Viaggio in Dalmazia: differenze tra le versioni

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coll’andare degli anni. Mi crederei il più fortunato di tutti i viaggiatori se, prima di finir d’esistere su la nostra terra, potessi esser convinto d’aver esistito utilmente.
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AL CHIARISSIMO SIGNOR
ABBATE
GABRIELLO DOTTOR BRUNELLI’140
PROFESSOR DISEGNATO DI STORIA NATURALE
NELL’ISTITUTO DI BOLOGNA
Del Contado di Sibenico, o Sebenico
Il mio viaggio in Dalmazia, interrompendo per qualche tempo il commercio di lettere che tien viva da parecchi anni l’amicizia nostra, dee avervi messo qualche curiosità intorno a’ risultati di esso. Amatore della storia naturale, e destinato a professarla in codesta rinomata Accademia141, dov’ella rinacque mercé le fatiche degli Aldrovandi, de’ Malpighi, de’ Marsigli, ricercatore diligentissimo di manoscritti e documenti atti a spargere qualche lume su la storia letteraria de’ passati secoli, e di ogni esotica notizia buon giudice ed apprezzatore, Voi siete quasi più d’ogni altro a portata di gradire la varietà de’ miei dettagli. Ecco ch’io ve ne indirizzo una parte, affinché vi serva di prova della mia costante stima ed amicizia per Voi, e di qualche concambio alle notizie che mi communicate sovente da codesta nobilissima vostra patria, dove ogni genere di letteratura ed ogni scienza fiorisce.
 
§. 1. Del territorio e della città di Sibenico
 
Fra le provincie tutte della Dalmazia da me visitate, la più atta a tenere molto
140 Naturalista bolognese (1728-1796). Fu custode dell’Orto botanico e dal 1769 professore di storia naturale all’Istituto di Scienze di Bologna.
141 Nel 1711 a Bologna nacque l’istituto delle Scienze in cui confluì l’Accademia delle Scienze, già Accademia degli Inquieti, che trovò in Luigi Ferdinando Marsili (viaggiatore e naturalista di stampo galileiano, autore di studi sulla scienza del mare che aprirono la strada alla moderna oceanografia), non solo un attivo collaboratore, ma anche un finanziatore generoso. I tre scienziati sono qui accomunati in quanto precursori (Ulisse Aldovrandi, 1522-1605, lettore dello Studio bolognese, fondatore dell’Orto botanico e collezionista di preziose e rare raccolte di animali, fossili, vegetali e minerali che descrisse e illustrò in tredici libri), o effettivi rappresentanti (Marsili stesso e Marcello Malpighi, 1628-94, naturalista, biologo e medico, fondatore dell’anatomia microscopica e autore dì fondamentali osservazioni, tuttora alla base della moderna fisiologia e patologia) di quella scienza moderna e della rinascita degli studi bolognesi ad essa collegata.
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tempo occupato un osservatore si è certamente il territorio di Sibenico, che stendesi lungo il mare per trenta buone miglia, penetrando oltre venti in alcun luogo fra terra, ed abbraccia intorno a settanta fra isole e scoglietti minori. La varietà degli oggetti, l’amenità delle situazioni, la buona sorte d’avervi incontrato egregi ospiti, e un ristretto numero di cortesi ed attivi amici, fra’ quali a cagion d’onore mi giova nominare la famiglia del conte Francesco Draganich Veranzio, coltissima ed ospitalissima, e ‘l conte Giacinto Soppe Papali, di soavissimi costumi e di cognizioni al viaggiatore utilissime fornito, m’avrebbe determinato a fissare colà per qualche mese il mio soggiorno, facendo quella colta città centro delle mie escursioni marine o montane pe’ vicini luoghi. Ma il giusto timore d’essere sindacato, timore cui ben giustificò in parte l’esito della mia spedizione, mi trasse a forza da que’ contorni e mi costrinse a contentarmi d’aver incominciato parecchie osservazioni, senza quasi condurne a perfezione veruna; verità che non iscandalezzerà punto Voi, né qualunque altro abituato ad osservare, e che sa per conseguenza quanto tempo esigno le più minute ricerche per esser ben eseguite, ed a compito stato ridotte. La città di Sibenico, quarantacinque miglia a dritta linea lontana da Zara, non vanta origine illustre. Coloro che la vollero nata dalle rovine di Sicum, stabilimento romano dove Claudio mandò una colonia di veterania, ebbero così deboli ragioni per istabilire questa opinione, ch’ella cadde da per se sola. La Tavola peutingeriana non mette in Dalmazia altro nome di luogo simile a Sicum, se non se Siclis; e questo fra Traù e Salona. Nessun vestigio d’antichità rimota qualifica Sibenico; non residui di mura, non petrame di lavoro romano. Una sola iscrizione vi si vede, incassata nelle mura della città presso alla porta che conduce al molo, e questa vi fu portata da quella parte interna del territorio che chiamasi il Campo di sopra, dove probabilmente sorse ne’ tempi antichi Tariona. Il Lucio vuole che Sibenico sia stato fabbricato da’ Croati ne’ tempi della decadenza dell’Impero, e Giambatista
a Plin,, 1. III. C. XXII. «Tragurium civium romanorum marmore notum; Sicum, in quem locum divus Claudius veteranos misit».
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Giustiniano142, che fiorì un secolo prima, nella sua relazione manoscritta della Dalmazia dice che questa città «fu fabbricata da Malandrini, o Euscocchi che vogliamo dire, i quali avanti l’edificazione di essa solevano abitare sopra uno scoglio alto, dove ora è fabbricato il castello, dal quale come vedevano qualche navilio discendevano dal monte; e con le barche, le quali stavano ascose appiè dello scoglio intorno a cui erano folti boschi, andavano a depredar detti navili; col tempo incominciarono a drizzare alcune casette, attorniate di certe bacchette chiamate sibice, dal cui nome fu nominata la città Sibinico. Questa città a poco a poco incominciò ad aumentarsi dalle adunazioni di questi ladroni. Si crede poi che, ruinata e distrutta l’antichissima città di Scardona nel tempo delle antiche guerre, molti di quegli abitanti si riducessero a Sibinico, di modo che se ben allora non avea nome di città, col tempo l’acquistò e si governò molti anni senza esser sottoposta ad altri principi che agli abitanti di se medesima. Ma non durò questa libertà, imperciocché il Re d’Ungheria, che allora signoreggiava la Dalmazia, incominciò a tiranneggiarla, dalla qual tirannide volendosi liberare i Sibenzani, non potendo più sopportare le insolenze degli Ungheri usate contro le mogli, e contro le figliuole, e nelle proprie facoltà, deliberarono di sottoporsi alla Signoria, come a principe giusto, del 1412 a’ dodeci del mese di luglio, essendo principe il Serenissimo Michele Steno, di felice memoria».
Qualunque sia stato veramente il principio di questa città, o simile a quello di Roma o da una serie di piccoli accrescimenti prodotto, ella è la meglio e più teatralmente situata che v’abbia in Dalmazia, e dopo Zara la meglio fabbricata e popolata di nobili famiglie, tanto lontane dalle barbare maniere degli antichi pirati, quanto le case loro lo sono dalle meschine sibice. Il castello eretto sul monte che la copre, poté preservarla dai replicati sforzi de’ Turchi; e per difenderla dalla parte del mare, v’ha, dinanzi all’angusto canale che introduce nel porto, un altro
142 Senatore veneto della meta del XVI sec. Una sua relazione relativa alla situazione politica, economica e geografica delle comunità dalmatiche del 1553, e stata pubblicata da Simone Gliubich in Commissiones et relationes venetae, II, 199-207, 1848.
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forte, bell’opera del Sammicheli143, che vi ha messo una porta molto simile a quella sua celebre di Verona. Fra le fabbriche di Sibenico merita d’essere osservato il Duomo, quantunque sia di tempi barbari, per la magnificenza del fabbricato e molto più pel suo tetto composto di gran tavole di marmo connesse insieme: lavoro ardito quanto qualunque altro analogo di tempi romani. In questa città fiorirono nel xvi secolo le lettere e le arti più che in qualunque altra della Dalmazia. Vi si vede in più d’una fabbrica buon gusto d’architettura, e vi nacquero molti uomini degni di particolare menzione.
 
§. 2. De’ letterati che nacquero o fiorirono nel XVI secolo a Sibenico; e de’ pittori
 
Fra tutti gli uomini illustri, de’ quali può vantarsi madre la Dalmazia, merita per ogni titolo il primo luogo Antonio Veranzio da Sibenico. Di questo grand’uomo trovansi memorie sparse in vari libri contemporanei, e presso a qualche scrittor posteriore di cose ungaresi; ma niuno ha scritto di propositoa la di lui vita, ch’è ben degna d’aver luogo distinto fra quelle degli uomini di Stato, non meno che fra quelle de’ letterati. Io non ho i talenti necessari per tesserla, né forse il tempo: ma credo di farvi un piacere communicandovi in succinto le notizie, che ne ho potuto raccogliere dalle preziose carte conservate presso la nobilissima famiglia de’ conti Draganich Veranzi.
Nacque Antonio Veranzio, il dì ventinove di maggio 1504 da Francesco, nobile sebenzano, e da Margherita Statileo, gentildonna traurina, La prima puerizia passò in Traù presso gli zii materni: ma ben presto fu reso alla patria, dov’ebbe per precettore Elio Tolimero, del quale fra le Carte veranziane conservansi varie poesie latine manoscritte di qualche pregio. Dalla Dalmazia, già ben nutrito nelle
143 L’allusione è al Forte s. Nicolò, opera dell’architetto veronese (1484-1559) che realizzò l’intero complesso delle opere difensive della Repubblica, da Venezia all’Oriente. Nella città di Sebenico, gli interventi del Sanmicheli coincisero con la necessità di trasformare la città rinascimentale in piazzaforte contro la minaccia dei Turchi.
a Il Belio nell’Hungaria Nova, I. I, e lo Schmitth, negli Archiepiscopi Strigonienses compendio dati, abbozzarono la vita del Veranzio; ma entrambi presero degli sbagli e trattarono assai digiunamente il loro soggetto. Lo Szentivanio poi credette ch’egli fosse nato in Transilvania.
 
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lettere greche e latine, fu chiamato a Vesprimio presso il celebre vescovo e bano Pietro Berislavo, traurino, ch’era pur suo zio dal lato della madre; ed ebbe colà i primi rudimenti dell’arte militare. Ucciso dai Turchi barbaramente nel 1520 il guerriero vescovo, Giovanni Statileo, uomo d’autorità somma nella corte d’Ungheria e vescovo transilvano, chiamò a se il nostro Antonio e il di lui fratello Michele, suoi nipoti. Una delle prime occupazioni del bennato giovane sembra sia stata la compilazione della vita del morto Berislavo, ch’è quella medesima cui s’appropriò cent’anni dopo, con impudentissimo plagio, il Tomco Marnavich, senza quasi cangiarvi una parolab. Intorno a questo tempo Antonio fu mandato all’Università di Padova; ma le turbolenze insorte nel Regno d’Ungheria fecero che fosse richiamato ben presto. Sembra ch’egli possa aver continuato gli studi a Vienna, indi a Cracovia, nelle quali due Università certamente studiò Michele. Ritornatosene in Ungheria presso lo zio, che asprissimo e tenace uomo era, e con villane parole i nipoti suoi vilipendeva maisempre. Antonio usò d’un’eroica pazienza, né si lasciò sedurre dall’esempio del fratello che la perdette dopo breve tempo. Egli si raccomandò a Stefano Broderico, vescovo vaciense (del quale resta un pregevole Commentario manoscritto della fatal giornata di Mohacz, ove combatté personalmente) e al monaco Giorgio Utissenio145, ch’erano potentissimi alla corte del re Giovanni Sepusio146. Fu impiegato dallo sfortunato monarca sin dal 1528 in commissioni spinose verso i confini del turbulentissimo regno; e trovavasi presso di lui allora quando fu assediato in Buda da Guglielmo
b Vita Petri Berislavi Vesprim. Ep. Sclav. Dalm. et Croat. Bani, Jo. Tomco Marnavitio Auctore, Ven., ap. Evang. Deuch., 1620, in 8°.
144 Vescovo di Vać e diplomatico ungherese (1471-1539), seguì Luigi II nella battaglia di Mohacz che, con la vittoria del sultano Solimano, sancì la fine dell’Ungheria come grande potenza (1526). La narrazione di Broderico degli avvenimenti di cui fu testimone è pubblicata nelle Rerum Hungaricarum decades.
145 Uomo di stato, nato vicino a Scardona (1482-1551), fu consigliere e tesoriere di Giovanni Zapolyai, poi governatore e giudice supremo. Tentò di migliorare i rapporti tra l’Ungheria e i Turchi. Alla morte di Zapolyai difese gli interessi degli eredi. Fu fatto giustiziare da Ferdinando, che pur prima l’aveva ordinato cardinale.
 
 
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Rogendolff, generale de’ malcontenti. Ottenne il posto di segretario regio, e la Prepositura di Buda Vecchia, de’ quali benefici ringraziò particolarmente con un’elegia il Broderico. Andò in Transilvania commissionato dal Re, per agirvi gli affari del Vescovado in luogo dello Statileo; ed apparisce dalle sue schede, che non solo vi ricopiasse le iscrizioni esposte, ma eziandio che ne facesse scavare da’ luoghi dove apparivano ruderi romani. Sciolto l’assedio di Buda nel 1330 fu inviato a Sigismondo, re di Polonia, due volte e due alla Serenissima Repubblica di Venezia. Nell’anno seguente andò a papa Clemente VII, poi a Paolo III, ed appena ritornato in Ungheria a Sigismondo di nuovo. Sul finire del 1534 passò in Francia spedito dal signor suo al re Francesco I, dove fu due volte; indi in Inghilterra ad Arrigo VIII, presso di cui ritrovavasi nel mese di gennaio 1535. E probabile che intorno a questo tempo egli stringesse amicizia col grand’Erasmo Rotterodamo, e imparasse a stimare il Melantone: del primo si conserva diligentemente ancora una lettera, presso il soprallodato conte Francesco Draganich Veranzio, e in lode del secondo leggesi un epigramma fra le poesie latine manoscritte del nostro Antonio. Nel testamento ch’egli fece prima d’andare in Francia leggonsi queste parole: «Mihi, si moriar, pompas sepulchrales, aut Missas fieri nolo ullas. Hospitale pauperum juvetur. Ego contentus ero si in Domino moriar», tratto che prova certamente almeno la di lui carità verso i poveri. Ritornato alla corte fu dal suo Re spedito con altri due colleghi ambasciatore a Ferdinando d’Austria re di Boemia: ma con poco frutto. Il re Giovanni morì del 1540; e il Veranzio, di cui si conservano due lunghe lettere su di questo avvenimento, scritte a Giovanni Statileo147 allora ambasciatore in Francia, sembrava indivisibilmente attaccato agl’interessi della regina vedova Isabella e del pupillo Giovanni II. Pella ottava volta fu inviato da Isabella al re Sigismondo, che aveva preso moglie nel 1543; ed è stampata in Cracovia l’orazione da esso recitata in quell’occasione, che vivamente dipingendo le luttuose circostanze dell’infelice Regina, fece piangere gli ascoltanti. Dopo breve riposo, nell’anno medesimo fu
 
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mandato al re Ferdinando, da cui fu accolto umanissimamente e trattato a pranzo. Sembra che da quest’epoca egli abbia incominciato a raffreddarsi verso Isabella, i di cui affari piegavano malissimo. Trovo che del 1544 rinunziò a Giorgio Utissenio la Prepositura transilvana, il che non fece volontieri, come apparisce dai frammenti d’un dialogo ch’ei scrisse molti anni dopo. Ad onta di questo, il nostro Antonio restò qualche mese ancora nella corte d’Isabella, e pella nona volta andò in Polonia a trattar d’affari con Sigismondo; dopo la qual commissione dimandò il suo congedo e passò a Sibenico, d’onde partì conducendo seco due o tre de’ suoi nipoti, fra’ quali Fausto. Si può pensare ch’egli abbia fatto qualche dimora in Italia sino al 1549, intorno al qual tempo si ridusse alla corte del re Ferdinando, che su le prime diegli sufficienti rendite ecclesiastiche, indi principiò a impiegarlo. Del 1553 fu deputato ad Aly-Bassà, beglierbego148 di Buda, e nell’anno medesimo fu creato vescovo di Cinque-Chiese e consigliere regio; indi spedito ambasciatore in Turchia con Francesco Zay. Di questo suo viaggio egli deve avere scritto un esteso giornale, di cui non ci rimane altro che un frammento degnissimo di vedere la lucea. Antonio dovette seguire Solimano, che andò a portar la guerra su le frontiere della Persia; e per cinque anni errò coll’esercito turchesco di paese in paese. Egli profittò della lunga dimora per unire molte memorie spettanti alla polizia, all’arte militare de’ Turchi e alla corografia delle contrade soggette alla Porta. Augerio Busbekio150, di cui abbiamo un trattato del governo ottomano fra le Repubbliche elzeviriane, andava e veniva in questo frattempo da Vienna in
 
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Turchia, e finalmente concluse una tregua. Il Veranzio e lo Zay partirono di là, al dire del Busbekio medesimo, agli ultimi d’agosto del 1557. Non finì l’anno che Antonio fu traslato dal vescovato di Cinque-Chiese a quello d’Agria; nel seguente trovasi una lettera di Paolo Manuzio151 al nostro vescovo, che n’ebbe anche una dal celebre e sfortunato Aonio Paleario152 nel 1560. Fra le carte veranziane ch’io ho sotto gli occhi, non trovo cosa rimarchevole sino al 1567, nel qual anno andò per la seconda volta ambasciadore alla Porta, pell’imperadore Massimiliano II. Il trattato di pace con Selimo II fu condotto a fine in pochi mesi dallo sperimentato ministro, e grandissimo vantaggio ne venne a tutta la Cristianità. Di quest’ambasciata celebra le lodi un poemetto elegiaco di Giovanni Seccervizio. Molti libri manoscritti dovette raccogliere nelle due spedizioni alla corte ottomana il dotto prelato, de’ quali pell’ingiuria de’ tempi non ci restano memorie: ma basta, per far onore al di lui genio, la traduzione ch’egli fece fare degli Annali turches chi da lui trovati in Ancira. Questo codice, che si conserva colle altre di lui carte a Sebenico, è quel medesimo da cui trasse gran parte della sua opera il Leunclaviob e che dai dotti è conosciuto sotto il nome di Codice Veranziano. Resosi gloriosamente alla corte, non tardò ad avere il premio delle sue fatiche; e nel 1569 fu creato Arcivescovo di Strigonio, che dopo il Re è la prima figura dell’Ungheria, alla qual dignità si aggiunse nel 1572 quella di Viceré. In quest’anno egli coronò Re d’Ungheria l’arciduca d’Austria Rodolfo; e trovasi, stampata in Venezia dal Rampazetto, l’orazione ch’ei recitò in quell’occasione a nome degli stati ungaresi. Giovanni Seccervizio pubblicò a Vienna un panegirico in versi latini intitolato Verantius, al quale trovansi unite varie poesie pur latine d’autori tedeschi; Giovan Mario Verdizotti stampò in Venezia un poemetto, diretto all’arcivescovo Veranzio,
151 Editore e umanista (1512-74), visse tra Venezia — dove diresse la tipografia del padre — e Roma, dove fu stampatore per il Papa. Ebbe fama di grande latinista: oltre ai commenti ai classici da lui pubblicati, lasciò centinaia di epistole in volgare e in latino.
152 Antonio della Paglia, umanista e teologo (1503-1570) fu professore di eloquenza e autore di orazioni ed epistole. Rappresentante del complesso rapporto tra Umanesimo e Riforma, sospettato di coltivare idee protestanti, fu processato e condannato come eretico.
 
b Leunclav., Hist. Turc, lib, I, p. 31. Schmitth, op. cit., in Ver.
 
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sopra la vittoria navale riportata l’anno innanzi dell’armi venete sopra i Turchic. Nel principio del 1573 Pietro Illicino gli dedicò un’opera teologica. Probabilmente molti altri Veduta di Sebenico libri uscirono sotto gli auspizi di lui; il buon prelato era magnifico protettore d’ogni sorte di letteratura. Ma egli trovavasi di già al fine della laboriosa sua vita. Portatosi a Eperies per attendere alla giudicatura ne’ Comizi del Regno, egli cadde ammalato. Su le prime si lasciò medicare: ma sentitosi aggravare fuor dell’usato allontanò da se i medici spontaneamente, ed aspettò la morte con cristiana e filosofica tranquillità. I letterati perdettero un generoso mecenate, i poveri un padre caritatevole, l’Ungheria e la cristianità tutta un consumato uomo di stato, il dì quindici di giugno 1373, pochi giorni dopo che gli erano state recate lettere affettuosissime di papa Gregorio XIII, colle quali gli si annunziava la sua elezione al cardinalato, procuratagli da un vero merito, Michele Duborozky recitò l’orazione funebre al cadavere, che fu sepolto con onorevolissima iscrizione nella chiesa di s. Niccolò di Tirnavia. Di questo illustre prelato parlarono con elogio, oltre i soprannominati Belio, Leunclavio, Schmittio, Busbekio, Manuzio, Seccervizio, anche il Bonfinio153 nelle sue Decadi Ungariche, l’Istuamfio154 di lui continuatore, il Jongelino nel Catalogo de’ Palatini, l’autore dell’opera intitolata Castrum strigoniense aureum, che ne fa amplissimo panegirico in poche parole, e molti altri scrittori. Antonio fu di bella statura e ben proporzionato, di carnagione dilicata, d’aperta e nobile fisonomia; il naso avea lungo, gli occhi azzurri, la bionda barba gli arrivava alla cintola. Nella sua gioventù sembra che sia stato portato agli amori, non potendosi credere affatto finti i molti versi erotici, ch’egli lasciò manoscritti. Alla bellezza e dignità della persona egli congiunse in sommo grado la facondia, qualità che come lo rese accetto sin dall’età più fresca ai Sovrani di varie contrade, così dovette renderlo
c Jo Verdizorti, Oraculum pro magna navali victoria et c. ad Antonium Verantium Strig Archiep, Ven., apud Guerraeos, 1572.
153 Antonio Bonfini (1427-1500) per incarico di Mattia Corvino intraprese la redazione della storia d’Ungheria: le famose Rerum Hungaricarum decades IV.
154 Nicola Isthvanfi, uomo di stato ungherese (1535-1615), scrisse la storia dell’Ungheria dal 1490 aI 1605: in Htstoriarum de rebus Hungaricis libri XXXIV (Colonia 1622). Il Catalogo di Gaspar Jongelin (1605-1660) è pubblicato in Scriptores rerum Hungaricarum veteres (1746).
 
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fortunato in amore. La dolcezza delle di lui maniere era veramente la mostra esterna d’un animo dolcissimo; s’egli usò di pazienza eroica collo zio Statileo non lo fece già per accortezza, ma per buon animo. Fa d’uopo che qualche grave offesa lo abbia staccato dalla regina Isabella, senza di che egli avrebbe persistito. Crescendo in dignità e in ricchezze non crebbe in superbia, tua sì bene in magnanimità e beneficenza; del grand’animo di lui può esser prova il dono fatto spontanea mente all’imperador Ferdinando di 30.000 fiorini d’Ungheria, ch’egli avea spesi per pagare le milizie in tempo che l’erario era sprovveduto. Quindi ad onta delle immense rendite ch’ei possedeva, allorché venne a morire, fu d’uopo vendere gli argenti vescovili e gli arredi preziosi per pagare i suoi debiti. Negli affari politici avea grandissima penetrazione; né per sua opinione si sarebbe mai dichiarata la guerra al Turco, se non da una ben connessa e potentissima lega di Principi cristiani. Quantunque occupatissimo negli affari, egli conservò mai sempre una predilezione distinta pelle lettere e trovò delle ore per applicarvi. Restano delle di lui opere manoscritte.
<poem>
1. Vita Petri Berislavi.
2. Iter Buda Hadrianopolim.
3. De situ Moldaviae et Transalpinae. Fragmentum.
4. De rebus gestis Joannis Regis Hwzgariae. Libri duo.
5. De obitu Joannis Regis Hungariae, Epistolae ad Joannem Statiliurn Episcopum transylvanum datae, dum idem Statilius in Gallia oratorem agerel anno 1540.
6. Animadversiones in Pauli Jovii historiam, ad ipsum Jovium.
7. De obsidione, et interceptione Budae; ad Petrum Petrovvith.
8. Vita F. Georgii Utissenii, quae pene tota periit,
9. Collectio antiquorum epigrammatum.
10. Multa ad historiam hungaricam sui temporis.
11. Otia, seu Carmina.
</poem>
 
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Michele Veranzio, fratello dell’Arcivescovo, non fece così luminosa figura. Egli si stancò di sopportare lo Statileo e visse disagiatamente per qualche tempo in Ungheria, poi finalmente tornossene a Sibenico. Egli scrisse con più purgato stile che quello d’Antonio, così in prosa come in versi. Il Tomco Marnavich cita un’opera di Michele Veranzio sopra la storia ungarica de’ suoi tempi: ma di questa non si trova più che un frammento attinente all’anno 1536. Non so se di lui v’abbia altra cosa stampata che un’elegia fra i versi latini di Girolamo Arconati155, Lasciò manoscritti alcuni pezzi di poesia non ineleganti, e un’orazione ai Transilvani, colla quale vuoi persuaderli a mettersi piuttosto sotto la protezione del Turco, che divenir sudditi del re Ferdinando.
 
Fausto e Giovanni, figli di Michele, furono affidati allo zio Antonio perché pensasse alla loro educazione. Di Giovanni ci rimangono alcuni epigrammi da scuola. Egli morì giovinetto in battaglia. Fausto visse lungamente ed avrebbe potuto essere ricco e felice: ma la sua fervidezza lo fece essere mediocremente provveduto ed inquieto. Ebbe delle traversie per aver compromesso sconsigliatamente la corte d’Ungheria con quella di Roma in materia beneficiaria; e quindi morì vescovo di Canadio, in partibus. Pubblicò in Venezia un Dizionanetto pentaglotto nel 1595, indi un volume infolio, intitolato Le Macchine, e una brevissima Logichetta, in 24°, sotto il nome di Giusto Verace156. Per quest’ultimo opuscolo entrò in relazione con due celeberrimi uomini, vale a dire con frate Tommaso Campanella e coll’arcivescovo de Dominis157. Del primo conservasi fra le carte veranziane una censura autografa della Logichetta
 
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medesima; ed una pur ne rimane del de Dominis. Fausto scrisse molto e fra le altre cose una Storia della Dalmazia, cui volle aver seco in sepoltura. Gli eredi suoi rispettarono questa strana volontà; e chi sa quante preziose carte dell’arcivescovo Antonio perirono allora deplorabilmente insieme con quelle di Fausto? Questi morì del 1617, e fu sepolto nell’isola di Parvicha. Il Tomco Marnavizio gli fece l’orazione funebre, ch’è stampata in Venezia nello stesso anno. Carlo Veranzio nipote di Fausto non lasciò dopo di se libri stampati, né opere inedite: ma fu protettore degli studiosi, raccoglitore di buoni libri ed intelligente d’antiquaria.
 
Giovanni Tomco Marnavich nacque del 1579, di bassa gente, quantunqu’egli abbia poi voluto nobilitarsi fino al darsi origine reale, pazzia che gli costò grandissimi dispiaceri. Egli fu educato da’ Gesuiti a Roma, e sino dal 1603 avea già dato forma a un grosso manoscritto De Illyrico, Caesaribusque Illyricis, che si conserva ancora quantunque sia un po’ mutilato. Del 1617 trovavasi al servigio del Vescovo canadiense, pella cui morte pubblicò l’orazione soprindicata. Frugando nelle carte veranziane, costui avrà rubato chi sa quante cose! Così dee far giudicare il plagio della Vita di Pietro Berislavo, ch’egli dié alla luce del 1620, non altro aggiungendovi che alcuni periodi per farsi di lui congiunto, e sopprimendo le poche linee che scoprivano il vero biografo Antonio Veranzio. Fra le molte cose pubblicate colle stampe di quest’uomo, è la migliore una dissertazione Pro sacris Ecclesiarum ornamentis, et donariis, contra eorum detractores, a Roma, 1635, in 8°. Egli era allora vescovo di Bosna. Pochi anni prima avea dato alla luce un leggendario di santi illirici di stirpe reale, col titolo Regiae sanctitatis Illyricanae foecundiras, in 4°, 1630, nel quale fra gli altri santi annovera Costantino imperadore, a cui sanno ben tutti quanto male il titolo di santo convengasi. Gli altri opusculi del Tomco non meritano d’essere riferiti.
 
a Oltre alle accennate cose stampate Fausto Veranzio pubblicò a Roma Xivot nikoliko izabraniih diwiicz, 1606, in 8°. e lasciò un volume manoscritto Regola Cancellariae Regni Hungariae.
 
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Jacopo Armolusich, creato di Carlo Veranzio, lasciò molti versi manoscritti. Pubblicò a Padova del 1643 un libretto, Slava xenska sprotivni odgovor Giacova Armolusichia Scibençanina çuitu sestomu, in 4°.
Guarino Tihich, o sia Tranquillo, visse nel principio del XVI secolo e lasciò delle poesie sacre manoscritte.
Pietro Difnico, contemporaneo de’ due primi Veranzi, scrisse alcune poesie nell’idioma illirico. Dalla medesima famiglia qualche altro dotto uomo debb’essere stato prodotto: ma io ne cercai senza frutto le notizie. Di questo Pietro vi parlerò più sotto, e d’un
Giovanni Nardino, che scrisse in versi elegiaci latini Delle lodi di Sebenico, soggetto che fu anche trattato da un
Giorgio Sisgoreo, di cui cita l’opera il Tomco. Ogni diligenza usata per rinvenirla fu vana.
Pietro Macroneo sebenzano, canonico di Scardona, quantunque nominato da me dopo tutti gli altri, visse in più rimoti tempi. Fra i manoscritti posseduti nel 1634 da Lorenzo Ferenczfi a Vienna, varie cose trovavansi del Macroneo, che fiorì cencinquant’anni più addietro. Un solo opuscolo di lui è stampato, stranissimo opuscolo, che ha per titolo Controversia Lyaei atque Tethidis, Vienna, 1634. E un pasticcio di passi scritturali parodiati per servire a questa lite, tratta nulla meno che dinanzi al tribunale di Dio. Forse il Macroneo lo fece con buona fede: ma ne’
 
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tempi nostri corrotti questo accozzamento di sacro e di profano avrebbe tutta l’apparenza d’una beffa.
Nacque a Sibenico Martino Rota164, dipintore e incisore, di cui ci restano parecchie stampe, fra le quali varie carte corografiche della Dalmazia che, quantunque poco esatte, sono di qualche uso. Due de’ tre ritratti in rame d’Antonio Veranzio, che si conservano fra molte altre preziose carte di quel grand’uomo presso la non mai abbastanza lodata famiglia de’ conti Draganich Veranzj, vengono dal bulino di questo artefice. Fu anche nativo di Sibenico Andrea, d’oscura origine conosciuto sotto il nome di Schiavone165, valoroso dipintore, le di cui opere in molto pregio sono tenute dagli amatori, ad onta del disfavorevole giudizio formatone dal Vasari.
 
§. 3. Porto di Sibenico e Lago scardonitano. Costumanze antiche
 
L’ampio porto, in riva del quale stesa sul pendio d’un colle sorge la città di Sibenico, spalleggiata dai monti Tartari, asprissimi e coperti di ghiaie d’antichi fiumi rassodate in breccie, è uno de’ più belli che si possano vedere, pella varietà delle colline e piccioli promontori che lo circondano a foggia di teatro. Il fiume Kerka, dopo d’aver messo foce nel lago di Scardona, e d’avervi confuso le proprie acque con quelle del fiume Goducchia e del torrente Jujova, che vi si scaricano anch’essi all’estremità opposta, si rincanala fra’ dirupi per tre miglia di lento corso, d’onde viene a formare sotto Sibenico un secondo lago, che ne ha ben sei di lunghezza, e si mescola poi col mare mediante l’angusto canale di S. Antonio. I Romani ebbero uno stabilimento fra le foci de’ due fiumi Goducchia e Jujova, di
164 Nato all’inizio del ‘500, incisore soprattutto di ritratti. A Venezia fu pubblicata nel 1570 la sua serie degli imperatori romani da Cesare ad Alessandro Severo. Le sue carte della Dalmazia furono riprodotte nell’edizione di Camozio.
165 «È stato similmente a dì nostri buon pittore […] Andrea Schiavone: dico buono, perché ha pur fatto talvolta per disgrazia alcuna buon’opera, e perché ha imitato sempre, come ha saputo il meglio, le maniere de’ buoni». Questo il giudizio non troppo lusinghiero di Vasari (Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti) sull’ incisore e pittore cinquecentesco Andrea Meldolla, detto Schiavone.
 
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cui restano vestigi appena riconoscibili, ma non affatto dispregevoli, perché somministrano una prova manifesta dell’alzamento dell’acque. I pavimenti a mosaico e le divisioni delle stanze rovinate, sono adesso ben due piedi sotto all’ordinario livello del lago, che soffre qualche flusso e riflusso in dipendenza dal mare. V’è anche un lungo molo subacqueo, che congiunge la punta della penisola formata da due fiumi collo scoglietto Sustipanaz, su di cui com’ora trovasi una chiesa rovinata, così altrevolte sarà probabilmente stato un sacello o tempietto de’ Gentili. In una carta del territorio di Sibenico, incisa dal sopraccennato Martino Rota del 1571, vedesi un gruppo d’abitazioni succedute alle romane sulla punta che sporge nel lago fra le due foci, che v’è nominato Razlina; il luogo adesso è affatto deserto.
 
Fra le poesie del Difnico v’ha un elogio di Sibenico, in cui trovansi varie cose attinenti alla storia naturale delle acque vicine. Eccovi il tratto di questo antico poeta naturalista io avrei creduto, qualunqu’egli siasi, malfatto il trascurarloa. «Il
aKarka, koye potok—plove sve mimof grad, Ugnoy chiye otok—nigdarga nebì gràd. Rika Karka ovay—spilah kapgliucch ozgor, Slove po svaki kray—chino stuara mramor. Na çudan pak zlamen—svakse tuy navracchià Gdi darvo u kamen—tay voda obracchià, Utoyti yosc ricy—ugori padayu, Kogi no oghnici—betegh ne pridayu. Riche tey yosc nad slap—riba slavom slove Parxinom yere kgliap—zlatnomse tuy tove. Tuyusu psi brez straha—chino samo rexe Na Turka, i Vlaha—i ugistgih prexe. Yezero nam blatno—sedmo lito svih stran, Ugore tad yatno-mecchie iz sebe van. Raçzi yosc stonoghi—kozzice chih zovu, Od pegliasu mnoghi—i ti prì nas plovu. Prì gradu ovomu—zubataz krunnasti A ne poi inomu—naydese ù çasti. I toye podobno—castse tay pristogi. Ofdi er osobno—s’ kragliem broy rib stogi. Che ima suud more—nay plemenitiye Osdi kraglia duore-passom svaka tiye, Pitomanam ęudno—p skava riba tay, Ghdici prirazbludno—na suhi doyde kray
Ayoscchie çudnigi—stuor, ofdi vidisce. Morschi ęlovich diugi—bi kog’ uhitisce,
 
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fiume Karka, dic’egli, la di cui corrente perenne bagna il piede della città, ha un’isola in cui non mai cade gragnuola. Esce questo fiume mormorando per ogni lato da spelonche stillanti, dove producesi il marmo; e ognuno concorre a vedervi un prodigio là dove le di lui acque cangiano in pietra il legno. A te porta, o Sibenico, questo fiume anguille, le carni delle quali non porgono malignità alla febbre, e prima ch’ei precipiti dalla sua gran cateratta vi si trova la rinomata trota, che d’oro si nutrisce. Lungo quelle sponde abitano cani coraggiosi, che fremono unicamente contro il Turco e il Morlacco (di lui suddito), e sono intenti a morderli. Il paludoso lago caccia fuori per nostro uso, di sette in sette anni, numerosi stuoli d’anguille. Anche i granchi da cento piedi, che schille sono chiamati, nuotano lunghi un palmo dinanzi a noi. I dentici coronati trovansi più squisiti presso a questa città che in qualunque altro luogo. Ed è ben conveniente cosa che facciano onore al sito; perché quivi particolarmente concorrono in gran numero i pesci più nobili che abbia il mare e vi corteggiano il Re, vagando pei pascoli d’ogni sorte sì fattamente, che alcuna volta il pesce abitator della sabbia fatto dimestico viensene biandamente all’asciutto lido. Ma più maravigliosa creatura vi si fece vedere, e vi fu preso un marino uomo insociabile. Per noi nodrisce presso a’ suoi vortici il mare kotoragneb riguardevoli per la loro mole; e i di lui scogli subacquei sono così ricchi, che vi crescono i rami del corallo. Lontano dal mare, in mezzo
Morenam pri kruzih—ima korotagne Zaloxay od druxih—trisu, à ne magne. Od tach yosc vaglie—moranamsu strane Danam od kuraglie—u gnih rastu grane. Dalece od mora—frid kopnasu vodè, Nana che su stuora—i solnam tuy rodè. Ohualnoga soka—sladorizna vide Srimçanam otoka—glas po suitu ide. Viscega ponosa-kopnaye yosc strana. Mednabonam rosa—tuy pada tay mana. Osdi xena tuy svu—sminose slobodi Odrizat mater suù—ter xive, i hodi, Osdi chih ranioce-prisikscigim moxyan Gliudi ti xivisce—potle godiscch, i dan. Pet. Difn., Upohualu od Grada Scib.
 
bNessuno a Sibenico ha saputo dirmi che spezie di pesce sia la Kotoragna. Generalmente il dialetto di questo poemetto non è inteso da’ Sebenzani, né somiglia ad alcuno de’ colti, che s’usano adesso nella Dalmazia veneta.
 
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alle terre, abbiamo acque salse dove si cristallizza il sale... Va pel mondo la fama del lodato succo dolce che proviene dall’incisione sotto all’isola di Srimçanic ed è più gloriosamente dotato il continente, perché vi cade la manna di miele-rugiada. Quivi la donna sempre francamente ardisce tagliare i ligamenti del proprio feto, e ciò non pertanto vive e camminad. Quivi coloro che riportarono ferite nel capo, a’ quali fu spaccato il cervello, vissero posteriormente un anno ed un giorno».
 
Fra le particolarità di Sibenico, mentovate in questo curioso pezzo, mi sembra degno d’osservazione quel marino uomo insociabile che vi fu preso. Dalle due spezie di manna indicate dallo scrittore, la prima è certamente quella che cola dal frassino per mezzo de’ tagli, che vi si praticano nella stagione opportuna da’ Calabresi, Pugliesi, Maremmani e Provenzali, e che sono andati in disuso presso i Dalmatini; l’altra è probabilmente quella farina unitasi colla rugiada, che si raccoglie annualmente ne’ contorni di Cracovia e di cui si fa un picciolo commercio fra quella città e Varsavia. Noi abbiamo a Cortelà, vicino a Este nel territorio padovano, qualche cosa di simile ne’ mesi d’agosto e di settembre. La massima parte di questi cenni di storia naturale sibenzana trasse Pietro Difnico da’ versi elegiaci pur inediti di Giovanni Nardino, canonico zagabriense, alcuni de’ quali trovansi riferiti in un’opera manoscritta del Tomco Marnavich, e non sono stati con iscrupolosa fede espressi dal parafraste illirico. Il Nardino vi accenna la raccolta della manna come il Difnico, e la pesca de’ coralli.
 
Manna soio, Sibenice, tuo felicibus astris Ambrosias tribuit, nectareasque dapes.
Il commercio de’ coralli sebenzani era bene stabilito in quel secolo, come lo provano questi versi
cDi quest’isola non ho potuto trovare chi mi sapesse dar nuova.
 
dLe donne popolari non abbisognano in Dalmazia di chi le assista nel parto.
 
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Haec quoque florescit speciosis unda corallis, Qui dites Indos, antipodasque petunt.
 
Fra le altre molte cose, all’enumerazione de’ pregi della sua patria due costumanze particolarissime annovera questo autore, una delle quali sussiste tuttora Eccovi i quattro versi ne quali sono racchiuse:
<poem>
Sic trino dicata Deo dum festa refulgent
Civis in hac sceptrum nobilis urbe tenet.
Hic prius ostenso celebrat nova nupta Priapo
Connubium, et socias porrigit inde manus.
<_/poem>ù
Il re di Sibenico creasi pelle feste del Santo Natale e dura quindici giorni. Io non mi sono colà trovato in tempo che lo potessi vedere; quindi scrivo solamente ciò che me ne fu raccontato. Egli ha de’ segni d’autorità sovrana, come quello di tenere presso di se le chiavi della città durante il tempo del suo buffonesco regnare; d’aver luogo distinto nella Cattedrale, e d’esser giudice delle azioni di coloro, che compongono la sua corte efimera. Non è più adesso un gentiluomo che faccia la buffonesca figura di re, ma un qualche zappatore. Questo re ha però una casa destinata a ben alloggiano nel breve giro del suo governo; va per la città coronato di spiche, vestito di scarlatto alla nazionale, e con seguito di molti suoi ufiziali. Il Governatore lo tratta a pranzo, e così il Vescovo; chiunque lo incontra per la via se gl’inchina. Il Borgo di Terra-ferma e il Borgo di Marina fanno anch’essi ciascuno il loro re, che non può entrare in città senza prima aver passato un ufizio166 al monarca cittadino. Non ho creduto ben fatto di prendere informazioni in proposito di que’ preliminari del matrimonio, che si sono indicati
166L’espressione «passare un ufficio» significò interporre la propria mediazione o interessamento, compiere un atto o una mansione, ma qui pare più plausibile intendersi nel senso di atto di omaggio al re della città.
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daI canonico zagabriense; fa però d’uopo egli sapesse di certo ch’era in vigore così prudente usanza, da che viene caratterizzato dal Tomco come diligente osservatore delle patrie cose. Se avessi potuto rinvenire l’opera medita di Giorgio Sisgoreo, che trattava Delle più nobili prerogative di Sebenico, scritta intorno al 1500, ne avrei probabilmente tratto molte notizie risguardanti non meno i costumi antichi, ora andati in disuso, che la storia fisica del paese.
 
§. 4. Pesca del lago, litografia, e produzioni subacquee del porto di Sibenico
 
Il lago di Scardona è tutto circondato da colline di piacevole pendio, e suscettibili di ottima coltura: ma queste per la maggior parte sono abbandonate. Come l’agricoltura, così è maltrattata la pesca in que’ luoghi, quantunque non sieno mal frequentati da tonni e pesci minori emigranti. Vi si bada quasi unicamente al pesce nobile, pell’uso giornaliero delle tavole di que’ signori che abitano le due città di Scardona e di Sibenico. Le lizze, le palamide, i dentici e le orate dalla corona, le triglie, i congri e molte altre spezie d’egual pregio si pigliano in quelle acque con metodi rozzissimi e poco economici. Gli schilloni lunghi un palmo, de’ quali fa cenno il Difnico, propi del Lago scardonitano e del seno di Sibenico, sono veramente un boccon ghiotto. Delle anguille non vi si fa pesca regolare, quantunque il paludoso fiume Goducchia debba nodrirne in quantità, e debbano anche trovarsene dall’opposta parte, ne’ fondi fangosi del lago presso alla città di Scardona.
Tutte le sponde di questi seni interni sono marmoree, né molte varietà d’impasti vi si ponno osservare. Il marmo commune di Dalmazia, ora più ora meno ripieno di corpi fistulosi e di frantumi di testacei vi domina, benespesso diviso semplicemente in istrati orizzontali inclinati, e talvolta suddiviso anche verticalmente. Io ho fatto disegnare (Tav. VI) uno de’ più osservabili luoghi di quel litorale detto Suppliastina, vale a dire pietra traforata, denominazione venutagli
 
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dal buco B, formatovisi in vetta alla rupe ignuda, pel quale si vede fuor fuori. Non v’è forse lungo le coste della Dalmazia, né fra terra, come non v’è a mia notizia ne’ monti d’Italia che ho visitati, sito più atto a stabilire qualche spirito prevenuto nella falsa opinione dell’esistenza degli impropriamente detti strati verticali calcareo-marini, nella giacitura lor naturale. Il picciolo promontorio stendesi nel canale A, che s’interna verso il Lago scardonitano. Dalla parte opposta si veggono a nudo le apparenze ingannevoli di filoni c, quasi perpendicolari. Fra le due lettere DD sembrano i filoni perpendicolari del tutto, ma ben esaminando si riconosce la linea EEEE, costituente la primitiva divisione degli strati, e confermata dalla differenza delle materie prese nel marmo. Di sì fatte linee v’hanno riconoscibili vestigi anche più sopra; e ciò che manifesta la dissimiglianza dell’origine fra esse e le verticali, si è il trovare che le prime sono appena visibili, e rare volte discontinuano la solidità della massa, le seconde sono manifeste fenditure, ora più ora meno larghe. Anche il canale di S. Antonio, per cui s’esce dal porto di Sibenico in mare, presenta un aspetto di strati degno d’osservazione. Imperocché le divisioni della costa marmorea sono da principio inclinatissime verso il promontorio interno del porto, indi a poco a poco si erigono a segno tale che si trasformano in verticali, e finalmente cangiando indole all’improvviso divengono sinuose con istravagantissima direzione. A questo fenomeno malagevolmente si può trovare spiegazione conveniente, quando non si voglia crederlo dipendente dal vario moto delle acque dell’antico mare, che i primi componenti degli strati calcarei successivamente accozzarono, portate ora di quà, ora di là dalle procelle e dalle correnti.
I lidi marmorei del porto di Sibenico mostrano in più d’un luogo manifesti segni di sconvolgimento, che potrebbono essere stati conseguenze di qualche violento tremuoto. Fra questi deesi annoverare la grotta di S. Antonio, la di cui volta è formata dall’angolo di due pezzi di monte, che cadendo cozzarono insieme; ed è anche osservabile la lunga rupe, pendente per lo spazio di quasi un miglio in senso opposto al mare, che vedesi presso alla città di Sibenico su la picciola
 
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penisola delle Fornaci, appié del quale s’è rassodata una terra marina argillosa, sterile, azzurognola, senza testacei. Le frumentarie prese nella pietra forte sono l’unica spezie ben riconoscibile di corpi marmi lapidefatti, che trovasi lapidefatta in quel sito.
Io ho voluto provarmi a pescare produzioni marine nella maggior profondità deI canale di S. Antonio, servendomi d’una barca e degli attrezzi de’ pescatori corallai. Trassimo dal fondo coll’ordigno167 vari pezzi di quella crosta petrosa, che in più luoghi del fondo subacqueo suole formarsi da’ frantumi de’ testacei, dall’arena e dal fango rappreso. Ognuno de’ pezzi estratti mi parve un’isola popolata di viventi subacquei. Vi esaminai rapidamente gli oloturi rossi, le spugne pur rosse, arboree, ed altri zoofiti congeneri, parte descritti e parte ancora poco conosciuti dai naturalisti: ma il tempo, i modi e la stagione m’impedirono di fare completi studi su di tanto vari oggetti. Insieme con essi trovavansi su’ medesimi rottami molti viventi gelatinosi, ed insetti parasiti, e vermi ignudi, ed escare, e fungiti abitate da’ loro polipi; delle quali cose tutte spero di poter un giorno ragionare per esteso. Per adesso contetatevi ch’io vi descriva alla meglio una nuova terebratola, che non ho sinora trovata ne’ libri di conchiliogia marina. Il solo barone di Hupsch168 ne ha dato la figura somigliantissjma nella sua Tavola IV, nn. 16, 17a sotto il nome di Conchites anomius Eifliaco Juliacensis perulam referens. Egli ha creduto, e a ragione, che l’originale della petrificazione da lui trovata nell’Eifel del Ducato di Juliers non fosse conosciuto. Quantunque la terebratola da me pescata non corrisponda sempre identicamente alle figurate dall’Hupsch, io pendo a crederla l’originale della sua, dopo d’aver osservato che da un individuo all’altro, fra quelle ch’io posseggo, v’hanno delle discrepanze di configurazione. La più regolare si è quella che vedete rappresentata dalla Figura I
167 Per ordigno si intendevano anche gli arnesi da caccia e da pesca, qui probabilmente una rete a strascico.
168 Naturalista tedesco (1730-1805), autore di trattati di medicina e mineralogia, di opere curiose ed erudite quali una raccolta di iscrizioni e un trattato sul modo di rianimare i morti apparenti.
aNoevelles decotuvertes de quelques testaces petrifìes rares, et inconnus, et c. par J.G.C.A. baron de Hupsch, à Cologne, 1771, in 8°.
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(Tav. VII). Ell’ha delle gibbosità così nel guscio inferiore come nel coperchio, ed è substriata tanto per lungo quanto pel traverso. Nel bel mezzo del ginglimo, che tiene unite le due valve ineguali, vedesi un foro, dal quale esce il piede dell’animaluzzo, che stassene attaccato ed ancorato col mezzo di esso a’ corpi che più gli convengono, nel medesimo modo che osservasi nella valva inferiore di tutte le ostraciti, e de’ pettinitib non ancor giunti all’età di poter vivere senz’appoggi, nelle conche anatifere, nelle patelle, in parecchie spezie di turbiniti. Non è da metter in dubbio che il moto progressivo della terebratola sebenzana (s’ella ne ha) non dipenda interamente dall’uso di questo piede. La Figura II è molto più simile al peridiolito dell’Hupsch. L’interno di questo mio testaceo è anch’egli singolarmente costruito, e merita d’esser posto sotto agli occhi de’ naturalisti che probabilmente non hanno avuto occasione d’esaminarlo. Nel suo stato naturale io non l’ho trovato così degno d’osservazione, come mi sembra che sia dopo morto e disseccato. Vedetelo nella Figura III. Ma non vi credeste ch’ei fosse di tanta energia dotato, che potesse da se medesimo starsene così teso; no, egli ha buon sostegno; ed è un’elaboratissima appendice testacea furciforme, che sorge dall’estremità posteriore del coperchio, qual è la rappresentata dalla Figura IV. Sarebbe da esaminare se molte delle produzioni fossili della bassa Germania convenissero colle naturali, che vivono negli abbissi più profondi del nostro mare.
Chi sa che non si venisse a capo di sminuire a poco a poco il numero delle petrificazioni provenienti da testacei e da lavori di polipi non conosciuti? La terebratola sebenzana è tratta da forse cent’ottanta e più piedi di fondo.
Trovasi anche in maggiori profondità nelle caverne dalle quali traggonsi i coralli; e m’è accaduto di vedere alcuna di esse tutta chiusa dalla sostanza del corallo cresciutovi sopra.
 
bQueste spezie di testacei trovansi nella prima età loro aderenti a’ testacei più provetti col mezzo d’un piede, che passa per un forellino lasciato loro dalla provvida natura nell’uscire dall’uovo. Fra i pettiniti fossili de’ colli di Borgo San Donnino frequentemente se n’incontrano di quelli che hanno sul dorso i pettoncoli giovanetti: nelle acque nostre è poi comunissima cosa.
 
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§. 5. Villa e vallone di Slosella
 
Il primo luogo del territorio di Sibenico che s’incontra partendo da Zara, è la villa di Slosella169, fabbricata sui vallone che ne porta il nome, e riparata da una grossa muraglia dalla parte di terra. Pretendono gli abitanti che la denominazione di Slosella, equivalente a Malvillaggio, le sia stata data dai Turchi ne’ tempi delle incursioni, perché negli abitanti di essa trovavano ardire e resistenza; qualunque però sia l’origine di questo nome, egli è certo che conviene moltissimo al popolo che vi abita. Io mi sono molti giorni fermato colà, profittando dell’antica amicizia del conte abate Girolamo Draganich Veranzio, la di cui illustre famiglia è proprietaria della villa: e quindi ho avuto campo di trarne più copiose informazioni, e di farvi anche osservazioni più agiate che negli altri luoghi della Dalmazia.
 
Il suolo di Slosella non somministra osservazioni particolari; egli è marmoreo, stalattitico in alcun luogo, e cavernoso frequentemente. L’esterno aspetto della plaga è orrido per la nudezza de’ monti, spogliati dalla brutalità inconsiderata degli abitanti; né riesce ameno quel poco di pianura che giace lungo il mare, perché la stupida agricoltura loro non sa, anzi non vuole trattar bene le viti, gli ulivi, i seminati. Le terre coltivate dal mio amico si distinguono da lontano per la lieta verdura onde sono coperte, come si distinguono i pochi boschi, su de’ quali resta un arbitrio che di raro in quella provincia è congiunto colla proprietà de’ fondi. Egli pensa di farvi rispettare i giovani frassini; ed anzi vuole che sieno liberati dalla vicinanza de’ rovi e de’ nuovi getti, onde crescano più vigorosi e divengano in breve atti a sofferire l’incisione e a dar manna. V’ha luogo di sperare un buon esito da queste attenzioni, imperocché la situazione di que’ luoghi è opportunissima ad ogni prodotto de’ climi caldi. Io vi ho fatto delle incisioni al
 
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lentisco; e quantunque il tronco, su di cui ho eseguito questa operazione, non fosse assai grosso, e d’ogni intorno lo cingessero spine ed erbe parasite, n’ebbi del mastice che ad onta della sua scarsezza mi si lasciò conoscere d’ottima qualità. V’ha grandissima quantità di lentisco nel tenere171 di Slosella: ma la barbarie degli abitanti, che tagliano a dritto e a rovescio ogni sorta d’alberi e d’arbusti, non lo lascia crescere sino all’età necessaria per dare un prodotto considerabile. Le abbondanti fontane, che uscendo dalle radici de’ monti si mescolano coll’acque salse nel vallone di Slosella, vi chiamano in gran numero e varietà i pesci. Io non ho colà minutamente fatto ricerca intorno alle spezie raminghe che vi si prendono, e quindi poco sarete di me contento come izziologo. V’ebbi per oggetto delle mie ricerche quelle spezie sole, il passaggio delle quali è copioso, costante e quindi meritevole dell’attenzione del Governo, relativamente all’economia e commercio nazionale. Io vorrei poter dichiarare la guerra al pesce del Nord che viene a invadere l’Italia nostra, come gli uomini usarono di fare ne’ secoli della barbarie; e mi terrei fortunato se potessi armare contro de’ mercatanti stranieri i pescatori dell’Adriatico.
 
Ogni stagione conduce stormi di pesci al vallone di Slosella. Ne’ mesi freddi, e particolarmente in que’ giorni ne’ quali il verno si fa più acutamente sentire, vi si affollano i muggini o cefali chiamati dal tepore delle acque dolci, che uscendo dalle viscere de’ monti, prima d’aver sofferto l’impressione dell’aria rigida, si mescolano immediatamente col mare. Gli abitanti delle vicine ville concorrono a que’ luoghi c’on una spezie di reti dette in loro dialetto frusati, o sia spaventi, di larghezza adattata a que’ bassi fondi. Le grida, il picchiare di remi e legni e sassi sull’acqua mette terrore ne’ cefali, i quali dandosi alla fuga incappano nelle reti e per la maggior parte, secondo l’indole della loro spezie, al primo sentire un ostacolo guizzano per di sopra. I contadini pescatori vi stanno ben attenti, e con sciable e hanzari173 uccidono gran numero de’ fuggitivi. La primavera conduce in
 
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quelle acque le xutizze, o sia pesci colombi, del genere delle raie, ma di carne più soda e fibrosa. Al riscaldarsi poi dell’aria, vi si portano le sardelle e gli sgomberi a gran partite. Ad onta però di tanta abbondanza e varietà di pesci emigranti, e alla copiosa frequenza de’ pesci raminghi, l’infingardo Sloselliano trascura ogni modo di approfittarne. Egli si contenta di vivere alla giornata, e si divora sovente senza pane e senz’alcun condimento tutto il pesce che ha preso col rozzo metodo sopraccennato, o con qualche altra pratica egualmente barbara. Le seppie sono la vivanda universale di que’ poltroni abitanti nel tempo di primavera; e le prendono col mettere sott’acqua molti rami frondosi di qualunque albero, ond’elleno vi si attacchino per isgravarsi delle ova. Se vi facesse d’uopo qualche fatica più complicata, credo che si contenterebbono di star a digiuno anzicché farla. Eglino odiano sì fattamente il bene proprio e l’altrui che, per avversare l’introduzione delle reti da tratta fattavi dal loro padrone, hanno seminato di gran sassi tutti i bassi fondi della valle; quantunque dall’esercizio di esse reti molti uomini della villa dovessero giornalmente trarre vantaggio. In generale tutti i contadini abitanti del litorale sono egualmente infingardi e tristi, forse perché protetti dalle troppo clementi leggi e messi del pari co’ loro signori. E fuor di dubbio che per formare la felicità di quelle popolazioni maritime dovrebb’essere come principale strumento impiegato il bastone, cioè quel mezzo che mal si converrebbe agli abitanti del paese mediterraneo, i quali sono di tutt’altra indole, e che colla dolcezza ben temperata dall’autorità si condurrebbono a qualunque cosa, per vantaggio degl’individui loro e dalla nazione in corpo.
 
§. 6. Osservazioni su l’androsace
 
Fra le molte produzioni subacquee del vallone di Slosella merita particolar osservazione l’androsace, che fra le piante è stato annoverato da Vitaliano Donati, e fra’ zoofiti dal Linneo sotto ‘l nome di tubularia acetabulum. Non vi dirò da qual delle due parti io penda, imperocché non sono ancora bastantemente al fatto per
 
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decidere, e credo che si debba prima esaminare l’androsace in più d’una stagione. Sino a questo momento io vi confesserò che né l’androsace vivo, né ‘l secco osservato con qualche diligenza sotto ‘l microscopio, mi ha mostrato caratteri evidenti di zoofito. Riscontrando le osservazioni del Donati cogli esemplari degli androsaci tratti da vari luoghi del vallone di Slosella, e particolarmente dallo scoglietto di Santo Stefano, io ho aggiunto al margine del di lui libro le annotazioni seguenti. 1° L’androsace, che secondo questo autore «molto di raro nel nostro mare s’innalza oltre un pollice e mezzo», trovasi oltrepassare i tre pollici ne’ contorni dello scoglio suddetto, dove cresce quasi a pel d’acqua. 2°I fili, che sorgono dalla parte concava del coperchietto fungiforme dell’androsace, lungi dall’esser «così minuti e delicati, che discernere neppure col microscopio si possano, se non quando l’androsace sia in acqua, dove appariscono molli ed argentei, e tanto s’estendono che toccar possono la circonferenza del cappelletto»a, sono così visibili che senza l’aiuto del microscopio io gli ho potuti discernere e rilevare che il color loro non è argenteo, ma traente al cannellino. La loro lunghezza eccede poi così considerabilmente il giro del cappelletto, che fuor d’acqua e raccolti da per se medesimi in un fascicolo, gli ho potuti far disegnare come li vedrete nella Figura v, a (Tav. VII) che rappresenta un androsace irregolare nel giro del cappelletto medesimo. 3° Io ho trovato qualche androsace, nel quale non si vedevano più i filamenti, dal centro del di cui cappelletto, sorgeva una spezie di pistilo. La speranza di riosservarlo mi ha fatto trascurare i primi esemplari che mi vennero sotto gli occhi nel mese d’agosto, e non ebbi più occasione di rivederne in seguito, dilungatomi assai da Slosella. 4° Alcuna volta l’androsace ha due cappelletti, l’uno sopra l’altro, come li mostra la Figura VI; ed (assai più di raro però) io l’ho trovato anche dicotomo, come lo vedete nella VII. Il solo esemplare d’androsace dicotomo, che s’abbia potuto conservare durante il mio lungo viaggio, mi si guastò poi qui in Venezia, dopo ch’io aveva avuto la compiacenza di farlo vedere a parecchi amatori delle naturali curiosità. Di quelli
aDonati, Saggio di storia naturale et c, p. XXX e XXXI.
 
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da due cappelletti, che sono men rari quantunque non ovvi, ne ho fatto passare nella collezione del nostro dotto amico botanico il dottor Antonio Turra di Vicenza. Se dovrò riviaggiare in Dalmazia, com’è probabile, io mi lusingo di poter dare anche l’anatomia dell’androsace più esatta, e meglio disegnata, che quella del Donati.
 
§. 7. Dello scoglietto di S. Stefano
 
Ne’ vivai che sono al piede dello scoglietto di S. Stefano175, e servono all’uso de’ pochi e poveri frati che vi abitano, trovasi moltiplicato l’androsace e insieme con esso varie spezie d’insetti marini degni di particolare attenzione, alcuni de’ quali vagano pell’acqua, altri stannosene attaccati alle pietre, altri finalmente all’ulve, alle virsoidi, ai fuchi e alle conserve si raccomandano. Io vi ho raccolto una picciola spezie di stella pentagona, scabra, corrispondente all’asteria aculeata del Linneo, l’onisco assillo, vari bucciniti e porporiti; de’ mituli, le valve de’ quali non si combaciano, l’ostrica lima, due varietà di chitone fascicolare, e l’altro senza fascicoli, variegato; piccioli nautiliti e serpole lombricali, né mancarono di cadermi colà sotto gli occhi altre spezie comuni a tutti i luoghi del nostro mare. Alle rive di questo scoglietto veggonsi assai frammenti di tegole romane e d’urne. Vi si disotterrarono anche molte iscrizioni: ma queste dalla barbarie de’ frati furono gettate in pezzi, per farne pavimento a un loro meschino cortile. Veggonvisi tuttora conficcati in una muraglia residui d’una iscrizione in bronzo, da cui come potete ben credere furono tratte le lettere. E probabile che questo scoglio fosse un sepoicreto, secondo i’uso lodevole degli Antichi più ragionevoli di
 
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noi, che lontano dall’abitato portavano il fracidume de’ cadaveri, onde i morti almeno cessassero di nuocere ai vivi.
 
§. 8. Dell’isola di Morter
 
Tre miglia lontano dallo scoglietto di S. Stefano giace l’isola di Morter, cui gli scrittori sibenzani del XVI secolo credettero essere il Colentum di Plinio, appoggiati alla prova della sua distanza dalle foci del Tizio. Io ho voluto visitare il luogo dove anticamente fu per certo qualche stabilimento greco o romano: ma pochi vestigi di riguardevole paese vi sussistono. Il solo indizio d’antica abitazione sono le tegole antiche e i rottami di vasi e qualche pietra lavorata, fra le quali ho osservato bellissimi pezzi di cornicione, che appartennero a qualche grandiosa e ben architettata fabbrica. Si trovano non di raro monete e iscrizioni in que’ contorni: ma l’indole sospettosa degli abitanti dell’isola rende difficilissimo il profittarne. Io avrei voluto vedere qualche lapida disotterratavi, che nominasse la città di Colentum, Mi fu detto sopra luogo che su la sommità del colle eranvi, non ha molto, de’ residui di mura, e che furono disfatti per fabbricarne la chiesa della Madonna detta di Gradina. Qualunque nome abbia portato anticamente quel paese, egli è certo che in più bella e deliziosa situazione non poteva esser posto. La collina s’erge con pendio non difficile, e domina un braccio di mare tutto ingombro d’isolette e di promontori, stendendo la sua prospettiva per di sopra a una parte de’ colli del Contado di Zara, sino alle Alpi Bebie. I piccioli scoglietti selvosi di Vinik-Stari, di Teghina e di Mali-Vinik, aggiungono bellezza a quel sito. L’isola poi tutta di Morter, che ha tredici miglia di giro ed è per la maggior parte coltivabile, deve aver somministrato ricchi prodotti a quegli abitanti. I Morterini de’ giorni nostri non godono di molto buona riputazione; e si osserva che in ogni barca di ladri da mare v’è almeno uno di quest’isolani, che serve di pilota e guida
 
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pe’ nascondigli delle più rimote calanche176 l’onoranda brigata. Lo stretto, che divide l’isola di Morter dal continente, è frequentatissimo dalle barche minori, che temono d’esporsi al mare nelle stagioni pericolose. Quindi è che vi sorge un villaggio riguardevole di ben fabbricate case, e abitato da buon numero di commodi negozianti, quantunque in quel sito gli scogli vicini, e ‘1 continente opposto, e i colli marmorei dell’isola medesima sieno affatto ignudi, e rattristi- no colla mostra d’una sterilità che fa orrore. Il marmo di quest’isola e delle minori contigue è pieno di corpi marini, che probabilmente appartengono al genere degli ortocerati; in alcuni luoghi è traforato dalle foladi, e queste vi crescono ad una grandezza che mi sorprese: alcuna di esse eccede in lunghezza i quattro pollici parigini.
I proprietari de’ fondi dell’isola di Morter sono a cattivo partito. I coloni non si credono in obbligo di dar loro se non la quinta parte del vino che raccolgono, e niente di tutto il resto. Quindi ne avviene che la vite sia pochissimo coltivata da que’ maliziosi villani, e ad essa sia preferito l’ulivo, quantunque soggetto a maggiori disgrazie, o che sia lasciato il terreno alle greggie. L’indisciplinatezza de’ coloni avvalorata da fatali combinazioni mette i proprietari de’ terreni a pericolo della vita, per poco che vogliano scuotersi e far valere la menoma parte de’ loro diritti. L’agricoltura risente anch’essa gli effetti di questa costituzione viziosa, che ha avuto origine ne’ tempi calamitosi de’ contagi o delle irruzioni di genti barbare, e che sarebbe desiderabile ricevesse un sistema migliore, in questo fortunato secolo di pace e di promovimento del bene nazionale.
La pescagione non è molto esercitata da’ Morterini, quantunque ne’ canali vicini all’isola loro passino sovente i tonni a grosse partite, e parecchi vi si smarriscano e vi restino anche nel tempo d’inverno, errando spezialmente pe’ bassi fondi vicini al casale di Ràmina, dove in altri tempi furono saline. L’arte prediletta de’ Bettignani, abitanti dell’estremità occidentale di quest’isola, si è il raccogliere, macerare, filare e tessere la ginestra, cui vanno a cercare sino sulle
 
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coste dell’Istria e pell’isole del Quarnaro. Ne fanno tele di varie grossezze ad uso di sacchi, e talvolta di camicie e gonnelle rustiche; né v’ha dubbio che, se l’arte vi fosse men rozzamente tratta, non uscissero da questa pianta migliori manifatture. Il mare serve loro alla macerazione de’ fastellini.
 
§. 9. Di Tribohùn, Vodizze, Parvich, Ziarine e Zuri
 
Uscendo dallo stretto di Morter il primo luogo abitato, che s’incontra lungo le coste del continente, è Tribohùn, o Trebocconi177, villaggio isolato, brutto e meschino, circondato di mura e congiunto con un ponte di pietra al litorale. Vi nacque sul finire del secolo passato Pappizza178, contadino improvvisatore, che lasciò fama di se anche dopo la morte, per le molte poesie che usava di cantare accompagnandosi colla guzla. Niente ho potuto trovare di scritto de’ costui versi. La villa di Vodizze, che poco più d’un miglio è lontana da Tribohùn, ha tratto il nome dalla grande abbondanza d’acqua che vi si trova, poiché voda in tutti i dialetti slavonici significa acqua. Non si può dire però che Vodizze abbondi di fontane; vi è un fiume sotterraneo più picciolo e meno sprofondato di quello de’ pozzi di Modana, ma della stessa natura. Egli scorre fra strato e strato de’ marmi litorali, e ne’ tempi delle alte maree non somministra molto sana bevanda. In qualunque luogo si voglia scavare un pozzo, senza grande spesa vi si trova alla medesima profondità l’acqua desiderata. L’aspetto del popolo radunato nella chiesa, non mi parve annunziare ricchezza. Il suo però di Vodizze, per quanto ne potei vedere al’intorno delle abitazioni non è indocile e’ l pendio del lido vi e dolce, ne si va alzando se non quanto fa d uopo per mettere le terre al coperto dagl’insulti de’ flutti. Parecchie isole e scoglietti ben coltivati fanno a questo villaggio una deliziosisima prospettiva. Uno de’ di lui considerabili prodotti, come
 
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anche di Tribohùn, sono le marasche pell’uso delle fabbriche de’ rosoli di Zara e di Sibenico.
Parvich, Zlarin e Zuri179 sono le più popolate e riguardevoli isole della giurisdizione sibenzana, e quelle che danno al mare un gran numero di pescatori, come al terreno infaticabili braccia coltivatrici d’eccellenti uve e d’ottime ulive. Quaranta reti da tratta escono un anno per l’altro dai porti di quest’isole, e colla preda abbondante rendono la vita meno spiacevole a un gran numero di famiglie. Così piacesse al Cielo, che venissero a far capo nel porto di Venezia gl’incettatori delle sardelle, de’ gavoni, degli sgomberi e de’ cefali messi in sale! Noi potremmo escludere una gran parte di quel puzzolente e insalubre pesce, cui dal principio di questo secolo in sempre maggior copia ci portano gli Olandesi, e che avvelena le povere mense de’ nostri contadini. Io mi fermai su d’una di queste isole per molti giorni; e la speranza di poter giovare alla mia nazione mi vi occupò di quest’oggetto assai più che delle curiosità naturali, onde il vicino mare puot’essere fecondo. Io non vi tratterrò su questo proposito, i di cui dettagli sono più fatti per interessare le viste economico-politiche del Governo, che de’ dotti forestieri.
 
Tutte e tre queste isole furono abitate dagli antichi Romani; e in ciascuna di esse trovaronsi monumenti di quella nazione inondatrice di tutto il mondo allora cognito. A Zlarin fu disotterrato nel XVI secolo il marmo sepolcrale d’una donna chiamata Pansiana, e che vi portava il titolo di regina. I dotti d’allora, che numerosi erano nella vicina città, cercarono inutilmente da qual paese potess’essere venuta a lasciar l’ossa in quell’isola una tal signora, e non trovandone vestigio nelle storie, con molta probabilità congetturarono che si trattasse di qualche regina barbara, relegatavi dopo d’aver servito d’ornamento al trionfo del suo vincitore. Io non ho potuto ridissotterrare questa iscrizione, né
179 Chiamate rispettivamente: Prvic, Ziarine popoio radunato nella chiesa, non mi parve annunziare ricchezza. Il suolo però Zirje o, all’italiana, Provicchio, Ziarino e di Vodizze, per quanto ne potei vedere all’intorno delle abitazioni, non è Zuri.
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trovarne traccia veruna oltre a quelle che me ne diedero le memorie manoscritte di que’ tempi.
Parvich è di picciolo circuito, ma d’altrettanto pregevole fertilità. Tutti i prodotti vi riescono perfettamente; dico i prodotti de’ quali quel terreno poco profondo è suscettibile: vale a dire il vino, l’oglio, i mori e le frutta, L’aspetto di quest’isoletta è delizioso anche di lontano, dove quello dell’altre vicine disgusta l’occhio colla mostra di troppo alti colli e troppo sassosi ed ignudi. Il nome di Parvich le sembra venuto dall’essere la prima che s’incontra uscendo dal porto di Sibenico; la voce illirica parvi equivale alla nostra primo.
L’isola di Zuri è mentovata da Plinio, col nome di Surium, dove sembra che Parvich e Zlarin con altre molte minori oltre al numero di cinquanta, siano da lui chiamate collettivamente Celadusse, manifestamente invertendo la voce greca δυσxέλαδοι, che vale mal-sonanti o romorose. Il testo di Plinio, se si voglia seguire la comune lezione, racchiude uno sbaglio madornale di corografia. Per rettificarlo basta però cambiare leggiermente l’interpunzione e leggere così: Nec pauciores Trucones (insulae) Liburnicae. Celadussae contra Surium. Bubus, et capris laudata Brattiaa. Di fatti Zuri è la più esposta al mare di tutte; e ha dirimpetto, fra se e il continente, Kausvan, Capri, Smolan180, il di cui nome può indicare l’antico uso di farvi della resina; Tihat desolata da’ pastori, Sestre181, isolette note per un eccellente cava di pietra forte bianca, il di cui uso sarebbe molto men dispendioso e molto più durevole, che quello delle pietre vicentine; le coltivate e popolose di Parvich e Ziarin, con altre molte ignobili. Il vestito delle femmine abitatrici di queste Celadusse, è differente da quello delle isolane Truconidi o del canal di Zara.
Più assai che dai residui di romane abitazioni, i quali tuttora vi si riconosco no è nobilitata l’isola di Zuri dalla pesca de’ coralli, che non riesce mai sterile del tutto nelle acque ad essa vicine, e che trent’anni sono diede ricchezza immensa di
a Plin., Hist Nat, lib. 10, cap. Ult.
 
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questo prezioso genere per una secca oltremodo feconda, che vi fu scoperta di nuovo. Un amatore della storia naturale, istruito dall’esempio del vostro celeberrimo conte Marsigli, di quante belle prede e curiose scoperte si possano fare pescando nella profondità opportuna alla moltiplicazione de’ coralli, dovea desiderarsi di poter vivere qualche mese su d’una barca corallaia. Quanti testacei tuttora incogniti non iscapperebbero fuori, e quanti originali di que’ petrefatti, che crediamo essere spezie smarrite od estinte, non ci verrebbero alle mani? Io ho concepito vivamente questo desiderio: ma le circostanze e le riflessioni non mi permisero di soddisfarlo. In vece di lasciarmi condurre dal mio genio, credetti miglior partito il cercare alle gengive del continente un campo d’osservazioni più esteso in lunghezza, e suscettibile di dettagli più vari.
La pesca de’ coralli è praticata nel nostro mare da sudditi del Re di Napoli, che stanno al servigio del conduttore di questo diritto. I nostri isolani quantunque di sovente s’impieghino su le barche corallaie, non hanno però ancora potuto imparare quell’arte meravigliosa di estrarli dalle più anguste e internate caverne subacquee. Eppure quest’arte sarebbe degna d’incoraggimento e di propagazione. Il genere de’ coralli è ricchissimo anche se si spacci in natura; e quindi tanto più è da stupire che l’arte di pescarli non sia bene intesa dai Dalmatini, quanto più è antico il commercio de’ coralli sebenzani.
 
§. 10. De’ laghi di Zablachie e di Morigne
 
Proseguendo la navigazione del litorale di Sibenico oltre la imboccatura del porto, trovansi le terre piane ma sassose di Zablachie, aldilà delle quali è il lago di questo nome, che per mezzo d’un angusto canaletto artificiale comunica col mare. Vagando per que’ luoghi io ho trovato delle lagrime di mastice spontaneo pendenti da’ tronchi de’ lentischi, lasciati crescere da’ pastori che colà frequentano, perché faccian ombra agli animali ne’ bollori della state. Il lago era fino al principio di questo secolo un fondo d’abbondantissime saline, come
 
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lo erano parecchi altri terreni vicini soggetti all’inondazione del mare. Adesso egli è una peschiera di pochissima considerazione, perché niuna cura si ha di mantenervi o moltiplicarvi le spezie. La sola di lui particolarità, che meriti qualche riflesso, si è l’arena popolatissima da picciole conchiglie d’elegante struttura, perfettamente ben conservate e talora abitate dall’insetto vivo, alcune delle quali non sono state peranche descritte. Tal è per grazia d’esempio quella che vedete primieramente nella sua mole naturale, e poi ingrandita dal microscopio nella Tav. VII, Figg. VIII, IX, che somiglierebbe a un uovo troncato, se non fosse spiralmente striata dal fondo alla circonferenza della bocca. L’insetto che vi abita non ha opercolo di sorte alcuna; egli è tutto nero come un carbone, qualità che rende oltremodo difficile il distinguerne le minutissime parti. Così vi si trova vivente il nautilo microscopico, candido, figurato dal chiarissimo Bianchi nella sua celebre operaa su le conchiglie poco note. Le terre coltivate ne’ contorni di questo lago sono bianche, e producono abbondanti derrate.
 
Tre brevi miglia lontano da quel di Zablachie, trovasi il lago falso di Morigne, comunicante col mare per mezzo d’un canal naturale, che internasi fra le terre rimpetto all’isola di Crapano. Il circuito del lago è di tre miglia, la sua imboccatura di cencinquanta piedi, il fondo algoso e fangoso per la maggior parte, e sì basso che nel ritrocedere della marea le sommità dell’alghe vi restano a fior d’acqua in parecchi luoghi. La fonte perenne di Ribnich, che vi si scarica, invita i pesci ad insinuarvisi, e i pingui pascoli ve li trattengono. Riuscirebbe facilissimo il far di questo lago una peschiera chiusa, da cui si trarrebbe assai ricco prodotto d’ogni spezie di pesci, e superiore di molto all’estensione del luogo. Due scoglietti sorgono verso l’estremità occidentale di Morigne, su de’ quali dovrebbero essere state delle fabbriche in altri tempi, da che vi si veggono molte pietre riquadrate e fondamenta di muraglie. Forse da questi residui ebbe origine la tradizione volgare che nel sito, ora occupato dall’acque, ne’ tempi andati fosse una città sobbissata
aJani Planci Ariminensis, De conchis minus notis.
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all’improvviso. La pesca, che vi si fa dagli abitanti delle ville contigue, è sul gusto di quella de’ bassi fondi di Slosella. I testacei del lago di Morigne sono quasi del tutto i medesimi che quelli notissimi della laguna di Venezia, e di Comacchio, e se anche il mare vi porta il seme d’altre spezie, che amino i gran fondi, esse non vi propagano e se ne ritornano ad acque più ampiamente estese. Fra i testacei microscopici di Morigne oltre alle varietà di Corna d’Ammone, e d’altri minuti corpicelli comuni a quasi tutti i fondi arenosi e fangosi dell’Adriatico, vi si osservano molti porpiti, simili a quelli che i vostri ruscelli bolognesi sogliono dare talvolta, dopo d’averli separati dalle terre marine de’ colli superiori. Il botro di Brendola nel Vicentino ne dà anch’egli in quantità. La loro mole originalmente non eccede la metà d’un granellino di miglio nudo. Esaminati sotto al microscopio appariscono tutti composti di sottili pareti, irregolarissimamente intersecate per formare un gran numero di cellule ai polipi fabbricatori ed abitatori della picciola città.
 
I terreni vicini allago sono della qualità medesima che intorno a Zablachie, e formano con essi insieme porzione del Campo-d’abbasso, ch’è il midollo del territorio di Sibenico. Il marmo volgare dalmatino e una spezie di pietra dolce lenticolare dominano nelle parti più elevate di questo tratto di paese presso al mare. Accostandomi alle radici de’ monti più alti, trovai che sono composte d’argilla indurata, come i lidi vicini a Zara.
 
§. 11. Di Simoskoi e Rogosniza
 
Il mare, che comanda ai viaggiatori, non mi permise di sbarcare al luogo che porta il nome di Sibenico Vecchio, dove peravventura avrei rinvenuto qualche monumento della buona antichità. La Tavola del Peutingero non mette però in que’ contorni veruno stabilimento antico.
Gli ultimi luoghi maritimi, ch’io ho visitati nella giurisdizione di Sibenico, sono le due isolette di Simoskoi e Rogosniza. Simoskoi ha la sommità di marmo
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volgare dalmatino; verso le radici è composta di pietra men rigida, piena zeppa di corpi marini esotici riducibili al genere degli ortocerati, ma distinti da particolari articolazioni. La sostanza d’alcuni di questi corpi è oltremodo porosa, ad onta del cangiamento cui hanno sofferto; e vi si distinguono coll’occhio mediocremente armato innumerabili cellule. Osservatene alla Fig. XII uno de’ più curiosi esemplari, che passò in Inghilterra nella ricca collezione del conte di Bute, celeberrimo mecenate della storia naturale in quel regno. La seguente Fig. XIII è stata diligentemente disegnata dal conte Fausto Draganich Veranzio, da un esemplare ch’io conservo, venuto dall’isole Còronate. La parte interiore a, a, minutamente striata, è il nucleo dell’ortocerate composto di lucidissima cristallizzazione spatoso-calcarea; nel rompere questi nuclei trovansi sovente de’ vestigi di concamerazioni divise in due da una parete. La corteccia b, b, anch’essa longitudinalmente striata, a somiglianza dell’amianto immaturo, è la spoglia antica dell’animale passata in sostanza di spato men candido, meno lucente e unitissimo. La materia c, c, che racchiude questa petrificazione, e ne asconde i lineamenti esteriori, è pietra forte biancastra volgare. Lungo sarebbe il descrivervi tutte le varietà di questa spezie, che s’incontrano petrefatte pe’ lidi della Dalmazia, dove il Donati non trovò quasi affatto petrificazioni riconoscibili. Voglio però aggiungervene un’altra (Fig. XIV) che vi mostra un pezzo d’ortocerate lapidoso coll’esterna superficie rigata e scannellata a guisa di cardo.
Un basso ed angusto canale, che non ammette passaggio di barche nell’ore del riflusso, divide quest’isoletta dal continente; e ben esaminandone le opposte sponde si conosce ad evidenza, che non è molto antica quella separazione. L’estremità di Simoskoi, che sporge verso il lido vicino, è composta di marmo bianco salinoa, come lo è il lido medesimo che le corrisponde. Potrebbe darsi che lo spazio intermedio fosse stato anticamente scavato per trarne materia da lavoro;
aMarmor (Micans) particulis spatoso-squamosis, Linn., Hoc petrificatis destituitur, Swab. Di questo dell’isoletta Simoskoi bisogna fare una varietà, che petrificatis scatet, come anche dello statuario antico romano, ch’era differentissimo dal marmo salino dell’isole greche, di cui pur si facevano statue.
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e tanto più probabile mi sembra questa congettura, quanto che il marmo bianco salino di Simoskoi somiglia allo statuario antico, che trovasi adoperato nelle scolture di Roma. La corrosione operata dal sai marino su la porzione di questo strato, che resta alternativamente scoperta e sott’acqua secondo l’alternazione della marea, rendendo scabrosa la superficie del marmo, vi mette a netto una quantità di frantumi di corpi marini cristallizzati che lo compongono. I naturalisti, e alcuni de’ più celebri come lo Swab e ‘l Raspe, credettero priva di corpi estranei la pasta de’ marmi salmi; e di fatto io non oserei d’assicurare che tutti ne conservassero riconoscibili i vestigi. Vorrei però prima di negano visitare le loro cave, e vederne de’ pezzi, che fossero stati lungamente esposti all’aspergine marina, ed all’azione dell’aria e del sole. Il marmo di Carrara sembra almeno a prima vista poter cadere sotto la dotta e ingegnosa spiegazione del celebre signor Raspe. Comunque sia di questo, non si può mettere in questione che il marmo bianco di Simoskoi non sia precisamente della medesima pasta che io statuario romano antico; e quindi importerebbe moltissimo il fare un diligente esame del sito, per vedere se pezzi di buona misura se ne potessero cavare. E ridicola cosa il pensare di trar partito dal marmo che vedesi a fior di terra, e il voler farne giudizio dallo stato in cui trovasi la superficie dello strato esteriore. Se la cava di Simoskoi non fosse inserviente agli usi statuari, se ne potrà sempre ragionevolmente cercare un’altra ne’ contorni, dov’è quasi sicura cosa che si dovrà trovare.
Su di quest’isoletta trovansi in iscarsissima quantità delle ossa fossili; ma in molto maggiore abbondanza se ne trovano ammassate a Rogosniza, e negli scogli di Muia e della Pianca, che da essa non sono molto lontani. La situazione della Rogosniza è così fuor di mano, che la sola violenza del vento contrario può costringere i naviganti ad approdarvi. Ella è situata in un ampio vallone di mare, che può servire di porto ai legni minori. Gli abitanti vi sono poveri e sudici. Gli ortocerati dominano nel marmo del più basso strato di quest’isoletta; nelle fenditure trovansi gruppi d’alabastro fiorito, o vogliam dire di stalattite rossa
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venata. Le ossa fossili ho veduto lontane dal loro luogo nativo, prese in gran lastre di pietra aggregata, e casualmente poste dinanzi alle case di que’ contadini. Camminando pe’ contorni delle abitazioni de’ Rogosnizani, m’è accaduto di veder nel vivo del colle marmoreo una curiosa petrificazione somigliantissima alle corna, e m’è venuto a mente d’aver osservato in Padova nel Pubblico Museo di Storia Naturale un pezzo della medesima spezie qualificato come cornu vaccinum. Io credo che tanto la petrificazione ceratomorfa di Rogosniza, come l’altra di Padova sieno ortocerati, de’ quali o sono perdute le specie, o vivono nascose in mari lontani. Voi mi direte probabilmente che ad una petrificazione ricurva mal si conviene il nome d’ortocerate; ed io v’accorderò che avete ragione. Quindi Voi potrete, sempre che ne abbiate voglia, chiamarlo campiocerate.
Questa mia lunga diceria vi serva di sprone a rendermi buon cambio; e se vi sembra ch’io di poco interessanti cose abbiavi trattenuto, spiegate la generosità vostra nel darmi cento per uno, da che ben lo potete senza timore d’impoverire.