intanto, se permetti, prendo un po' di solfato di chinino. Venendo a Roma, per i primi giorni, va bene. Tu parla.”

Si alzò, aperse una sacca e si pose a cavarne con gran cura la sua farmacia, una quantità di ampolle e scatoline, guardandone alcune con molta attenzione e ripetendo “parla, parla”, perché Elena credeva allora dover interrompere il suo racconto.

Ella gli venne narrando in fretta che la zia Cortis era capitata alla Camera quasi subito dopo il caso e aveva fatto una mezza scena perché non la si era mandata ad avvertire sull'atto. Avrebbe preteso di rimaner sola presso suo figlio. Per fatalità Daniele tornava sempre nel delirio alla politica e alla madre, ne parlava nel modo piú penoso per lei e per gli altri presenti. Allora ella si metteva a singhiozzare e a discorrere senza posa, rivolgendosi ora all'ammalato stesso, ora agli altri, per dire ch'era tutto effetto della malattia, che suo figlio l'amava teneramente, che non era vero questo, che non era vero quello. Insomma i medici le consigliarono, per ogni buona ragione, di lasciarsi vedere il meno possibile dall'ammalato. Ella non volle saperne, anzi studiava di adoperarsi attorno al suo letto nel modo piú visibile. Elena non fece maggior commento allo zelo di sua zia che di questo significante aggettivo. Ell'avea trovato giusto di secondarla nelle sue premure materne, benché l'opera di lei fosse ben poco utile e le chiacchiere ben poco tollerabili. Ma poi la sera del 26, quando il delirio acuto era cessato, Daniele, vedendo tornar sua madre da una breve assenza, s'era fatto scuro scuro, l'aveva rimproverata acerbamente di lasciar la casa in abbandono per venire dove non c'era affatto bisogno di lei. Elena s'era provata di chetarlo, ma inutilmente; il suo esaltamento cresceva sempre piú, e stavolta i medici avean dovuto richiedere che la signora Cortis uscisse dalla camera e non vi rimettesse piede per qualche tempo. La zia era uscita fremendo e aveva atteso Elena nell'anticamera, l'aveva assalita con invettive furiose, accusandola di congiurare con i medici, di voler toglierle il cuore di suo figlio. Era uscito il medico, era uscito un segretario della Presidenza ed ella li aveva svillaneggiati in modo da farsi mettere alla porta, era partita giurando che domanderebbe giustizia al presidente, ai ministri, magari anche al re.

Lao, ch'era stato ad ascoltar le ultime parole di sua nipote con la pillola di chinino fra il pollice e l'indice della sinistra e un bicchier d'acqua nella destra, si trangugiò la sua pillola.

“E dunque?” diss'egli.

“E dunque lei è stata qui, tra iersera e stamattina, tre volte. La mamma non l'ha mai ricevuta. Alla Camera gli uscieri avevan l'ordine di non lasciarla passare, ma io ho pregato che fosse tolto. È venuta ieri; è venuta oggi; però da Daniele non è entrata mai e io non l'ho veduta. Ora mi attendo un assalto in strada e anche la mamma ne ha una gran paura.”

“Eh!” fece Lao. “Capacissima. Ma lasciami fare. Dove sta?”

“Qui vicino. In piazza Venezia. La conosci tu?”

“Eheh!”

Lao alzò il gomito destro, battè l'aria con la mano penzoloni dal polso.

“E poi c'è altro?” diss'egli.

“C'è il peggio” rispose Elena piano, con gli occhi bassi.

“Sentiamo il peggio.”

“Mio marito è qui.”

“Bene, sarebbe meglio che fosse a casa del diavolo, ma...”

Elena battè e ribattè sdegnosamente un piede a terra.

“Cosí, niente” diss'ella. “Non parlo piú.”

“Che sciocchezze!” grugní lo zio. “Avanti, avanti!”

“Senti, zio” replicò Elena rossa rossa. “Ti ho telegrafato tre giorni fa per Daniele, ma poi ti avrei telegrafato egualmente per mio marito e, se tu cominci cosí, è inutile!”

“Avanti!” brontolò il conte.

Elena si strinse nelle spalle, chinò il mento al petto, guardandosi le mani.

“Cosí no, già” diss'ella.

“Oh!” gridò l'altro “se è mezz'ora che ti dico: avanti!”

Elena alzò il viso, guardò un poco suo zio e poi disse a mezza voce:

“Rovina.”

“Avanti” ripeté Lao senza scomporsi.

Elena si fece a narrare quanto sapeva di suo marito sino al convegno avuto da lui con Daniele Cortis per l'affare della Banca.

“Cosa c'entrava Daniele?” disse Lao sorpreso.

“Credo che ci sia entrato per aiutarlo” rispose Elena col tono di chi deplora ciò che racconta.

“Lui?”

“Lui. Io non avrei mai voluto questo. Una volta pregai Clenezzi, da Cefalú, che facesse certe pratiche nell'interesse di mio marito, relative all'affare di cui t'ho detto. Clenezzi era ammalato e ne incaricò Daniele. C'è entrato cosí.”

“Va bene” rispose Lao tra ironico e rassegnato. “E dunque?”

“E dunque ieri Clenezzi è venuto da me e mi ha detto che si sentiva in dovere di riferirmi cose assai gravi. Non si tratta piú dell'affare con la Banca; si tratta d'un'altra tempesta di debiti d'ogni natura che non si possono piú tener nascosti. Pare che sarà un grande scandalo. Clenezzi poi diceva un'altra cosa.”

“Che cosa?”

“Che il suo contegno fa paura!”

La voce d'Elena tremava nel proferir queste parole; un pallore mortale le scolorava il viso. Lao non capí.

“Paura di che?” diss'egli.

“Di qualche estrema...”

Elena non poté compier la frase perché Lao la interruppe gittando le braccia in aria.

“Ma che il cielo lo illumini!” gridò. “Ma che si tiri una cannonata nella testa che non avrà mai fatto una piú bella cosa in vita sua!”

Gli occhi d'Elena sfavillarono.

“Invece bisogna aiutarlo” diss'ella. “Subito! E io e tu lo aiuteremo.”

Afferrò, cosí dicendo, un braccio dello zio con l'energia d'un'esaltata.

“Va là” disse lo zio alzandosi e scuotendo via quella mano. “Va là, va via, va di sopra, va là, sveglia tua madre, vestila, non seccarmi. Santo Dio, ho fatto un viaggio di dieci ore, potresti anche lasciar che mi lavassi, che mi mutassi! Insomma, va là, va via.”

“Vado, zio, ma lo aiuteremo” rispose Elena risolutamente, stando in piedi.

Egli le cinse la vita con un braccio, e le disse con affettuosa mansuetudine, spingendola verso l'uscio:

“Va là, ti dico, va via, cara, va dalla mamma, svegliala, non seccarmi e, quando sarò pronto, verrò su.”

Cosí dicendo arrivò all'uscio.

Ella ripeteva sempre:

“Lo aiuteremo, lo aiuteremo, lo aiuteremo.”

Uscí, e pochi minuti dopo tornò, bussò alla porta.

“Non si può!” gridò Lao, burbero.

“Io vado un momento a Montecitorio” diss'ella. “La mamma è al secondo piano, numero 39.”

Lao rispose forte: “Va bene!” e brontolò poi fra i denti:

“Vada a farsi benedire trentanove volte; stupida! Dorme, lei!”

E continuò la sua toeletta, esclamando a ogni tratto, nell'asciugarsi il viso o nell'abbottonarsi la sottoveste:

“Eh, begli affari! Corpo! Begli affari! Sí, sí!”

La toeletta andò in lungo perché il conte Ladislao aveva minuzie e delicatezze da signora. Finalmente, quando Dio volle, salí, molto cupo, al secondo piano, in cerca del numero 39.

Una cameriera glielo indicò ed egli stava per entrarvi, quando vi udí una voce sconosciuta. Si volse alla cameriera, le domandò chi fosse alloggiato al numero 39. Colei rispose:

“La contessa Carrè.”

“Ma adesso c'è altra gente!”

La cameriera non lo sapeva, non aveva veduto entrare alcuno.

“Seccature!” brontolò il conte; e, udendo la voce di sua cognata, entrò senz'altro.

La contessa Tarquinia, in piedi, rossa come una bragia, stava dicendo:

“Mi meraviglio...”

In faccia a lei la signora Cortis, pure in piedi, e con due fiamme nere d'occhi, ma pallida, alzava il braccio incontro a sua cognata, come per arrestarne le parole, per respingerle ancora in aria, e parlar lei, appena fosse possibile, subito.

Lao si fermò sulla soglia.

“Mi meraviglio” riprese la contessa, “e ho molto piacere che mio cognato senta, mi meraviglio del Suo coraggio...”

A questo punto la Cortis le volse le spalle, andò incontro a Lao.

“Il signor conte Ladislao” diss'ella timidamente, “se non isbaglio?”

Lao s'inchinò appena e rispose: “Per servirla.”

“Oh signor conte!” soggiunse lei. “Ella si deve ricordar di me e io mi ricordo ch'Ella aveva un gran cuore; mi appello a Lei.”

“A me?”

Lao fece un passo indietro e aperse la porta, dicendo:

“Allora venga al mio tribunale.”

La signora vacillò un momento, si turbò.

“No” disse, “non posso uscire da questa camera senza una promessa.”

“Ohoh!” fece Lao.

“Che promessa?” esclamò sdegnosamente la contessa Tarquinia. “Che promessa?”

“Sentiamo” disse il conte. “Non s'è appellata a me la signora? Se non vuole uscire, terremo il giudizio qui.”

Fe' un cenno del capo alla contessa Tarquinia, che andò difilata nella sua camera da letto e chiuse l'uscio in fretta. La signora Cortis fe' l'atto di slanciarsi e trattenerla ma non n'ebbe il tempo.

“Questa non è civiltà” diss'ella.

“Dunque” esclamò il conte Lao fingendo di non avere udito, “cos'è questa promessa che Lei vuole? Sediamo, sa, perché io ho viaggiato otto ore oggi. E intanto mi rallegro della Sua risurrezione.”

“Sarebbe meglio che fossi morta!” rispose tragicamente la signora.

Il conte serbò un silenzio significativo. Sdraiato nella poltrona della contessa Tarquinia, con le mani in tasca e una gamba accavalciata all'altra, guardava, dondolando il piede, la Cortis che si era lasciata cader sul canapè e si copriva il viso col fazzoletto.

“Poter del mondo!” esclamò a un tratto quasi parlando a se stesso.

La Cortis alzò la testa, lo interrogò con lo sguardo.

“Eh niente” diss'egli. “Pensavo alla visita che le ho fatta ad Alessandria nel 1853.”

“Oh, conte” gemette la signora brancicandosi il fazzoletto sulle ginocchia e guardando, a capo chino, questo inconscio lavoro. “Sono stata molto cattiva, ma ho anche molto sofferto! Lei, se si ricorda, me lo deve vedere in viso.”

“Altro che vedere!” rispose Lao. “E adesso, se crede, mi dica cosa voleva da mia cognata.”

“La Tarquinia mi ha trattato male. In fin dei conti, quando un figlio perdona, chi è che ha da fare il severo? E poi non ho mai saputo che la Tarquinia ai suoi tempi...”

“Sss!” fece Lao aggrottando le ciglia e scotendo la mano destra, distesa verso colei.

“Venga al punto” diss'egli.

“Una madre!” esclamò la signora levando le braccia. “Trattare cosí una madre! Ma dov'è il cuore, dov'è la virtú di questa gente?”

“Chi glielo domanda, a Lei, dove sono?” disse il conte. “Faccia il piacere di venire al punto.”

“La Maddalena” proseguí l'altra ispirata, “la Maddalena e Maria Egiziaca e tant'altre possono diventar sante...”

“Belle sante” mormorò Lao.

“Ma quelle donne lí? Senza carità in quel modo? Con una sventurata che non ha piú niente niente se non il suo figliuolo e il suo Dio? Ma come mai?”

“Oh senta!” disse Lao rizzandosi sulla poltrona e traendo l'orologio. “Le do un minuto per venire al punto.”

“Ci vengo” rispose la signora, sospirando. “Lei era piú gentile, una volta.”

“Naturalmente.”

La voce della Cortis cambiò, diventò secca e recisa.

“Dunque sappia” diss'ella “che io sono stata bandita, contro il diritto e la convenienza, dalla camera di mio figlio, dove pure ci va e ci viene da padrona, a tutte le ore, di giorno e di notte, una persona...”

La signora dovette qui vedere qualche cosa di terribile negli occhi del conte Ladislao, perché s'interruppe e riprese poi subito:

“Un'altra persona, insomma. Ma questo non basta. Mio figlio si rimette miracolosamente presto; ho tanto pregato, signor conte! Si dovrebbe pensare a trasportarlo in casa sua, dove starebbe tanto meglio, poverino. Dio lo sa, come starebbe meglio. Ma no! Sa cosa si pensa, sa cosa si vuole? Si vuole condurlo direttamente in campagna, e non a casa sua, ma a Passo di Rovese, in casa Carrè! Questo è troppo! A questo mi oppongo e mi opporrò sempre con tutti i mezzi!”

“Con che mezzi, cara Lei? Io non so niente, ma trovo naturalissimo che i medici ordinino a Daniele la campagna e la quiete assoluta. Trovo naturalissimo, poiché fra le altre cose la Camera ora è chiusa, di lasciar tranquillo l'ammalato fino al momento di porlo in un letto di ferrovia. Trovo naturalissimo che i suoi parenti, i suoi amici non lo vogliano lasciar solo, durante la convalescenza, in quella malinconia di Villascura, e preferiscano averlo con sè.”

“I suoi parenti?” esclamò la signora Cortis. “I suoi amici? E sua madre? Non è niente sua madre? Non starebbe bene, Daniele, a Villascura, con sua madre?”

“Vede” rispose il conte freddamente, “Lei accomoda subito le cose, ma, trattandosi della casa dove è morto suo padre, Daniele potrebbe forse avere qualche piccola difficoltà. Pare che l'abbia davvero; ne ha scritto qualche cosa anche a me. Del resto non è mica un fantoccio; lo dirà lui dove vuole andare e con chi.”

“Oh sí” interruppe inviperita la signora, “lo dirà lui, ma intanto, chi gli sta sempre ai fianchi, chi gli parla di Passo di Rovese, chi cerca ogni strada di staccarlo da me? Eh, li so i perché. I perché sono due. Uno è questo: che la Sua e mia signora cognata non mi ha mai potuto soffrire neppure quando il povero Cortis mi ha sposata. Secondo lei si era abbassato troppo. Ce n'è poi un altro dei perché, e questo non riguarda la Tarquinia, questo è un perché piú delicato che dirò solo in un caso estremo, se proprio si vorrà assolutamente condurre Daniele a Passo di Rovese. Allora poi lo dirò in modo che lo sappia anche Daniele. Se sarà uno scandalo non me ne importa, ma vedremo, allora, se Daniele andrà. Hanno paura dello scandalo? Mi promettano...”

“Ma che? Ma cosa?” interruppe Lao. “Ma cos'è questo scandalo? Cosa vuol dire?”

“In un caso estremo, Le ripeto. In un caso estremo lo dirò.”

“Ma che caso estremo!” disse il conte con gli occhi e la fronte in burrasca. “Che caso estremo! Metta pure che il caso sia estremo. Se hanno detto di far cosí, lo faranno, stia quieta. Non ne chiederanno mica il permesso a Lei, sa.”

La signora Cortis si morse il labbro, sorrise e disse lentamente, con grazia affettata:

“E la cara Elena che desidera tanto di far cosí, non ne chiederà il permesso al signor senatore Di Santa Giulia?”

Il conte Ladislao gittò impetuosamente il capo e il busto all'indietro, scrutò un momento la signora con gli occhi stretti, poi si levò in piedi e, steso il braccio sinistro e appuntato l'indice all'uscio, disse con minacciosa calma:

“Favorisca.”

“Oh vado, vado!” ripigliò la Cortis, alzandosi. “Vado perché oramai mi fa piacere d'andarmene. Del resto il signor senatore lo accorderà, il permesso, perché gli si fanno pagare i debiti da mio figlio...”

Il conte Ladislao era per afferrare colei e trascinarla fuori della stanza, quando l'uscio si aperse ed entrò Elena che, vedendo sua zia, rimase un momento sbalordita.

“Lascia passare!” tuonò il conte.

Elena non si moveva; interrogava l'uno e l'altra con gli occhi.

“Oh, Elena non è avvezza a lasciarmi passare” osservò ironicamente la signora.

“Non dipende da me” rispose Elena. “Del resto, ora vengo di là e posso dirti che Daniele ti desidera.”

La Cortis gittò verso Elena le lunghe braccia scarne, le mani distese. Col suo gran cappello nero alla Rembrandt alto sulla fronte, con i capelli in disordine, con la faccia terrea e il lungo collo giallognolo, con la mantellina nera mal posata sulle spalle, pareva una erinni inesperta delle vesti moderne.

“Ma sempre” imprecò, “ma sempre mi ha desiderato!”

E uscí a gran passi.

Elena guardò suo zio. Era livido, fremente.

“Subito!” diss'egli. “Cos'ha pagato, Cortis?” Elena spalancò gli occhi.

“Zio!” diss'ella.

“Cos'ha pagato Cortis, ti dico? Cos'ha pagato a tuo marito?”

Elena non capiva né quella domanda, né quella voce iraconda, né quel viso infuriato.

“Ma se non so niente” rispose. “Tutto quello che sapevo te l'ho detto.”

“Cosa gli è venuto in mente di cacciarsi lui fra queste faccende?”

Elena arrossí.

“Zio, zio!” diss'ella. “Ah!” soggiunse trasalendo. “Ora mi ricordo che mi disse di voler semplicemente fare le tue parti perché non v'era tempo d'interrogarti e d'informarti a dovere, e tu avresti certo approvato quel che faceva lui in vece tua.”

“Oh, ma allora si avverte, si scrive!”

“Tu non sai, zio” rispose Elena, “che Daniele ha veduto mio marito il 25 a mezzogiorno, subito prima di andare alla Camera.”

“È andata via?” chiese la contessa Tarquinia, porgendo il capo all'uscio della sua camera. “Signore, ti ringrazio!”

Il conte Lao non la guardò neppure.

“C'era nessun altro presente?” diss'egli.

“Ci dev'essere stato il rappresentante della Banca di Cefalú” rispose Elena. “L'avvocato Boglietti.”

Lao prese il cappello e disse risolutamente:

“Vado.”

“Dove?” chiese stupefatta la contessa Tarquinia. “Cosa è successo?”

“Non andresti da Daniele, prima?” chiese Elena alla sua volta.

Il conte Lao rispose in furia:

“No, no, no. Se vedo Daniele lo strapazzo, e adesso non conviene.”

“Ma ditemi” ripeteva sua cognata. “Cosa è successo?”

Elena le gittò un frettoloso “niente, mamma”, e poi disse che sarebbe uscita anche lei in cerca di suo marito. Oramai Daniele non aveva piú bisogno di lei. Suo zio le domandò se ci fosse in fatto il progetto di portarlo a villa Carrè. Sí, c'era, e i medici dicevano che Daniele avrebbe potuto partire anche l'indomani, ma non si sapeva ancora chi lo avrebbe potuto accompagnare. Lei già intendeva di non lasciar Roma senza aver fatto, prima, per suo marito quanto stava in lei; e contava che altri l'avrebbe aiutata.

“Lo debbo vedere stasera” diss'ella.

“Non so niente” gridò suo zio. “Non voglio saper niente: vado a cercare il signor Boglietti.”

“Boglietti?” disse la contessa. “Di dove è saltato fuori questo signor Boglietti?”

“Te lo spiegherò, mamma” rispose Elena mentre il conte Lao usciva.

La contessa lo richiamò.

“Ohe” diss'ella stendendogli la mano. “Sapete che non ci siamo ancora salutati?”

“Euh!” fece Lao alzando un braccio come se dicesse: mi seccate per questo? E se n'andò con tale saluto.

Elena domandò subito a sua madre come mai la Cortis avesse potuto entrare.

“Un bell'asino anche il tuo signor zio, sai; lascia che te lo dica!” rispose la contessa. “È quella la maniera? Capisco che dovrei esserci abituata, ma a certe cose non ci si abitua mai. Quell'altra? Lo so io come sia entrata? Me la son vista davanti senza saper altro. Figurati se ci ha pensato molto a venir su senza domandare a nessuno! Oh ti dico la verità che se sto qui ancora tre giorni, muoio tisica. Cara te, prendiamo su in nome di Dio questo benedetto Daniele, e andiamo. E tu cosa fai lí? Non ti levi il cappello?”

Elena posò l'ombrellino che teneva ancora in mano e si lasciò cadere sul canapè.

“Riposerò un poco” diss'ella, “debbo andar via. Te l'ho detto.”

“Tornar via?” esclamò sua madre sorpresa. “Non l'avevo inteso. In quello stato?”

Elena aveva nel volto, in tutta la persona, i segni d'un abbattimento profondo.

“Sto benissimo” diss'ella sottovoce, abbandonando il capo sulla spalliera del canapè. “Andrai tu con Daniele, mamma” continuò colla stessa voce sommessa, stanca. “Tu e lo zio.”

“Come, io e lo zio? E tu dunque?”

“Io no, mamma. Eri proprio distratta, poco fa.” La contessa non capiva in sè dallo stupore.

“Ma, benedetta!” diss'ella. “Cosa vuoi fare, tu?”

Elena teneva sempre il capo rovesciato sulla spalliera. Socchiuse gli occhi e rispose appena udibilmente:

“Restar qui.”

Poi rialzò il capo e la voce.

“Sai bene” diss'ella “perché sono venuta a Roma.”

Sua madre diè un balzo sulla poltrona, ne afferrò e strinse i due bracciuoli.

“Per tuo marito? Di' la verità che ti fermeresti a Roma per tuo marito! Senti, Elena. Tu sai quello che ho fatto una volta per aggiustare le cose, quel che ho sofferto. Te ne devi ricordare, a Passo di Rovese! Tu eri nelle nuvole, allora; non degnavi di occupartene. Dopo, lui ci ha trattati come ci ha trattati; lo sai anche questo. Pazienza! Tu sei sua moglie, ti lodo e ti rispetto, hai voluto venire a Roma per aiutarlo. Ci sono venuta anch'io disposta a trovarmi ancora con lui, a fare per lui quello che potevo. Ma adesso! Adesso che agisce in questo modo, che non si lascia vedere né vivo né morto, come se non gliene importasse uno zero né di te né di nessuno, ti dico la verità che saresti buona tre volte se non lo lasciassi nel suo brodo, giacché ci vuol stare! Ma scusami tanto, c'è poi anche debiti e debiti; Clenezzi mi ha dette certe cose! Ti domando io che decoro, che dignità c'è, per gente che si rispetta, ad avere ancora qualche cosa di comune con un essere simile!”

Elena sorrise un poco.

“Questo non l'ho udito” diss'ella “quando lo sposai, che in certi casi potrei non aver piú niente di comune con lui. Mi sono sposata sul serio, vedi, mamma.”

La contessa Tarquinia guardò sua figlia senza parlare, poi si coperse il viso con le mani e finalmente scoppiò in un pianto dirotto, ripetendo fra i singhiozzi:

“Perdonami! Perdonami!”

Elena la chetò con le carezze, con la dolce voce affettuosa. Sua madre non doveva rimproverarsi nulla; s'era ingannata, anche lei, non altro. Parlandole cosí, Elena pensava a quell'altra madre tanto colpevole, alla bontà di Daniele, e raddoppiava di tenerezze sentendosi dura e cattiva in confronto di lui.

“Debbo fare tutto il mio dovere” diss'ella.

La contessa le chiese dove fosse andato suo zio, da che Boglietti. Ella non aveva capito niente. Elena glielo spiegò in breve.

“E tu” soggiunse sua madre “dove vuoi andare?”

“A vedere mio marito, finalmente” rispose Elena. “Egli non mi aspetta, ma mi sono intesa con la sua padrona di casa. M'ha detto che di solito viene a casa un po' dopo le sette. Io non mi muovo se non gli ho parlato.”

“Oh Signore, quella bestia! Chi sa che scena ti fa! E noi, Elena quando si va via?”

“Non so, secondo si sentirà Daniele, domani posdomani.”

“Perché l'altro dí, dopo che lasciai te al museo Tiberino, ho visto da Noci delle poltroncine che sono una bellezza, e vorrei sceglierne due, una per città e una per Passo di Rovese. Avrei bisogno anche d'un servizio da thè per campagna, ma non ho danari.”

Elena che stava per pigliar congedo da sua madre con un bacio, sentí gelarsi tutta la sua tenerezza, rimase lí un momento, impietrita.

“Sarà anche ora di pranzo, adesso” osservò la contessa. “Devono essere le sei e mezzo passate.”

“Alle sette mi devo trovar là” disse Elena asciutta. “Addio.”

“E pranzare?”

Elena non rispose, non l'udí forse nemmeno. Era già uscita; e, rispondendo al saluto umile d'una cameriera, pensava che colei aveva probabilmente un cuore meno volgare di quello della contessa Carrè.

◄   Capitolo sedicesimo Capitolo diciottesimo   ►