Viaggio in Dalmazia: differenze tra le versioni

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venata. Le ossa fossili ho veduto lontane dal loro luogo nativo, prese in gran lastre di pietra aggregata, e casualmente poste dinanzi alle case di que’ contadini. Camminando pe’ contorni delle abitazioni de’ Rogosnizani, m’è accaduto di veder nel vivo del colle marmoreo una curiosa petrificazione somigliantissima alle corna, e m’è venuto a mente d’aver osservato in Padova nel Pubblico Museo di Storia Naturale un pezzo della medesima spezie qualificato come cornu vaccinum. Io credo che tanto la petrificazione ceratomorfa di Rogosniza, come l’altra di Padova sieno ortocerati, de’ quali o sono perdute le specie, o vivono nascose in mari lontani. Voi mi direte probabilmente che ad una petrificazione ricurva mal si conviene il nome d’ortocerate; ed io v’accorderò che avete ragione. Quindi Voi potrete, sempre che ne abbiate voglia, chiamarlo campiocerate.
Questa mia lunga diceria vi serva di sprone a rendermi buon cambio; e se vi sembra ch’io di poco interessanti cose abbiavi trattenuto, spiegate la generosità vostra nel darmi cento per uno, da che ben lo potete senza timore d’impoverire.
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VIAGGIO
IN
DALMAZIA
DELL’
ABATE ALBERTO FORTIS,
… Modò exuftione, modò eluvione terrarum
diuturnitati rerum intercedit occafus.
MACROB. In Somn. Scip. L.2. c.10.
VOLUME SECONDO.
IN VENEZIA.
PRESSO ALVISE MILOCCO, ALL’ AP0LLINE.
MDCCLXXIV.
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AL CHIARISSIMO SIGNOR
GIAN-GIACOPO FERBER182,
MEMBRO DEL COLLEGIO MINERALOGICO DI SVEZIA, SOCIO DI VARIE ACCADEMIE, ec
Del Contado di Traù
182 Naturalista svedese (1743-1790), allievo di Wallerius e di Linneo. Studioso di mmeralogia, con le sue numerose opere contribuì alla descrizione fisica della terra. Dai suoi soggiorni in Italia trasse materia per osservazioni e studi su particolari fenomeni naturali: tra questi le Lettere sulle curiosità naturali dell’Italia, tradotte in inglese da Raspe nel 1776.
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Nel separarmi da Voi l’ultima volta, allora quando andaste a far pe’ monti d’Italia quelle osservazioni, pella pubblicazione delle quali tanto onore ritraeste, e così gran servigio rendeste ai dotti orittologi del Nord poco addomesticati cogli an-tichi vulcani, io v’ho promesso di comunicarvi qualche parte delle mie osservazio-ni sopra la Dalmazia, verso di cui m’accingeva a far vela. Esigeste la ratificazione della promessa in iscritto, visitandomi colle vostre amichevolissime lettere anche in quella lontana provincia, dove furono quasi per condurvi a gara il vostro insa-ziabile desiderio di veder nuovi oggetti relativi alla scienza naturale, e la cordiale vostr’amicizia per me. Eccomi a soddisfare alla promessa; da che la mia mala sor-te non vi permise di venir in persona a visitar meco quel regno.
 
§. 1. Del distretto di Traù
 
La giurisdizione di Traù incomincia rimpetto all’isola Rogosniza, stendesi per trenta miglia lungo il mare quasi sino alle rovine di Salona, e comprende parecchie isole abitate, oltre a un maggior numero di scoglietti deserti. Uno di questi è detto la Pianca picciola, ed è luogo stimato pericoloso per essere esposto all’aperto mare, a differenza del resto di quel litorale ch’è difeso dalle isole.
Non si può a meno di non ridere leggendo, nel primo volume dell’Illirico Sacro del padre Farlati gesuita, che in tanto è pericoloso passo quello della Pianca, in quanto vi s’incontrano cozzando insieme le acque de’ fiumi Narenta e Cettina con quelle del fiume Kerka. Le foci di Narenta sono ottantacinque buone miglia lontane da questo luogo: e quel fiume mette in mare così lentamente, che la marea s’insinua ben dodici miglia nel di lui alveo. Il fiume Cettina poi è lontano quaranta miglia dalla Pianca, ed anch’esso si perde lentissimamente sotto Almissa nell’acqua salsa. La Kerka finalmente cade nel Lago scardonitano, ben trenta miglia lontano dalla Pianca e dodici dal mare, a cui portasi confusa colle acque del vasto porto di Sibenico. Da questo errore madornale d’un eruditissimo uomo, imparino gli scrittori a non fidarsi ciecamente delle informazioni prese da gente ignorante. Fra i più osservabili luoghi della costa soggetta a questa città è
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certamente, pell’amatore dell’antichità, quello che vien detto Traù vecchio dal volgo de’ pescatori e de’ marinati. Egli è lontano poco più di ventiquattro miglia da Sibenico, e intorno a nove dal vero Traù. Giovanni Lucio, il celebre scrittore traurino, credette che in quel sito fosse anticamente il Praetoriurn della Tavola di Peutingero. Io non vorrei attribuire a’ Romani una così cattiva scelta di luogo, e un così cattivo modo di fabbricare. Il sito è per tutti i versi infeljce, fuor di mano, senza porto, senza campagna coltivabile; il fabbricato è rozzissimo, senza un indizio di pietra riquadrata all’uso della buona architettura romana. Le muraglie rovinose, che portano il nome di Traù vecchio, sembrano piuttosto residui di qualche vasta abitazione privata che di paese anche mediocremente abitato; elleno sono composte di pietrame irregolare tolto dal monte contiguo.
Il pavimento, che in alcun luogo vi si conserva, era di battuto grossolano, ma legato con un cemento tenacissimo, che resiste tuttora al tempo ed al mare. Io penderei a creder queste rovine greche de’ bassi tempi anzicché romane; e una spezie di cappella, che vi si conserva ancora riconoscibile, me ne accresce il sospetto. In tutta la vicinanza di questo luogo desolato, non v’ha iscrizione di sorte alcuna, non una pietra lavorata, non un pezzolino di mosaico, non una scheggia di marmo nobile, cose che pur si trovano sempre in poca o in molta quantità dove i Romani abitarono.
La pietra, che forma il cattivo lido di Traù vecchio, è piena di corpi marini fistolosi di quelle medesime spezie ch’io ho osservato nell’isole del canal di Zara, e che si trovano frequentissimamente nelle Coronate.
 
§. 2. Di Bossiglina e della penisola Illide
 
Poche miglia oltre ie descritte rovine trovasi il casale di Vinischie vicino al porto Mandola, dove in altri tempi fu scavata una minera di pissasfalto, della quale non mi fu possibile aver un qualche saggio. Avanzando verso Traù
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s’incontra la villa di Bossiglina, nella di cui denominazione il Lucio si credette di veder chiaro la corruzione del nome de’ Bulini. Egli arrischiò di fissare ben angusti confini alla penisola Hyllis lasciandosi condurre da questa congettura etimologica, da che, se i Bulini abitavano in quel sito, non resta pegl’Illi altro luogo se non se il piccolo tratto di paese, conosciuto da’ vecchi geografi sotto il nome di Promontorium Diomedis, che sporge in mare fra l’isoletta di Rogosniza e la villa di Bossiglina, feudo del Vescovado di Traù. L’estensione dell’Hyllis non sarebbe più di dodici miglia da una punta all’altra, né più di cinque miglia nella sua maggiore larghezza; misure che non sembrano convenire alla descrizione che ce ne ha lasciata Scimno Chio183, chiamandola gran penisola e dicendo ch’era creduta uguale al Peloponneso. Delle quindici città che dovrebbono esservi state non ci resta vestigio; e quindici città avrebbono pur occupato buona parte di quella ristretta superficie! Ecco il tratto dell’antico geografo. «A questi (cioè a’ Liburni) è congiunta la nazione de’ Bulini. Indi trovasi la gran penisola Illica, creduta uguale al Peloponneso, in essa dicono esservi quindici città, nelle quali abitano gl’Illi, che sono Greci d’origine imperocché loro fondatore fu Illo, figlio d’Ercole. Imbarbarirono poi costoro coll’andare del tempo, per quanto si dice, nel mescolarsi con altre nazionia».
Potrebbe per avventura sembrare più atto a contenere tante città il tratto di paese che stendesi fra le foci del fiume Tizio (ch’è stato fissato mai sempre per confine della Liburnia) e quelle del Tiluro, la di cui espansione s’avvicina un poco più a quella del Peloponneso, e racchiude le belle campagne di Knin, di Petrovopoglie, di Scign e la contrada che stendesi intorno alle rovine sepolte di Promona, ch’era ancora il centro delle abitazioni degli Illiri propriamente detti al tempo di Augusto. Fu anche dato il nome dell’Illide alla penisola montuosa di Sabbioncello, che prolungasi in mare fra le foci del fiume Narenta e l’isola di
183Geografo del III/II sec. a.C., autore di una periegesi perduta, ma della quale si conservano frammenti relativi a indicazioni geografiche, storiche ed etnografiche negli Scolii di Apollonio Rodio. Nel 1600 però fu attribuita a Scymno anche una periegesi in versi di autore ignoto, alla quale, con maggiore probabilità, fa qui riferimento Fortis.
aScymn. Chius, inter, Geograph min, Hudson, v. 403 et seqq.
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Curzola; ma gli autori che così opinarono, non aveano ben esaminato le descrizioni che se ne trovano presso gli antichi geografi, differentissime da quanto a Sabbioncello può convenire.
Comunque siasi dell’antica loro origine, gli abitanti di Bossiglina sono a’ giorni nostri così poveri, che non di raro trovansi in necessità di macinar le radici dell’asfodelo, e farne un pessimo pane, che deve contribuire di molto a mantenervi colla fiacchezza delle forze lo squallore e la miseria. Le malattie costantemente prodotte da questa malefica radice sono il dolore di stomaco e l’uscita di sangue. Io non posso abbastanza stupire che i posseditori de’ terreni e i feudatari della Dalmazia badino generalmente sì poco alla sussistenza de’ coloni, i quali hanno pur gran bisogno che vi sia chi pensi per loro. La piantagione dei castagni, spezie d’albero che non si trova assolutamente in veruna parte della provincia, e che converrebbe moltissimo alle montagne interne, sarebbe salutare pei poveri. Gioverebbe anche ad essi l’uso delle patate, delle quali si pascerebbono certamente più volontieri che di radici d’aro e d’asfodelo, odi bacche di ginepro cotte, cibi pur troppo usati negli anni di scarsezza da molte e molte miserabili popolazioni dell’isole e del litorale. Voi sapete quanto alla patria vostra sieno state utili le patate, che hanno preso il luogo del cattivo pane, cui mangiavano particolarmente nelle povere contrade della Dalecarlia184 gli squallidi contadini, ne’ tempi di carestia.
Le lane di Bossiglina si distinguono da quelle de’ vicini luoghi per la loro buona qualità; e questa prerogativa è probabilmente la conseguenza dell’attenzione d’alcuno de’ passati Vescovi, che avrà voluto migliorarvi le razze delle pecore col trarne d’Italia. V’ha ogni ragion di sperare dall’umanità e lumi dell’ottimo prelato monsignore Antonio Miocevich185, che attualmente copre con sommo lustro la sede di Traù, qualche maggior benfizio a que’ poveri vassalli.
184Regione storica della Svezia centrale: l’attuale Dalarna.
185(1738-86) Vescovo di Traù, accanto all’intensa attività pastorale, coltivò interessi storici e letterari, costituì una pregevole biblioteca con opere a stampa e manoscritte, sulla Dalmazia, e Traù in particolare.
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Dopo Bossiglina costeggiando il mare trovasi la villa di Seghetto, circondata da ben coltivata campagna che s’innalza ascendendo verso i monti, ed offre in ogni stagione a’ naviganti uno spettacolo ridente pella quantità d’ulivi ond’è ricoperta. Da questa villa a Traù si va per un cammino piano non discosto dal mare.
 
§. 3. Della città di Traù e del marmo traguriense degli Antichi
 
Traù, detta dagli Slavi Troghir, lontana da Sibenico intorno a trentaquattro miglia di mare, se non è città molto considerabile pell’estensione delle sue mura o pel numero de’ suoi abitanti, lo è però assai pell’antichità della sua fondazione, pe’ dotti uomini che produsse e pelo spirito di concordia cittadinesca che vi regna. I Siracusani moltiplicatisi nell’isola d’Issa fuor di proporzione coll’angusta circonferenza del paese, staccarono una colonia che andò a fabbricare Traù. La situazione ch’eglino scelsero prova che i Greci furono in ogni tempo avveduti, e che non degenerarono trapiantandosi in paesi stranierj. Giace questa città su d’un’isoletta artificiale, congiunta al continente da un ponte di legno, e coll’isola Bua da un sodo argine di muro intersecato da due ponti di pietra e da un levatoio, che serve al passaggio delle barche.
La larghezza del canale fra la città e l’isola Bua è di circa trecencinquanta piedi; egli è frequentatissimo dai legni che temono il mare, e che da Zara all’estremità orientale della provincia studiansi di viaggiare lungo la costa sempre coperti dall’isole.
Della storia di questa città pubblicò un farraginoso volume abbondantissimo di documenti e buone notizie il celebre Giovanni Lucio, che vi nacque di nobilissima famiglia ora estinta. Ella ha prodotto parecchi uomini di lettere, nella biblioteca d’uno de’ quali fu rinvenuto il celebre codice di Petronio col frammento
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della cena di Trimalcione186. Di questo codice, che lo Spon ha potuto vedere del 1675, non m’è riuscito di trovare alcuna traccia. Coriolano Cippico, Marino Statileo, Tranquillo e Paolo Andreis187 sono i più illustri nomi fra’ letterati traurini. Di questi e d’altri io darò forse in più opportuna occasione dettagliate memorie, profittando dell’erudite fatiche del dottissimo Vescovo che si occupa nel raccoglierle, quando egli, che può farlo superiormente, non le dia al pubblico per onore della sua nazione.
Plinio facendo breve menzione di Traù, lo distingue dagli altri stabilimenti romani pella celebrità del suo marmo: Tragurium oppidum Romanorum marmore notum. Vitaliano Donati ha creduto, che il marmo traguriense degli Antichi sia quello ch’è conosciuto a’ dì nostri sotto il nome di marmo d’Istria o di Rovigno. Sarà forse così, né io ardisco d’asserire francamente il contrario a fronte d’un sì celebre uomo. Ma se il marmo traguriense fosse stato quella spezie di pietra forte volgare, onde in buona parte sono composti i lidi e l’isole dell’Istria e della Dalmazia, i Romani non avrebbono avuto bisogno di trarlo da Traù. I monti vicini a Roma, che dominano le paludi pontine sino a Terracina (per lasciar da parte i mediterranei di que’ contorni) sono per lo più composti di questa medesima spezie di marmo, che io credo di poter chiamare marmo o pietra forte dell’Apennino, da che l’ossatura di quella catena di monti n’è quasi totalmente composta. Egli è certo che con molto minore spesa se ne potevano condurre masse grandissime da Terracina a Roma, che dalla Dalmazia. Né si può dire che i Romani non conoscessero le cave del marmo Apennino e non sapessero quanti gran pezzi se ne potessero trarre. Fra gli altri luoghi, ne’ quali appariscono i lavori
186Forse ad opera di M. Statileo fu ritrovato tra i libri di Nicolò Cippico il famoso manoscritto (ora Parigino 7989) che contiene il testo completo della Cena di Trimalcione, fino al ‘600 nota soltanto in frammenti o citazioni. La scoperta e l’edizione a stampa (Padova, 1664) aprirono un dibattito tra eruditi e filologi sull’autenticità dell’opera, e riaccesero l’interesse per il genere del romanzo latino ed il suo autore.
187Coriolano Cippico, umanista (1425-1493). Partecipò alla guerra contro i Turchi accanto a Pietro Mocenigo (1470-74), e ne descrisse gli avvenimenti in un’opera nota anche col titolo di De bello asiatico. F.T.A. Andreis (1490-1571), umanista e uomo di stato, fu segretario dei Re d’Ungheria e ambasciatore. Autore di versi e prose latine, fu in relazione con grandi umanisti, tra i quali, Erasmo da Rotterdam e Paolo Giovio. P. Andreis, vissuto tra il 1610 e il 1686, scrisse una storia di Traù rimasta inedita.
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de’ loro tagliapietra, è illustre quel pezzo di monte marmoreo, tagliato a piombo in riva del mare appunto presso Terracina per 120 piedi, a fine di togliere un incomodo passo alla via Appia. Voi l’avrete certamente esaminato da vicino nel passaggio che faceste da quella parte, andandovene a Napoli per visitare il Vesuvio. S’eglino avessero poi voluto, per una stravaganza che non si dee attribuire a così avveduto popolo, avere dalla lontana provincia un marmo ignobilissimo, non lo avrebbero preso da Traù, ma dalle parti più orientali della Dalmazia e dall’isole men lontane che ne abbondano egualmente, e nelle quali v’erano pure stabilimenti romani. A tutto questo s’aggiunge che fra le rovine di Roma non si vedono lavori di questa sorte di marmo, trovandosi sempre nelle fabbriche antiche adoperata la pietra forte di Tivoli, chiamata travertino da’ marmorai de’ nostri tempi, o peperino tolto dai colli vicini alla città stessa, non già da Piperno, e finalmente il tufo arenoso vulcanico, che veniva dai monti di Marinoa. Ne’ colonnati, nelle incamiciature, negli ornamenti delle fabbriche antiche, oltre i graniti, i porfidi ed altri marmi vitrescenti, veggonsi breccie calcaree di varie macchie, e marmi uniti di vari colori ed impasti provenienti da diversi paesi. Fra queste pietre della seconda classe farebbe d’uopo cercare quel traguriense, che nobilitava il suolo nativo. E probabile che fosse qualche breccia ben macchiata, confusa adesso colle africane, da che le sommità di tutti i monti della Dalmazia ne danno varie e nobilissime spezie. È anche molto verisimile che del marmo statuario traessero gli Antichi dai contorni di Traù: ma chi ne indovinerebbe la cava senza riconoscerne la scoperta dal caso, o senza misurare a palmo a palmo il paese? Io feci delle ricerche non del tutto fruttuose per trovare il marmo salino presso a Traù; e v’ebbe chi cercò di sorprendere la mia buona fede, mostrandomi una scheggia di marmo carrarese, come tolta dal Monte di Sant’Elia,
aÈ strana cosa che il celeberrimo Wallerio confonda il peperino col travertino e nella descrizione che dà dell’uno e dell’altro, mostri di non conoscerne bene nessuno. Alla p. 356, 357 della nuova edizione 1772 del suo Sistema mineralogico, egli si ne’ loro sistemi, se viaggiassero un poco più, gli affida a d’Arcet, e asserisce che il peperino non è una pietra vulcanica: ma poi alla p. 422, dimenticatosene, riconosce per vulcanico il peperino o sia tiburtino credendo queste due differentissime spezie una cosa sola. Oh, quante correzioni farebbero scrittori più celebri.
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che sorge vicino alla città, dove in alpestre sito veggonsi antiche cave di marmi non affatto volgari, ma ben ancora lontani dalla finezza del carrarese. Farebbe d’uopo che il viaggiatore usasse sempre dell’attenzione, ch’io uso costantemente prima di asserire un fatto sull’altrui fede; cioè, ch’egli andasse sopra luogo, o almeno minacciasse di farlo ad onta d’ogni difficoltà; così si scoprono le bugie. A ogni modo, la pietra di Sant’Elia merita qualche considerazione, se non pella sua bianchezza, almeno pella facilità che trovasi nel lavorarla. Ella congiunge alla trattabilità ed unitezza della grana la facoltà di ricevere bel pulimento. Non sarebbe la migliore pe’ lavori di primo rango: ma riuscirebbe opportunissima pelle scolture da collocarsi in luoghi men nobili, o fuori della portata d’un occhio esaminatore. Certa cosa è che gli Antichi ne fecero uso. Poche iscrizioni e niun residuo di fabbriche romane si è conservato a Traù. Le poco importanti lapide di questa città sono già state pubblicate nelle collezioni cui gli amatori hanno sovente per le mani: e nemmeno tutte quelle, che altre volte vi si trovavano, vi si trovano adesso.
 
§. 4. Dell’isola di Bua
 
L’isola di Bua188, detta Bubus da Plinio, è per tal modo congiunta colla città di Traù, che non mi credo permesso di separarnela, quantunque ell’abbia tanta varietà di cose osservabili che meriterebbe di formare un articolo a parte. Le numerose abitazioni raccolte sul lido di Bua, che guarda Traù, possono degnamente portare il nome di borgo; e formerebbero da se un considerabile paese, se la vicinanza della città non le oscurasse. Fa però d’uopo confessare che il borgo è assai meglio situato che la città medesima. Ne’ tempi della decadenza dell’Impero chiamavasi Boas, e furono relegati in quest’isola parecchi illustri uomini caduti in disgrazia della corte, fra’ quali Fiorenzo maestro degli ufizi
188La denominazione slava è Ciovo.
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dall’imperatore Giuliano, Immezio da Valente, e l’eretico Gioviniano. Fa d’uopo che gl’Imperatori di Costantinopoli, o non conoscessero bastevolmente questa pretesa Siberia, o volessero trattare con molta clemenza i relegati. Egli è certo che il clima dell’isola è dolcissimo, l’aria perfetta, l’oglio, l’uve, i frutti eccellenti, il mare vicino abbondante di pesci, il porto vasto e sicuro. Né l’estensione d’essa è tanto picciola, che un galantuomo non vi potesse passeggiare e cavalcare a suo comodo: poiché ha dieci miglia di lunghezza, e intorno a venticinque di circuito né, benché sia molto elevata, può chiamarsi aspra.
Vedesi nella borgata di Bua una palma dattilifera natavi quarantatré anni sono, che sta sempre esposta ai cangiamenti dell’aria, e da dieci anni in quà non manca mai di produrre abbondantissima copia di datteri. Questi non sono per vero dire della più perfetta qualità: sono però mangiabili ad onta d’un po’ d’aspretto, che ritengono forse dall’essere la palma un poco troppo abbandonata all’intemperie dell’inverno che, per quanto sia dolce sull’isola di Bua, è però sempre più rigido che l’invernate de’ luoghi nativi delle palme in Africa e in Asia. Forse in conseguenza del non aver un maschio vicino che la fecondi, la palma di Bua produce datteri privi di nocciuolo. In luogo di esso hanno una cavità, le di cui pareti sono un poco più resistenti che il resto della polpa. E probabile che se il proprietario di questa palma la facesse coprire nel tempo d’inverno, i datteri ch’ella produce fossero più dolci.
Vari impasti di marmo e di pietra dolce io ho incontrato su quest’isola, e molti più ne troverebbe chi avesse da farvi replicate osservazioni. V’ha del marmo bianco comune da fabbrica di pasta istriana, rigido, madroso, che scheggiasi come le selci; v’ha del marmo laminoso tegolare della stessa natura, nella superficie del quale veggonsi spesso impressioni o protuberanze di corpi marini petrificati. Vi domina il marmo lenticolare di non sempre uguale durezza; vi si trovano vene di pietra dolce calcarea trattabile dallo scalpello, e crete rassodate, e gruppi di spati stalagmitici, che da’ nostri scalpellini sono conosciuti sotto ‘l nome d’alabastri fioriti. Selci di più colori e d’incostantissime forme si veggono prese nel
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marmo, ed erranti nella terra schistosa che divide in alcun luogo i filoni petrosi, e circondate sovente d’aggregati di corpi marini lapidefatti. Non trovai verificata dal fatto in quest’isola, né in verun altro luogo della Dalmazia, dove le selci s’incontrano prese negli strati di marmo, l’asserzione del signor di Reaumur, che dell’origine loro scrivendo nelle Memorie dell’Accademia disse «che le focaie affettano per lo più una sorte di rotondità». Elleno trovansi a Bua per lo più angolose irregolarissimamente, colle faccie piane, a grossi pezzi, interrompendo visibilmente la continuità del marmo. Sembrano, a chi le vede, cadute dall’alto per qualsivoglia accidente, e senza sofferire alcuna fluitazione sepolte dal proprio peso nella fanghiglia marina, che poi coll’andar degli anni rassodossi in marmo sott’acqua, indi col girar di più secoli restò all’asciutto e soffrì tutte quelle rivoluzioni che sono necessarie perché vengano squarciati gli strati continui, restino divisi i monti e ne siano trasportate le membra sminuzzate in ghiaia ed arena, e perché finalmente ne rimangano isolate le parti coll’introduzione di lontani mari, i flutti de’ quali, percotendo impetuosamente le radici delle nuove isole, scompongano e corrodano a poco a poco il lungo lavoro d’acque più antiche, Le selci di Bua, e assai comunemente quelle di tutta la provincia che trovansi sepolte ne’ monti marmorei, portano così chiari segni di separazione da una massa continua, ch’io sarei tentato di credere si sieno staccate da strati molto estesi di monti che più non esistono: quantunque il celebre naturalista sopra nominato scriva che le focaie mai non si trovano disposte a strati. A questa congettura mi dà coraggio il ricordarmi d’aver personalmente osservato, e ‘l vedesi attraversare orizzontalmente le materie vulcaniche d’una delle isolate colline di Montegalda, fra Padova e Vicenza, detta il Monte-lungo. Ho poi cento volte avuto sotto gli occhi selci nere disposte a strati ne’ colli Euganei, e colà spezialmente dove sono formati di quella spezie di pietra calcarea bianca, scissile, piena di dendromorfi piriticosi, che fra noi chiamasi scaglia, e pcI resto d’Italia viene comunemente detta alberese. Io so d’aver anche veduto sulle spiaggie di Manfredonia in prodigiosa quantità i ciottoli di focaia fluitati, erranti; e dieci
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miglia più addentro, al passo del Candelaro, ciottoli di focaia scantonati, coll’esterna corteccia candida, presi in una spezie di fragilissimo tufo marino composto da madrepore e frantumi di testacei petrificati. Ma né i ciottoli di Manfredonia, né quei della collinetta aggiacente al Candelaro sono nativi de’ luoghi dove attualmente si trovano, anzi manifestamente sono stati portati d’altronde.
Da questi fatti io mi credo concesso il diritto di rivocare in dubbio l’universalità della dottrina del Linneo: silex nascitur in montium cretaceorum rimis, uti quartzum in rimis saxoruma. Nè quindi stimo che al dottissimo naturalista rimprovero d’inesattezza si deggia fare; egli avrebbe scritto altrimenti, se nelle nostre contrade meridionali avesse viaggiato, o da’ nostri osservatori avesse ricevuto notizie. Se ‘l trovarsi le selci sovente disposte a strati prova che il signor de Reaumur non avea ragione di dire che per lo più sono erranti, la frequenza poi grandissima de’ ciottoli siicei erranti, e divenuti probabilmente tali dopo d’essersi sciolti dal cemento de’ marmi brecciati, prova che il signor Linneo ha tutti i torti nel prescriver loro l’assoluta legge di nascere nelle fenditure de’ monti cretacei. Io ho più volte trovato le selci nell’atto per così dire del passaggio dallo stato calcareo al siliceo; ed in particolare ne ho frequentemente incontrato di ravvolte nelle materie vulcaniche. M’è anche venuto fatto di disporre in serie i vari gradi di questo passaggio, ed ho avuto la compiacenza di farli vedere a molti dotti amici nostri. Le focaie di Bua prese nel marmo sono alcuna volta circondate da una crosta ocracea poco più grossa dimezza linea; alcun’altre sono macchiate di ruggine e talora finalmente, quando sono erranti nella creta o ne’ frantumi di corpi marini inegualmente petrefatti, affettano una sorte di rotondità. Ve n’hanno di ramose, di cilindriche, di globose, e fatte a foggia di pero: ma queste figure sono anche comuni a molti pezzi di pietra non silicea, che ne’ medesimi luoghi si trovano ad un tratto insieme colle focaie, e al di fuori malagevolmente sj ponno da esse
aLinn., Syst Nat, silex.
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distinguere. Una focaia cilindrico-stiacciata, ch’io ho fatto pulire, è tutta compenetrata di vene di spato calcareo cristallizzato, che circondano piccioli ritagli di selce, ripieni di minuti corpicelli marini del genere delle frumentarie. Questo pezzo è de’ più atti a far girare il capo a chi si lusingasse di veder netto nella formazione delle selci. Confessa Henckel189 nella sua Pyritologia, dopo d’averne parlato a lungo, ch’ella è inintelligibileb.
 
§. 5. Minera di pissasfalto
 
La curiosità fossile di Bua, che merita a mio credere maggior attenzione di tutte l’altre, si è la minera di pissasfalto. Io mi arrischio a chiamarla minera con non affatto proprio vocabolo, per non dirla piuttosto fonte, che parrebbe ancora più strana denominazione. In due promontori dividesi l’isola di Bua fra ponente e tramontana, l’un de’ quali guarda l’isola di Solta, l’altro prolungasi rimpetto a Traù. Fa d’uopo varcare la sommità di quest’ultimo, che non è largo mezzo miglio, discendendo a dritta linea verso il mare per condursi ad una buca assai nota agli abitatori. Questa ha poco più di dodici piedi d’apertura, e dal di lei fondo s’alza a perpendicolo oltre venticinque piedi il vivo degli strati marmorei, su de’ quali posano i massi irregolari, che servono di circondano alla cima del monte.
Il luogo m’è sembrato così degno d’osservazione, ch’io l’ho fatto disegnare (Tav. VIII). La buca è scavata in uno strato irregolare di terra argillacea arenosa, ora biancastra, ora traente al verde, ora mezzo petrificata, piena di nummali della maggior grandezza di lenticolari e frantumi, con qualche ramicelo di madrepora e
189Naturalista tedesco (1679-1744), studioso di chimica e mineralogia: le sue opere principali, Flora Saturnizans e la qui citata Pyritologia (Storia naturale della pirite), furono tradotte da d’Holbach. Wallerius lo riconobbe come un precursore della classificazione sistematica del regno minerale.
bNella collezione del nobil uomo signor Giacomo Morosini, vedesi fra le altre molte pregevoli curiosità fossili, una tavoletta di diaspro tolta dai monti di Recoaro, presso alla fonte delle Acidule, in cui la pasta della pietra, e i gusci delle terebratole e grifiti che vi stanno prese, è silicea; l’interno poi dei detti corpi marini è ripieno d’una candidissima cristallizzazione calcarea.
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non di raro di quelle serpole lombricali che dal Gesnero190 son dette Corna d’Ammone bianche, minime, ec. Il masso B è caduto dall’alto e giace isolato. L'escavazione praticata da qualche pover uomo nella materia più arrendevole, s’interna alcun poco sotto l’estremità CC dello strato DD. Questi è separato per la linea EE dallo strato FF, ch’è di marmo forte volgare con corpi marini, senza focaie.
Il superiore GG è di pietra forte lenticolare, e seminato di focaie, piene esse pure di lenticolari. Il masso H non mostra al di fuori le divisioni de’ suoi strati, e trasuda minute gocciole di pissasfalto, che non sono quasi osservabili. Ben lo sono le lagrime in della stessa materia, che colano dalle fessure e screpoli dello strato biancastro DD. Elleno usano d’uscirne più abbondevolmente allor quando il sole percuote que’ marmi nelle ore calde del giorno. Questo pissasfalto è della più perfetta qualitàa, nero e lucente quanto il bitume giudaico, purissimo, odoroso, tenace; egli esce come liquefatto e arrendevole, per rassodarsi poi in grosse gocciole al tramontare del sole. Rompendo molte di queste gocciole sul luogo, io ho trovato che quasi ognuna di esse ha una cavità interna ripiena d’acqua limpidissima.
La maggior larghezza delle lagrime, ch’io abbia veduta, si è di due pollici parigini, la comune di mezzo pollice. Gli screpoli e fenditure del marmo, d’onde trasuda la pece bituminosa, hanno al più la larghezza di una linea; per la maggior parte però sono così impercettibili che, senza la pece medesima da cui sono annerite, non si potrebbono per alcun modo ad occhio nudo distinguere. Dall’angustia delle vie forse dee in parte ripetersi la scarsezza del pissasfalto che geme da quelle rupi.
190Konrad von Gesner (1516-68) medico e naturalista svizzero, filologo e teologo, noto per le sue opere di botanica (Opera botanica per duo saecula desiderata e Historia plantarum) e soprattutto per essere l’autore di una delle prime opere di zoologia dell’età moderna (e la prima illustrata, di poco precedente a quella di Aldovrandi): la Historia animalium (Zurigo 1551), descrizione di tutta la fauna terrestre, secondo le classificazioni aristoteliche.
aBitumen subfriabile piceum, Linn., Syst Nat.
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Io ho rotto molti e molti pezzi di quella pietra forte calcarea: evi ho costantemente trovato dentro macchie nere di pece lucida, che hanno talvolta comunicazione cogli screpoli esteriori, e talvolta sono come laghetti isolati, senza uscita da veruna parte. Mi parve sul fatto s’avesse quindi motivo di sospettare che la pece preesistesse al rassodamento della terra calcarea in pietra di quell’antico fondo marino, ch’è certamente faccenda di qualche antichità. La parte superiore del colle è marmorea e quasi nuda di terreno; alberi non vi allignano, né senza gran soccorsi dell’arte vi potrebbono affignare. Chi mi saprà dire d’onde colà sia venuta, e come al percuotere de’ raggi solari in que’ dirupi sciolgasi e trasudi la pece di già cotta e annerita? Qual rimotissimo incendio di selve, o qual vulcano la produsse? Ed in qual distanza prodigiosa di tempi e differenza di circostanze? E come v’entra quell’acqua, che l’accompagna fedelmente anche ne’ tempi di maggior aridezza? Vien’ella dagli alti monti del continente passando per disotto al canal di mare, che divide l’isola di Bua da Traù? E in questo caso, come può ascendere attraverso i compattissimi strati di marmo, onde l’isola stessa è composta? Si potrebbe pensare che l’ardore del sole rendesse que’ massi atti ad attrarla dal mare medesimo, che in alcun luogo sotto d’essi s’insinua, o da qualche fonte ben profondamente sepolta? Io non m’appiglio a verun partito e lascio a Voi, che siete maestro in queste oscure materie, a decidere d’ond’ella venga. In vari altri luoghi d’Europa, e segnatamente nell’Alvernia presso Clermont-Ferrand, v’ha un monte d’onde si trae il pissasfalto. Strabone fa menzione d’un celebre luogo dell’Epiro nel tenere degli Apolloniati, dove dalla terra raccoglievasi. Ma il monticello di Clermont è vulcanicoa: e ne’ contorni della minera mentovata dal geografo, eravib una rupe che gettava fuoco, e vi sorgevano acque termali contigue. Così dal monte vicino a Castro, nella
aAldrovandi, Mus. metall, p. 382.
bStrab., Geograph, lib. VII.
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campagna romana, geme la pece bituminosa di cui fa motto anche il Boccone191: ma il luogo è tutto circondato da materie vomitate dagli antichi vesuvi. Sull’isola di Bua non v’è alcun vestigio di vulcano antico né moderno, come non v’è per molte e molte miglia addentro nel continente.
Mi ricordo che Voi medesimo m’avete alcuna volta parlato di una pece somigliante a questa, che cola dalle rupi in qualche provincia della Svezia; ma non m’avete aggiunto che da’ vostri compatriotti fossero stati esaminati, o descritti minutamente i monti d’ond’ella scaturisce. Trovo presso quasi tutti gli scrittori, che della pece minerale ci hanno lasciato cenni, trascurato quasi totalmente l’esame degli strati da’ quali trasuda; e mi par condannevole negligenza.
Corrisponde questo pissasfalto di Bua a quella produzione fossile, che mumia minerale vien detta dall’Hasselquist192 ne’ suoi viaggi, e mumia nativa persiana dal Kempfero, di cui serviansi gli Egiziani per imbalsamare i loro rec. Trovasi questa in una caverna del Caucaso, che sta chiusa e guardata con gelosia per ordine del Re di Persia. Una delle qualità assegnate dal signor Linneo al bitume prezioso si è il fumare nel fuoco, come fuma il nostro, spargendo un odore di pece non dispiacevole. Io credo che sarebbe ottimo per le ferite, come lo è quello
191Naturalista siciliano, viaggiatore e collezionista (1633-1704), fu tra i padri degli studi sulla flora europea, autore di estese trattazioni che investono tutti i campi del sapere scientifico: ne è un esempio l’opera qui citata, pubblicata per la prima volta a Venezia nel 1697.
192Naturalista svedese (1722-52), allievo di Linneo, scrisse numerose memorie e lettere scientifiche e un Voyage dans le Levant (1762), relazione di un suo viaggio in Levante e in Egitto.
c«Mumiahì, o sia mumia nativa persiana. Esce da una dura rupe in pochissima quantità. E un sugo bituminoso che trasuda dalla petrosa superficie del monte, somigliante nell’aspetto alla brutta pece de’ calzolai, come anche nel colore, nella densità e nella duttilità. Quando è ancor aderente alla sua rupe riesce men solido, prende forma col calor delle mani, gode d’esser unito all’oglio, rispinge l’acqua; e affatto privo d’odore e simiissimo nella sostanza alla mumia egiziana. Posto su i carboni accesi, dà un odore di zolfo, temperato un cotal poco dall’odore di nafta, non dispiacevole [...] V’hanno due varietà di questa mumia: l’una è la primaria nobilitata dalla sua scarsezza, e dall’attività somma [...] Il luogo nativo della mumia primaria, è rimotissimo dall’accesso degli uomini, da’ luoghi abitati, dalle fonti d’acqua, nella provincia di Daraab. Trovasi in una caverna angusta, non più profonda di due braccia, scavata a guisa di pozzo nel masso, alle radici d’uno scosceso monte del Caucaso». Kempfer, Amoen. Pers.
Questa descrizione corrisponde perfettamente al pissasfalto, o mumia fossile di Bua, e solo discorda pella privazione d’odore, che par difficile possa esser totale nella mumia persiana.
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d’Oriente, e come la pece di Castro usata assai comunemente per le fratture, contusioni, ed altri molti malori da’ chirurghi romanid.
 
§. 6. Delle patelle articolate
 
Fra i molti viventi marini che si pescano nel porto di Bua, anzi lungo il suo lido ch’è tutto ingombro di massi rovinati dall’alto, meritano particolar descrizione due spezie di patelle bislunghe, articolate, dette babusche da que’ pescatori, che sembrano essere state mal distinte sinora, e peggio figurate dagli scrittori di storia naturale marina, e segnatamente dal Rumfio193 e dal Ginanni194, l’uno de’ quali limaci marine, l’altro patelle testudinate le nominò.
Questo testaceo è d’una struttura così elegante, che mi è sembrato meritare d’esser più accuratamente figurato. La Figura A della Tavola IX rappresenta la patella così distesa, come suole naturalmente starsi attaccata alla superficie piana de’ sassi, o d’altra cosa sott’acqua. Ella è composta d’otto pezzi accavallati, come le squame de’ pesci, e legati insieme da forti tendini, col mezzo de’ quali l’animale si fa lungo camminando tre e quattro linee più ch’ei non è quando sta fermo. A questa distensione s’accomoda anche l’orlo coriaceo, che veduto coll’occhio armato195, dalla parte che s’attacca alle pietre, è tutto tessuto di papille nervose corrispondenti peravventura ad altrettante protuberanze della superficie esterna.
Queste papille gemono una sostanza glutinosa, che serve a fermare l’animale tenacissimamente là dov’ei s’attacca. Dopo d’essere stata distaccata a forza due o tre volte, la bestiuola resta priva de’ modi di riappiccarsi, e si lascia andare a
dBoccone, Museo di fisica, ec, p. 161.
193G.E. Rumpf (1627 1702), nato nelle Indie orientali olandesi, ne descrisse la flora in una monumentale opera, Herbarium amboinense. Inoltre pubblicò un Thesaurus imaginum piscium testaceorum... et cochlearum, illustrato.
194Collezionista e naturalista ravennate, autore di dissertazioni e osservazioni, sulle conchiglie e i fossili, la flora e la fauna marina dell’Adriatico.
195Provvisto degli strumenti necessari, lenti o microscopio.
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corpo morto per molte ore, finché si riempiano di nuovo i serbatoi del suo glutine; allora ella si rimette col ventre in giù. Quando questo animaluccio cammina non mostra punto il grugno; ma va sempre coperto dall’orlo coriaceo, che si muove tutto ad un tempo col meccanismo della distensione e prolungazione delle papille suddette, che gli servono di gambe. Esaminando il corpo della patella articolata viva, io non le ho veduto nel piede (che simile a quello della patella volgare stendesi per tutta la sua lunghezza) verun organo distinto, forse la progressione di quella suola callosa dipende dai movimenti delle papille dell’orlo coriaceo. La bocca è somigliante a quella dell’altre patelle, ma l’interna struttura ancora più semplice, non vedendovisi altro che un sacco dalla bocca all’ano.
Gli escrementi dell’animaletto sono piccioli granellini cilindrici, e prendono questa figura prima d’affacciarsi all’orificio, sovente il sacco accennato se ne trova ripieno. Sono di lui cibo minuti vermicelli marini, e più frequentemente la sostanza gelatinosa di varie spezie di polipi, che si propagano su le pietre sommerse nel mare. Quantunque la patella articolata mai non si trovi così vicino al lido, che la bassa marea possa lasciarla fuor d’acqua, ell’ama però l’aria e lo mostra con singolar precisione. Io ne ho tenuto parecchie in piccioli piattelli ripieni d’acqua marina, per averle comode alle lenti. Stavano quatte sott’acqua sino a tanto che io faceva romore nella stanza: ma tosto che io ne usciva, o mi stava zitto per qualche minuto, cileno si moveano direttamente verso gli orli, e appena sentivano mancarsi l’acqua, alzavano or da una, or dall’altra parte il lembo coriaceo, quasi fiutando l’aria con piacere, e finalmente o rannicchiate di fianco arrestavansi mezzo all’asciutto e mezzo in molle, o si strascinavano sul taglio esteriore del piattellino, dove si fermavano sollevando un lato del tutto, perché l’aria potesse insinuarsi di sotto al loro ventre raggrinzato. L’estremità anteriore, rappresentata dalla Figura B molto più grande del naturale, è assai differente dalla posteriore (Fig. C), quantunque al primo guardarla nell’animaluzzo intero sembri della stessa struttura. Le sei vertebre di mezzo (Fig. D) sono tutte simili; ed il lembo che le circonda, veduto sotto ‘l microscopio, offre
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la superficie globulosa mostrata da un picciolo ritaglio di esso nella Figura E. Usano di piantar abitazione sul guscio di questa patella varie spezie di polipetti minutissimi, e vi fabbricano particolarmente le case loro quelli dell’escare196. Vi sono frequenti i sifoncoli testacei di vermi, e non di raro se ne trovano d’assai elegantemente girati in ispirale e fasciati, come si vedono espressi nella vera loro grandezza dalle Figure F, G, H e accresciuti sotto ‘l vetro nelle Figure G, H, I. Il colore del guscio delle patelle è vario non solamente da un individuo all’altro, ma altresì da una vertebra all’altra. Ve n’hanno di grigie, di verdastre, di gialle, di nere; e taluna ha l’estremità d’un colore e le vertebre d’un altro, o una vertebra rossa e ‘l resto tutto punteggiato. Io ne conservo un esemplare che ha le due estremità e la metà della prima vertebra tinta di nero, col rimanente verde. Il signor Linneo mette questa spezie fra i chitoni al n. VII.
L’altra spezie di patella rappresentata dalla Figura K è poco comune nelle acque di Bua, ed ama più tosto i fondi limacciosi come quelli del vallone di Slosella. Io la chiamerei patella articolata, cotennoso-testacea, adorna di fiocchi. Nella struttura interiore è simile alla prima spezie, nell’esteriore ha di molte differenze. Il suo orlo più cotennoso che coriaceo, tigrato di nero sui grigio, seminato di peli, termina tutto all’intorno in piccioli pennellini stiacciati ed acuti. Il numero delle vertebre è lo stesso: ma fra l’una e l’altra s’insinua esteriormente la sostanza cotennosa dell’orlo, formando nelle connessioni di esse vertebre altrettante piramidi, che vanno a combaciarsi negli apici. Le vertebre medesime (Fig. L) hanno l’arcuazione più acuta e la loro parte testacea è coperta d’un epiderma punteggiato di picciolissimi circoletti, che corrispondono esattamente nelle Figure M, N a quella del già descritto (Fig. E). La massima differenza poi, che caratterizza questa seconda spezie, consiste in dieciotto fiocchetti argentei che l’adornano, composti di filamenti simili all’amianto. Sorgono questi alla congiunzione delle vertebre, e servono quasi di base alle piramidi cotennose che vi s’insinuano. Eglino dovrebbono a questo modo essere solamente sedici, dacché
196Si tratta probabilmente degli escaridi, minutissimi tentacolati marini o d’acqua dolce, che vivono in colonie.
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d’otto soli pezzi è composta la spoglia della patella articolata: ma ve n’hanno due un po’ più piccioli degli altri alla estremità anteriore. La Figura O rappresenta ingrandita la sesta parte d’uno di que’ fiocchi, e la colonnetta esagona P mostra uno de’ filamenti veduto con vetro più acuto. Non saprei indovinare che uso ne faccia l’animaletto. Il signor Linneo descrive questo testaceo, cui fa abitante delle coste di Barberia, al n. IV de’ chitoni. La di lui descrizione però non dà un’idea bastevolmente precisa della struttura dell’animale; e contiene qualche inesattezza intorno al numero e disposizione de’ fiocchi, al colore della spoglia, all’arcuazione, ec.a.
Una spezie rarissima di chiton fascicolare da sei sole articolazioni ho trovato nell’esaminare minutamente la mia collezione ritornato dal viaggio, ed è la contrassegnata dalla lettera Q. In più d’un centinaio di chitoni ottovalvi raccolti con molta fatica non ho potuto rinvenirne che un solo esemplare.
Un’infinità d’altri curiosi viventi propagansi ne’ piccioli seni del porto di Bua, fra’ quali non v’ha dubbio che molti riuscirebbono nuovi ai naturalisti: ma lunghe diligenze richiedonsi per osservarli ne’ vari loro stati; lunghe stazioni per discoprirne l’indoli e le qualità differenti, lunghi esami di libri non ovvi e di collezioni farraginose per assicurarsi che nessuno degli scrittori di storia naturale marina n’abbia parlato. Io ho sbozzato la storia di parecchi ma non la darò, se non quando mi sia riuscito di perfezionarla.
 
§. 7. Del litorale di Traù verso Spalatro, e della pietra di Milo
 
Il litorale di Traù verso levante è più coltivato che spazioso. Egli stendesi appié d’alti monti, e quasi mai arriva alla larghezza d’un miglio e mezzo fra la pianura e ‘l pendio coltivabile.
aChiton testa octovalvi, corpore ad valvas utrinque fasciculato Habitat in Barbaria. Corpus cinereum, laeve Testae leviter carinatae. Fasciculi pilorum totidem, albidi, juxta testarum latera corpor: insident, Linn., Syst. Nat.
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Due miglia lontano dalla città sorge dalle radici del monte Carbàn un considerabile capo d’acqua, che non ignobile fiumicello formerebbe se avesse più lungo corso e non si perdesse appena uscito dalle sotterranee caverne nel padule salso, che fa un po’ di torto all’aria cui respirano i Traurini. I massi sconvolti, da’ quali esce questa gran fonte di sotto in sù, sono di pietra forte lenticolare: la parte media del monte è di terra argillosa biancastro-azzurrognola, ora più ora meno rassodata: la sommità di marmo volgare biancastro, di brecciato, o di lenticolare incostantemente, come si può arguire dalle ghiaie che scendono pe’ rigagni eventuali dell’acque piovane e pe’ ruscelli perenni, da parecchi de’ quali è irrigato quel delizioso litorale.
Otto macine girano in que’ mulini, mosse da ruote orizzontali co’ raggi fatti a foggia di cucchiai, secondo l’usanza comune a quasi tutta la Dalmazia. In questo luogo per la prima volta ho veduto usare le macine composte di molti pezzi di pietra di Milo, ch’io non conosceva per lo innanzi, così chiamata dall’isola di questo nome nell’arcipelago. Non crederei agevolmente che l’isola avesse tratto il nome dall’uso della pietrab: imperocché Μήλος non Мύλος fu dagli Antichi chiamata. Quasi tutti i mulini della provincia fanno uso di questa sorte di macine, preferendole alle mole pesanti di macigno, perché girano più velocemente, essendo assai più leggiere, e per conseguenza danno molto lavoro in poco tempo.
L’esame della pietra di Milo m’ha chiarito che da questo apparente vantaggio deono venirne dei danni reali. E questa spezie di pietra bianca, cavernosa, leggierissima di peso in proporzione della sua mole. Nelle due cellule irregolari par che si scuopra a prima vista il lavoro d’un’acqua stillatizia, e che per conseguenza deva riporsi fra i pori acquei: ma confrontata colle pomici nere, spungose e pesanti de’ vulcani antichi, somiglia ad esse nella tessitura moltissimo. Nel girare rapidamente si consuma, e mescola le sue particelle vitree bCristoforo Crisonio, autore d’un isolano manoscritto figurato, che si conserva nella biblioteca de’ conti Draganich Veranzi a Sibenico, asserisce che l’isola ha tratto il nome dalle pietre. Il codice mostra di essere stato scritto verso la fine del XV secolo. Il Crisonio nel corpo di quest’opera dice d’averne scritto un’altra espressamente pell’isola di Creta. Ad onta de’ pregiudizi del suo secolo, questo autore, ch’io credo inedito, ha del merito.
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angolose colla farina, lo che rende il pane arenoso e dee produrre alla lunga pessimi effetti ne’ corpi umani. Per fare l’uso migliore della pietra di Milo, sarebbe da adoperarla nella costruzione delle volte, ad imitazione de’ Pompeiesi, che formavano le loro colle pomici nere del Vesuvio. Ella è leggiera più che qualunque altra spezie di pietra, o tufo, e quindi peserebbe poco sulle muraglie laterali; è attissima ad abbracciare il cemento pelle frequenti sue cavità, né teme punto l’ingiurie dell’aria o del salso, che alla lunga consumano ogni sorte di marmo e di pietra cotta, essendo composta di atometti cristallini strettamente unitisi per formarlaa. Oltre i mulini di Traù stendesi per sino alle antiche rovine della città di Salona la deliziosa spiaggia de’ Castelli, la di cui amenità è stata da tutti gli scrittori delle cose illiriche meritevolmente celebrata. Alcuno di questi castelli è fabbricato dov’era il Siclis della Peutingeriana, e probabilmente il Sicum di Plinio, nel qual luogo Claudio mandò i suoi veterani. Le viti e gli ulivi vi sono così ben coltivati, che da questo breve tratto d’angusta campagna si trae la maggior parte de’ tredici mille barili di squisito oglio, e de’ cinquanta mille d’ottimo vino che (per quanto mi fu detto, e scritto) formano la rendita media di questi due generi nel territorio di Traù. Il litorale de’ Castelli dà anche buona provvisione di mandorle, trecento mille libre di fichi, e qualche poco di grano che non è però il più ricco prodotto di queste contrade. L’interno del territorio, che ha quasi cento miglia di circuito nel contipente, produce scarsissima quantità di vino e forse niente d’oglio, le greggie che vi pascolano danno, insieme con quelle dell’isole soggette alla medesima giurisdizione, intorno a quattrocento mille libre di cacio, e lane in proporzione. La popolazione di questo paese è d’intorno a venti mille abitantib.
aPetrosilex opacus, variis foraminulis inordinate distinctus, Wall.; Pumex saxiformis, cinereus, Linn,, 182, 6. La pietra di Milo bianca, leggierissima, sembra non sia individuatamente conosciuta da’ naturalisti oltramontani; le convengono però le due definizioni generali del Wallerio e del Linneo. Bomare la conosce meglio d’ogni altro; ma la chiama poi quartz carie’, con istranissima denominazione ben più poetica che mineralogica.
bCredo giusto e necessario il dichiarare che i dettagli individuati de’ prodotti e popolazione del Contado di Traù, mi sono stati gentilmente comunicati per iscritto dal signor Pietro Nutrizio, colto gentiluomo di quella città, insieme con molte altre notizie.
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§. 8. Degl’insetti nocivi
 
Molti insetti congiurano ai danni d’ogni sorta di produzioni campestri sotto quella dolce temperatura; e di raro avviene che il rigore del verno ne spenga o diminuisca universalmente le spezie per vantaggio comune. Il più fatale si è il punteruolo, dagli abitanti detto magnacoz. Oltre a quelli che vivono a spese de’ frutti della terra, ve n’hanno di nemici agli animali ed all’uomo particolarmente. Una spezie di tarantola, similissima a quella di Calabria e di Puglia, v’è conosciuta sotto il nome di pauk, comune a tutti i ragni nell’idioma illirico. I contadini, che nella stagione ardente deggiono agire in campagna, sono frequentemente soggetti al morso di questo brutto insetto, come anche a quello del ragno variegato, di corte gambe, conosciuto in Corsica sotto il nome di malmignatto. Il rimedio cui usano per calmare a poco a poco, e far poi cessare del tutto i dolori prodotti dal veleno del pauk, si è il mettere gli ammalati a sedere su d’una fune non tesa, ben raccomandata da’ due capi alle travi, e dondolarveli per cinque o sei ore; rimedio analogo alla danza de’ tarantolati pugliesi. Questi pauk di Dalmazia sono irsuti e tigrati come le tarantole del regno, e hanno solamente talvolta qualche varietà ne’ colori; del resto eglino sono d’indole egualmente fiera ed audace.
Io conosco molto questa razza di bestiuole malefiche, perché in molti luoghi ho avuto l’opportunità di studiarle, e ne ho anche nodrito alcuna volta per qualche tempo ne’ vetri. Voi ne avrete veduto presso il nobil uomo signor Giacomo Morosini una, ch’io ho portata di Manfredonia, pochi anni sono, e che visse molti mesi a Venezia pasciuta di mosche, malgrado alla differenza del clima.
Aggradite, dolcissimo amico, in questa lunga lettera un pegno della mia costantissima stima e tenerezza per Voi; e se agli studi vostri potete rubar qualche ora di tratto in tratto, scrivete anche da codeste rimote contrade ad un
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uomo che v’amerà sempre, e non cesserà di dolersi della fortuna, che gli ha fatto avere una patria così lontana da quella, cui le virtù e ‘l saper vostro resero illustre fra noi.
A SUA ECCELLENZA IL SIGNOR
GIOVANNI STRANGE197 MINISTRO BRITANNICO PRESSO LA SERENISSIMA REPUBBLICA DI VENEZIA MEMBRO DELLA SOCIETÀ REALE DI LONDRA, E D’ALTRE CELEBRI ACCADEMIE D’EUROPA, ec.
Del Contado di Spalatro
Il commercio di notizie, che da parecchi anni vi siete degnato di stabilir meco, vi farebbe avere un diritto su le osservazioni ch’io ho fatto pella Dalmazia, se anche i miei primi passi in quel regno non si fossero fatti in conseguenza dell’amicizia e bontà vostra per me. Ma dovendo io intieramente a Voi l’onore e ‘1 vantaggio d’aver accompagnato in quel regno il dottissimo ed amabilissimo mylord Hervey, vescovo di Londonderry, la continuazione della di cui preziosa
197(1732-99) rappresentante britannico a Venezia dal 1774 al 1790, collezionista, curioso di mineralogia, fu in relazione con Scienziati e naturalisti italiani (cfr. le sue lettere «geologiche» a G. Targioni Tozzetti). Costituì una raccolta di minerali e fossili che offrì, nel 1772, al Museo di Storia Naturale dell’Università di Padova.
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amicizia è uno stimolo sempre presente alla mia gratitudine, crederei di mancare a un dovere principalissimo non vi comunicando direttamente una porzione almeno delle mie osservazioni. Se non vi conoscessi per quel vero e profondo filosofo che veramente siete, io dovrei arrossire del poco che posso offerirvi, e trovare all’offerta inopportunissimo il momento del vostro ritorno da un viaggio orittologico peli’ Alpi svizzere e pell’Alvernia, d’onde ci riportate tanto magnifici oggetti di meditazioni. Che differenza dalla Germania e dalla Francia alla Dalmazia! Oltre a ciò che vi si è presentato di grande naturalmente, Voi avete incontrato cento istruttive collezioni di scelti corpi appartenenti al regno fossile; e dopo d’averle esaminate, vi siete portato ne’ più importanti luoghi personalmente colla sicurezza di non fare le gite indarno. Io all’opposto ho viaggiato per un vasto paese, dove le scienze poco sono coltivate e la storia naturale appena è conosciuta di nome. Le mie spedizioni si sono fatte alla Ventura; O me n’ andai sovente errando come un cieco per vasti deserti e per alpestri montagne, colla speranza d’incontrare qualche cosa che mi ristorasse delle fatiche, e trovandomi pur troppo spesso ingannato. Nulla potei sapere delle produzioni utili o curiose di queste contrade, se non quanto cogli occhi propri ne potei vedere: né v’ ebbe quasi alcuno che abbia voluto o saputo dirigere i miei passi piuttosto a una parte che all’altra. Per tutti questi discapiti sarebbemi mancato il coraggio di scrivere all’Eccellenza Vostra dettagli orittologici, se non mi avesse rincorato il sapere che le osservazioni esatte sopra le cose ovvie, e mal esaminate dal volgo degli orittografi, interessano il vero naturalista più che le strane e peregrine sopra fenomeni poco estesi, che peil’ ordinario medio cremente possono confluire ad appoggiare le universali teorie. Io ho appreso da Voi molte diligenze nell’osservare, e in molte mie particolari pratiche m’ ha confermato l’autorevole esempio vostro; quindi come a Voi accadde sovente, è anche a me talvolta accaduto di trovare false di pianta le asserzioni di accreditati scrittori sopra punti di fatto fisico. Né a Voi, né a me certamente potrà imporre a segno l’autorità di pochi, o la voce di molti, che ci renda corrivi nell’asserire le cose non esaminate cogli occhi nostri
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medesimi. Non è già per questo ch’io stimi deggiano da Voi essere tenute in dubbio le osservazioni, delle quali io vi rendessi conto minutamente; né che mi resti veruna incertezza sopra l’esatta verità di quanto mi comunicate per vostra gentilezza sovente. E troppo necessaria e ragionevole la reciproca fiducia fra gli uomini, che senza spirito di prevenzione pongonsi ad osservare la struttura de’ monti, l’indole delle acque, degli animali o di qualunque altra produzione della natura, coll’ unica mira d’investigare il vero.
 
§. 1. Descrizione degli strati e filoni del promontorio Marian. Sbaglio del Donati rilevato
 
Fra le foci del fiume Hyader, ora detto Salona198, e l’imboccatura della Xernovniza, altro fiumicello non conosciuto forse da’ geografi antichi, stendesi un promontorio, la di cui punta è formata dal monte Marian e la base delle radici del Mossor. Costeggiando per mare colla barchetta questo tratto di paese, io feci più volte prender riposo a’ miei rematori, per esaminare dappresso le strane modificazioni di materie calcaree disposte lungo quelle rive, con leggi differentissime da quelle che i maestri della natura sogliono prescrivere in bei discorsi su le stratificazioni, pensati e dettati senza dilungarsi dallo scrittoio. Fra molti luoghi osservabili di quella costa, fabbricata di varietà che hanno però sempre una base argilloso-cretacea, io ne ho fatto disegnare uno del primo picciolo seno, che trovasi lungo al lido del medesimo promontorio, dove secondo la Tavola di Peutingero, era un tempio dedicato a Diana. Io l’ ho creduto meritevole d’occupare il mio disegnatore (Tav. X).
La sommità del monte AAA è composta di marmo volgare dalmatino, e di pietra forte lenticolare sparsa di selci. Vi si vede una grand’ apertura fatta dall’acque in tempi rimoti, quando erano viscere del monte quelle materie che or ne compongono la cima; e si riconosce ancora assai bene l’addentellato degli strati interrotti. Dalla parte esteriore di queste ripide vette staccansi tratto tratto gran
198Jadro.
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masse di pietra, a poco a poco divise dal loro tutto pel segreto lavoro delle piovane, che ne sciolgono talvolta i fondamenti, e più spesso vi moltiplicano gli urti, progressivamente filtrandosi per nascosi screpoli e fenditure de’ marmi, fino a tanto che arrivino a separarne l’apparente continuità. Non di rado accade che le masse rovinate dall’alto, o in conseguenza del tacito e lungo rodere dell’acqua, o pell’impeto troppo manifesto de’ tremuoti, sieno d’enorme grandezza ed ingannino gli osservatori frettolosi che non s’avveggono della rivoluzione accaduta. Può anche darsi che gran pezzi di monte precipitati dall’alto si conservino isolati, dopo la distruzione degli strati da’ quali furono divisi; ed in tal caso fa d’uopo avere una sicurezza d’occhio sperimentata in lunghe osservazioni, per conoscere a prima vista d’onde siano venuti. Dai vacui restati nella rupe presero motivo gli uomini negli andati secoli di formarsi delle abitazioni, chiudendone l’ingresso con muraglie grossolane. Di questa fatta d’abitazioni sono quelle che si vedono segnate BB.
Tutto il corpo del monte, che serve di base alla descritta sommità marmorea persino al mare, è di materia dissomigliantissima dal marmo dalmatino e istriano volgare; ella somiglia alle terre argiflacee dell’interno de’ monti che dominano il litorale de’ Castelli di Traù. Questa medesima pasta regna sotto gli strati marmorei costantemente, da Zara fino appiè della fortezza di Duare, cioè per un tratto di centoquindici miglia a dritta linea, facendosi anche in vari luoghi scopertamente vedere per lunghi tratti di paese al mare, dovunque si scoprono le interiora di monti considerabili. Sarebbero per certo ingannati quei che credessero «l’Istria, la Morlacchia, la Dalmazia, l’Albania ed alcuni altri vicini paesi anco fra terra, gli scogli, l’isole ed il fondo del mare tutti, formati d’un solo masso di marmo opaco, di grana uniforme, quasi della stessa durezza, biancastro!»a. Andando innanzi col viaggio trovasi che anche lungo ‘l Primorje compariscono le viscere de’ monti, ora più ora meno compatte, e strati immensi di marmo differentissimo dal biancastro volgare, oltre a’ vari gruppi e corsi meno
aSaggi di storia naturale dell’Adriatico, p. VIII.
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estesi di pietre arenarie, e di marmi pregevoli pella finezza delle loro paste o pella varietà de’ colori.
Forse mal si conviene a divisioni così vaghe ed eslegi, come quelle che sono rappresentate nella Tav. VIII, il nome di strati; e quindi io non userò di questa voce in onta della mia scompiacenza segreta, quantunque si trovi consacrata dagli scrittori orittologi accreditati la contraddittoria denominazione di strati perpendicolari, che racchiude una manifesta implicanza. Io mi servirò del nome di filoni, che mi sembra il solo appropriato.
Abbenché la base degli strati, o divisioni inferiori rappresentate da questa Tavola, sia costantemente di terra argillosa, eglino hanno però subito così differenti modificazioni, che meritano un esame particolare e minuto. Il filone inclinato cc è di pietra lenticolare grigia, marmorea, di grana fina, diviso in pezzi che ricevono pulimento quanto ogni altro marmo calcareo. E difatti perfettamente calcarea la sostanza di questa pietra, che di corpi marini lapidefatti è unicamente composta. Le divisioni DDDD sono di filoni grigio-ferruginosi di materia simigliante alla cote, senz’apparenza di corpi marini. Se si tragga dal suo luogo naturale un pezzo di questi filoni, la continuità de’ quali è divisa in piccioli ritagli, e si esamini colcato orizzontalmente, vi si distingue chiaramente il corso che una volta presero a traverso di quella massa le acque cariche di particole ocracee, che si deposero a poco a poco fra gl’intersitizi scavatisi nel passaggio, e li chiusero. Il lavoro di queste acque ferruginose rappresenta a un di presso l’opera reticolata degli Antichi; non ha però la medesima solidità, da che sconnettesi agevolmente cedendo ad ogni picciola forza, e spesso all’azione dell’acque piovane che vi passano, e delle marine che vi percuotono (Tav. VIII, Fig. A). Lo spazio segnato EE non si può dire propriamente lapidoso. Egli è d’argilla biancastra che trae al ceruleo, senza miscuglio d’arena indurata, che si rompe in pezzuoli di superficie liscia, e vergata di fluore piriticoso dendromorfitico. Sembra che tutta, o per la maggior parte, l’acqua impregnata di parti ferree disciolte in ocra e di atometti spatosi, che doveasi distribuire inzuppando quest’argilla, abbia preso corso, e
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corso impaziente d’indugio peil’ irregolare cammino FF, la di cui pasta è divenuta simile a quella del filone cc. Provano manifestamente la direzione tenuta dall’acqua, ora saturata di particole tartarose, ora d’ocracee, alcune croste GGG di spato candido, striato longitudinalmente, semi-diafano, che dall’alto al basso internandosi dividono i filoni minori d’opera reticolata. Il mare batte furiosamente contro queste radici del monte Marian poco atte a fargli resistenza, e le disfabbrica alla giornata. Egli fa il medesimo effetto su’ massi disequilibrati di lenticolare HHH, ne’ quali scava buchi di forma ovale o rotonda. M’è sembrato che il sale, introdottosi coll’acqua marina insieme sotto alla superficie porosa di questa spezie di pietra, nell’atto di sprigionarsi ne’ tempi di calma e di bassa marea pell’azione dell’aria e del sole, a poco a poco ne sollevi picciole squame e la disciolga in arena. Di questa arena lenticolare trovasi un deposito nella inferior parte d’ogni cavità della rupe, ed io non ho mancato di raccoglierne un saggio. E ben singolar cosa, che questo genere di petrificazione s’incontri così frequentemente pe’ monti, che alcuni gran tratti di essi se ne possano chiamare quasi composti, e non se ne ritrovi peranche l’originale ne’ mari. Plinio fa menzione d’un’arena lenticolare, ampiamente stesa ne’ contorni delle famose piramidi di Memfi, e aggiunge che si trova alla medesima qualità nella maggior parte dell’Africaa. Fa pur d’uopo che qualche numero di spezie abitatrici dell’acque si sieno perdute, o che la Terra abbia subito di strane rivoluzioni, pelle quali non sieno più sotto i medesimi climi, che in più lontani tempi le di lei parti. Oltre alle picciole lenticchie petrose, il monte Marian non somministra altra petrificazione che qualche raro esemplare di quell’elmintolito bianco, compresso, spirale, col rostro prominente, dal Gesnero chiamato Corno d’Ammone bianco, minimo, ec.
Le replicate occasioni ch’io ho avuto di costeggiare il promontorio del Marian, m’hanno messo in istato di ben osservare l’indole dei differenti di lui strati, e di dar il giusto valore allo strano aspetto che in vari luoghi presentano. Un breve
a«Harena late fusa circum (pyramides memphiticas) lentis similitudine qualis in maiori parte Aphricae». Plin., Hist. Nat. 1. XXXVI, c. 12.
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miglio lontano dal picciolo seno sopraddescritto, alzasi a piombo il lido scoglioso dalla superficie del mare forse venticinque piedi, e colla medesima direzione sprofondasi sott’acqua. La pietra arenaria giallastro-cenerognola compone quegli strati che sono disposti orizzontalmente, quantunque di lontano sembrino perpendicolari, e dappresso ancora possano far inganno a chiunque non ha lunga pratica e la più scrupolosa avvertenza nell’osservazioni orittologiche. Io ho udito frequentemente parlare di strati perpendicolari di formazione marina, e ne ho letto le descrizioni fatte all’ingrosso in più d’un libro d’orittografia: ma sino ad ora non m’è riuscito di vederne in verun luogo, che ben esaminati dappresso non m’ abbiano messo in diffidenza dell’apparente loro perpendicolarità. Non credo che si debba far conto di qualche pezzo di montagna rovesciata, ch’ è caso puramente accidentale, qual è in grazia d’esempio il colle petroso di Salarola, nel tenere di Calaone, fra’ nostri monti padovani. La linea della divisione orizzontale di questi strati vicini al porto di Spalatro è quasi impercettibile, se siano esaminati di lontano; e tanto meno si rende osservabile a prima vista, quanto che o pella inuguaglianza e sconnessione degli strati inferiori, o pella filtrazione d’antiche acque, il lido dall’alto al basso è tagliato da larghe fenditure perpendicolari, che gli danno l’aspetto d’un aggregato di pilastri. L’erosione degli spruzzi dell’acqua marina divide la superficie esterna di quella pietra arenaria in areole romboidali, curvilinee, simili a quelle che si osservano ne’ filoni DDDD (Tav. VIII), co’ quali ha comune l’origine. La sola riflessibile differenza che vi ho veduta, si è che in queste i canaletti che circoscrivono i ritagli romboidali sono concavi, laddove i filoni DDDD gli hanno prominenti.La differente positura, o per meglio dire la differente sezione de’ filoni, che hanno pur la medesima indole, produce questo diverso fenomeno. Quelli della Tavola VIII soffrono di fronte l’urto de’ flutti; questi più vicini a Spalatro lo ricevono sull’ampia estensione del fianco, cui espongono al mare scoperto. La casa di campagna del signor conte Capogrosso, deliziosamente situata sull’altezza della costa, è il confine di questa combinazione, che resta interrotta da un nuovo seno del mare, che ha intorno a dugencinquanta piedi di
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corda. La di lui curva è scavata in istrati ineguali d’argilla arenosa, azzurrognola e giallastra, semipetrefatta, e in vari luoghi attraversata da fascie orizzontali di pietra, che cede fendendosi in ritagli quasi cubici all’azione dell’aria e del mare. Il corno ulteriore del picciolo seno è di rupe arenaria forte, e forma un promontorietto, dietro a cui internasi un nuovo seno, che ha per confine un’altra punta quasi affatto marmorea. Quest’alternazione d’argilla, ora più ora meno petrosa nelle sinuosità, e di rupe compatta ne’ promontori, che costantemente progredisce quasi fino alle foci di Narenta; gli scoglietti marmorei che in molti luoghi appariscono fuor d’acqua, o veggonsi poco sotto il livello ordinario del mare, e l’isole petrose che stendonsi lungo il continente della Dalmazia a destra e a sinistra del promontorio di Diomede, conservano siffatti vestigi d’antica continuità che il pensiero dell’osservatore non può a meno di lasciarsi andar dietro a congetture, sulle rivoluzioni sofferte dal nostro globo, e su i differenti aspetti che dovettero avere in rimoti tempi le di lui parti. Nelle acque che bagnano questo tratto di litorale, e ricevono il fiumicello di Salona, dovrebbono trovarsi pettini eguali nella grandezza e nella squisitezza del sapore a quelli di Metellino, celebri nelle tavole degli Antichi. Oribasio199a ne fa particolare menzione, ed aggiunge che nel mare di Dalmazia nascono anche le più pregevoli orecchie marine, spezie nota di lepadi, il condimento delle quali dice essere il liquore cirenaico, l’aceto e la ruta.
 
§. 2. Del porto, della città, della storia letteraria di Spalatro
 
Sulle rive del porto di Spalatro200, a destra della città, stendonsi le numerose abitazioni del borgo e i ben coltivati terreni suburbani. Fra di questi merita
199Fu uno dei più illustri medici bizantini, precursore della medicina razionale e scientifica. Per incarico dell’imperatore Giuliano compose un trattato di medicina ('΢υναγωγαί ίατρίκαί)tratto da Galeno e da altri medici antichi, e una sorta di manuale di medicina pratica Εύπόριστα (Dei rimedi facili da approntare).
aOribas., Ad Julian. Imp., 1. 2, c. 60.
200Oggi Split.
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particolare menzione il podere destinato alle sperienze e alle sessioni della Società d’Agricoltura, eretta con plausibile esempio, e mantenuta a spese proprie da un riguardevole numero di que’ gentiluomini e cittadini. E da desiderare che una così nobile e laudevole fondazione non si disciolga inopportunamente; la provincia ha pur troppo di bisogno che vi prendano piede gli studi georgici: da che così la coltura delle terre come il governo de’ bestiami è pessimamente inteso, tanto da’ Morlacchi che da’ contadini litorali.
Appié delle mura di Spalatro, fuor pelle fenditure d’alcuni massi di pietra forte conchifera piena d’echiniti e di numismali, che non di raro vi si veggono spaccate orizzontalmente, scaturiscono parecchi rivoli d’acqua sulfurea, che sovente spargono verso sera una disaggradevole graveolenza. Eglino conducono seco in gran quantità filamenti stracciati, candidissimi di fegato di zolfo. Le pietre, su le quali scorrendo i rivoli mettono in mare pochi palmi lontano dalla sorgente, sono tutte colorite di bianco argenteo, precisamente come lo son in Italia quelle, pelle quali scorrono i ruscelli sulfurei caldi di Sermoneta, prima di perdersi nelle paludi pontine. Ma questi di Spalatro hanno delle incostanze e cangiamenti degni di ogni attenzione.
Il signor Giulio Bajamonti201, dotto e diligente investigatore delle naturali meraviglie, mi ha assicurato che ora sono cariche di sal comune, un altro dì si trovano gialle e sulfuree, poi bianche e calcaree; né queste variazioni sembrano aver rapporto alcuno alla varietà dei tempi, o delle stagioni. Il signor dottore Urbani, valoroso medico di Spalatro e mio pregiatissimo amico, le ha adoperate con buon successo in vari mali, e spezialmente cronici. Dall’uno e dall’altro di questi miei cari amici si denno attendere ulteriori osservazioni, che saranno certamente degne del loro sapere e della loro celebrità.
201Medico e letterato studioso di storia e di scienze (1744-1800). Collaborò al «Giornale Enciclopedico» con note che riflettono i suoi svariati interessi. Scrisse un trattato sulla storia civile ed ecclesiastica di Spaiato, rimasto inedito, ed uno sul «morlacchismo di Omero». Una delle sue lettere scientifiche, quella sull’isola di Lesina, è dedicata a Fortis, di cui fu amico e compagno nelle escursioni in Dalmazia.
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Il porto di Spalatro è frequentato da vascelli stranieri, che vi concorrono a caricar merci provenienti dalla Bossina, come sono il ferro, i cuoi, manifatture di rame, lane, schiavine, cera, orpimento, cotone, seta, frumento, ec. D’intorno a quelle rive si osservano le solite varietà d’argilla mescolata talvolta con arena e terra calcarea, e divisa in vari modi da laminette di spato striato candido. Nella cerulea semipetrosa mai ho veduto vestigi di corpi marini, de’ quali trovasi qualche esemplare nella grigia laminosa. In qualche luogo, e segnatamente dietro alle case del borgo, v’ha una crosta tartarosa orizzontale-inclinata di poca grossezza, che corre alcuni pollici sotto alla terra campestre, nella quale veggonsi presi molti frammenti di testacei terrestri. Non è possibile il confonderla cogli strati prodotti dal mare; da che manifestamente si vede, che le acque eventuali filtrandosi fra terra e terra, e deponendovi le parti tofacee ond’erano cariche, l’hanno formata.
De’ gran residui romani, che formano il pregio più conosciuto di questa città ragguardevole, io non farò parola. E bastevolmente nota agli amatori dell’architettura e dell’antichità l’opera del signor Adams202, che ha donato molto a que’ superbi vestigi coll’abituale eleganza del suo toccalapis203 e del bulino. In generale la rozzezza dello scalpello, e ‘l cattivo gusto del secolo vi gareggiano colla magnificenza del fabbricato. Non è già per questo ch’io voglia togliere il merito a quegli augusti residui del Palazzo di Diocleziano. Io gli annovero fra i più rispettabili monumenti dell’antichità che ci rimangano: ma non vorrei che gli scultori e gli architetti studiassero a Spalatro, piuttosto che fra le rovine di Roma, o fra i bei vestigi dell’antica grandezza di Pola.
La cortesia degli abitatori moderni fa ben più onore a Spalatro che i magnifici avanzi delle fabbriche antiche.
202Architetto inglese (1716-92). Viaggiò in Italia e in Dalmazia nel 1737, coi pittore Clerisseau ed altri giovani artisti compose una serie di tavole sul palazzo di Diocleziano (Ruins of the Palace of the Emperor Diocletian) che furono incise a Venezia e poi stampate a Londra nel 1764. Finanziatore di questo viaggio pare essere stato il Conte di Bute.
203Matita metallica con mina estraibile.
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Io vi ricevetti, e in compagnia del nostro amabilissimo mylord Hervey, e solo, le più ricercate squisitezze dell’ospitalità.
Que’ reverendissimi canonici usarono la gentilezza di lasciarci vedere alcuni manoscritti dell’Archivio loro Capitolare, da’ quali potrebbonsi trarre moltissime notizie per la storia illirica senza troppa fatica, da che sono spogli ed avversari204 del Lucio, del Beni e d’altri dotti uomini dalmatini.
Fra questi manoscritti trovammo un evangeliario del VII, o forse anche del vi secolo, assai sufficientemente conservato. Nella prima carta leggesi il principio del Vangelo di s. Giovanni in greco, scritto coi caratteri latini; il copista però si pentì dell’incominciato lavoro dopo d’averne trascritto due colonne, e lo rincominciò in latino, servendosi per originale della Volgata.
Questa nobilissima città produsse in ogni tempo uomini distinti nelle lettere e nelle scienze. Lasciando da parte i cronisti de’ secoli barbari, che ci conservarono preziosi documenti, come Tommaso arcidiacono, Michele spalatino205 ed altri, ella vanta ne’ migliori tempi della risorta letteratura Marco Marulo206, di cui molte opere ci restano stampate e manoscritte. Io ho attualmente presso di me un codicetto d’iscrizioni da esso illustrate, all’autenticità delle quali non si vuoi però dare intera fede; a’ dì nostri s’inventerebbero più destramente. Fra gli Arcivescovi che ne occuparono la sede, merita a titolo di dottrina il primo luogo Marc’Antonio de Dominis, nativo della città d’Arbe, che avrebbe lasciato di se ben più gloriosa memoria, se si fosse contentato d’essere un uomo distinto nella fisica e nelle matematiche, e non avesse voluto troppo scrivere e singolarizzarsi in materie di religione. Il suo opuscolo De raggi visuali, e della luce ne’ vetri da osservazione, e
204Manoscritti presi in esame e messi a confronto.
205Antichi storici della Dalmazia: Tommaso, vissuto nella prima metà del ‘200, divenne vescovo nel 1243, fu ambasciatore per pontefici e regnanti, cultore di lettere e di storia, scrisse una Historia major salonitanorurn Pontificum et spalatensium, ripresa da Lucio e da Belius. Michele Spalatino è forse Micha Madii (1280-1350), autore del De gestis romanorum Imperatorum et summorum Pontificum; anche quest’opera fu inserita nel De regno Dalmatiae et Croatiae di Lucio.
206Umanista vissuto tra il 1450 e il 1524. Fu assai noto per le sue opere di ispirazione moralistica e didascalica, redatte in latino e in croato: per il poema epico Giuditta (Venezia, 1521) è considerato il padre della letteratura dalmata ragusea.
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dell’iride, e l’altro cui pubblicò col titolo d’Euripo, o sia del flusso, e riflusso del mare, meritano tanto maggior attenzione, quanto che precedettero di molto que’ celebri filosofi dell’età nostra, che sono ascesi meritevolmente in riputazione sviluppando le dottrine medesime che il dotto prelato aveva insegnate. Il gran Newton ha reso giustizia al de Dominis, dall’operetta del quale ha tratto le prime teorie della luce. Io ho veduto (e un giorno forse ne pubblicherò alcuna) delle cose inedite di Marc’Antonio de Dominis, che servono moltissimo alla storia del di lui spirito. Monsignor Cosmi207, che occupò molti anni dopo il Dominis quella sede arcivescovile, lasciò una osservabile scrittura sopra la Bolla Clementina, che dovrebbe trovarsi fra i manoscritti del fu signor Apostolo Zeno208, nella biblioteca de’ padri delle Zattere in Venezia.
Fra Spalatro e ‘l fiume Hyader, alle radici del monte Marian stendesi una bella ed amena campagna, che ha poco fondo di terreno ed è quindi soggetta all’aridità, quantunque sembri che non dovess’essere malagevole cosa l’irrigarla, distraendo l’acque del fiume vicino in luogo opportuno. I massi, che s’incontrano appié del monte e pella contigua pianura, sono di pietra lenticolare affatto simile nell’impasto a quella che forma il promontorietto HH nella Tavola VIII: ma molto più resistente e sparsa di focaie pur lenticolari.
 
§. 3. Rovine di Salona
 
Per andar a visitare i miserabili vestigi di Salona fa d’uopo varcare il fiume, due miglia lontano da Spalatro a tramontana, su d’un cattivo ponte, ben
207Canonico della congregazione somasca (1629-1708), divenne arcivescovo di Spaiato nel 1678, Fu attivissimo nell’opera di diffusione dell’ortodossia cattolica post-tridentina e degli indirizzi culturali e civili ad essa ispirati: promosse la compilazione di una grammatica e di un dizionario croato, e fondò un seminario per la Dalmazia.
 
208L’erudito, protagonista della cultura veneziana della prima metà del ‘700, lasciò in eredità la sua vasta e pregevole biblioteca ai Domenicani, che possedevano a Venezia, alle Zattere, una delle più importanti biblioteche della città, fondata alla fine del ‘600 da Bonifazio M. Grandi ed accresciuta successivamente dai lasciti di privati.
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differente da quello che v’avranno costruito i Romani. Esce l’Hyader dal piè della montagna di Clissa bello e formato, né ha d’uopo di acessioni avventizie per mettere in mare con qualche dignità. Presso alla di lui sorgente trovansi ossa lapidefatte nel solito impasto di scheggie marmoree e di terra ferrigno-petrosa, delle quali conserva qualche esemplare nel suo palazzo arcivescovile monsignor Garagnini209, pio ed ospitale prelato, padre dei poveri, e particolarmente benemerito della storia naturale pell’accoglienza fatta all’amico mio signor Martino Brunnich, professore a Coppenhague210, che in segno della sua gratitudine gli ha dedicato un opuscolo sopra i pesci dell’Adriaticoa.
La città di Salona, che fu sì grande e prima e dopo d’aver subito il giogo romano, è adesso un meschino villaggio, che conserva poco riconoscibili avanzi dell’antico splendore. Fa d’uopo che i due ultimi secoli abbiano distrutto ciò ch’era sfuggito alla barbarie delle nazioni settentrionali che la rovinarono. Io trovo in una pregevole relazione manoscritta della Dalmazia, scritta dal senatore Giambattista Giustiniani intorno alla metà del XVI secolo, un cenno di quanto vi sussisteva in quel tempo.
«La nobiltà, grandezza e magnificienza della città di Salona si comprende dai volti ed archi del teatro meraviglioso che oggi si vedono, dalle grandissime pietre di finissimo marmore che sono sparse e sepolte per quei campi, dalla bella colonna fatta di tre pezzi di marmore, la quale sta ancor in piedi nel luogo dove si dice ch’era l’arsenale verso la marina; e dai molti archi di meravigliosa eccellenza sostentati da colonne altissime di marmore, la cui altezza è un tirar di mano, sopra li quali v’era un acquedotto che conduceva da Salona a Spalatro... Si vedono d’appresso diverse rovine e vestigie di gran palazzi, e in molte bellissime
209Vescovo di Arbe e di Spaiato, morto nel 1783. Lasciò una raccolta di omelie manoscritte.
210Naturalista e geologo norvegese, qui citato per la sua lchthyologia massiliensis sistens piscium descriptiones eorumque apud incolas nomina. Accedunt spolia maris Adriatici, Leipzig, 1768.
aMartini Th. Brunnichii, lchthyologia massiliensis, et Spec. Ichth. Hadr. etc., Hafniae et Lipsiae, 1769, in-8°.
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pietre di marmore si leggono epitafi antiqui: ma il terreno ch’ è cresciuto ha sepolto le più antique pietre, e le più belle cose».
Gli abitanti del villaggio, che sorse dalle rovine di Salona, traggono pur troppo spesso di sotterra iscrizioni ed altri lavori d’antichi scalpelli: ma la costoro ingordigia è così proporzionata alla barbarie, ch’ eglino preferiscono il rompere e guastare ogni cosa al ritrarne un discreto prezzo. Io ho tentato di salvare alcune belle lapide nuovamente scoperte dalle triste mani d’un villano che ne avea di già guaste molte altre, delle quali vidimo i rottami, per farsi delle imposte di finestre e di porte: ma la di lui avidità ruppe i miei disegni per allora, e mi dovetti contentare di ricopiarle.
Un gran numero d’iscrizioni salonitane non pubblicate ha raccolto un diligente cittadino di Spalatro, dalla di cui cortesia io non ho potuto ottenerle. Egli le destinava all’illustratore di quelle, che per la maggior parte deformate si trovano nel vol. II dell’Illirico Sacro; e tanto meno ardisco dolermi che mi sia stato preferito il celebre uomo, quanto più sono lontano dall’impegnarmi ad illustrarle diffusamente, cosa che mi allontanerebbe dall’oggetto mio principale. Io avrei forse trascurato del tutto i residui antichi, se l’esempio rispettabile del signor de Tournefort211 non m’avesse dato coraggio di farne menzione alla sfuggita. L’aver poi conosciuto quanto facilmente traveggano, e scrivano cose ovvie o puerili, coloro che si mettono a far gl’illustratori di antiche cose senz’aver fatto di proposito e a lungo studi antiquari, mi ha persuaso a metter tutta questa messe fra le mani del dottissimo ed eruditissimo amico mio, il conte abate Girolamo Silvestri di Rovigo212, come farò di quanto ne’ viaggi miei potesse cadermi sotto gli occhi d’antico. Il pericolo quotidiano di essere distrutte minaccia tutte le cose di questo genere, che trovansi sparse pella Dalmazia; ed anche per una sì
211Botanico francese (1656-1708), autore degli Éléments de botanique (1694), viaggiò in Europa e in Levante. Nella Relation d’an voyage da Levant (1717) dall’ambito prettamente scientifico sconfina in quello più vasto della descrizione storica, antropologica ed etnografica dei luoghi visitati, suggerendo un modello che Fortis qui dichiara di seguire.
212(1728-68). Collaboratore del «Giornale d’Italia», collezionista e studioso di archeologia e geologia, fu inoltre attento osservatore dei problemi dell’economia polesana, ai quali dedicò alcuni dei suoi scritti più rilevanti.
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lagrimevole ragione mi sono creduto in dovere di parlarne. Io spero che Voi, ben lungi dal condannarmi, approverete la mia diligenza, che spargerà forse un poco di varietà non disaggradevole nel mio scritto, reso pur troppo stucchevole dall’aridità delle materie orittologiche.
Se le lagrimevoli macerie di Salona non bastassero a precisamente determinare il sito, dov’ella sorgeva stesa in riva del mare, ce lo avrebbe assai chiaramente indicato Lucano:
Qua maris Adriaci longas ferri unda Sabonas,
Et tepidum in molles zephyros excurrit Hyader213.
Dev’essere stato guasto il testo di Cesare, che mette Salona in edito colle; non si può credere altramente, da ch’egli dovea ben conoscere la vera situazione di que’ luoghi.
Questo fiumicello che non corre più di tre miglia, incappandosi tratto tratto in banchi tofacei, nodrisce nelle sue grotte muscose una squisita spezie di trote. Di quì prese motivo alcuno autore, ben più giusto apprezzatore dei bocconi ghiotti che delle azioni de’ grand’uomini, di lasciarci scritto che Diocleziano (facendo peggio d’Esaù) rinunziò al piacere di comandare a quasi tutta la terra allora cognita, per mangiarsi tranquillamente di que’ pesci a crepapancia, nel suo magnifico ritiro di Spalatro. Io non so se a Diocleziano piacesse il pesce come gli piacevano gli erbaggi, ma credo che anche per un uomo non ghiotto Spalatro dovess’essere un delizioso soggiorno; e per crederlo più fermamente m’immagino rivestita di antichi boschi la vicina montagna, che pell’ orrida sua nudezza riverbera a’ tempi nostri un troppo insofferibile caldo ne’ giorni estivi. E ben chiara cosa che un accesso di buona filosofia, e forse un tratto di giudiziosa
213Fortis si riferisce al feroce ritratto dei suoi predecessori che Giuliano l’Apostata, imperatore romano dal 361 al 363, delineò nella operetta satirica Il convito dei Cesari. Esaminati dagli dei, tutti gli imperatori, da Cesare a Costantino, mostrano difetti e vizi: ne risulta una galleria di folli, omicidi, empi e viziosi, con rare eccezioni.
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politica sia stato il motivo della ritirata di Diocleziano. Egli visse dieci anni in quiete a Spalatro, e forse avrebbevi goduto di più lunga vita se le lettere di Costantino e di Licinio non fossero venute a inquietano. Ad onta di tutto il male, che di questo Imperadore dalmatino hanno lasciato scritto ricopiandosi l’un l’altro gli autori cristiani, forse più pii che imparziali e veridici, fa d’uopo confessare ch’egli fu un uomo di merito sommo, salito al trono senza macchiarsi di sangue civile, condottovi dalle proprie virtù, e che dopo vent’anni d’impero diede peravventura il maggior esempio di moderazione filosofica che sia mai stato sentito al mondo. Io conto per distinto pregio di Diocleziano l’essere stato lodato da Giuliano ne’ Cesari, che l’avrebbe certamente punto se avesse potuto farlo214.
 
§. 4. Della montagna di Clissa, e del Mossor
 
A destra dell’Hyader sorge la montagna, che comunemente porta il nome di Clissa, dalla fortezza che le sta su d’un fianco. La di lei ossatura è della medesima pasta, or grigia or azzurra, incostante nella durezza, ch’io ho più sopra descritta, e nell’andatura degli strati. I massi rovinati dalla sommità, che s’incontrano per la via, sono ora di marmo dalmatino volgare, or di durissima breccia ghiaiosa, or di pietra forte lenticolare.
E' molto curioso l’aspetto di alcuni strati, che compongono una falda prominente del monte Mossor in fianco del cammino di Clissa, a sinistra del profondo vallone per cui scorre l’Hyader. Eglino presentano agli occhi di chi gli osserva da lontano molte divisioni, che descrivono segmenti di cerchio posti l’un sopra l’altro coll’estremità volte all’insù, diametralmente all’opposto di quanto suolsi ordinariamente osservare dell’indole degli strati curvi. Chi volesse
214La citazione è tratta dal poema epico di Lucano (39-65 d.C.) Farsaglia (IV, 404-5), dedicato principalmente alla guerra tra Cesare e Pompeo, che si svolse anche sulla costa jugoslava. Del medesimo argomento tratta anche Cesare, nel De bello civili, a cui allude Fortis nel passo seguente (e precisamente De bel. civ. 3, IX, 1-2).
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giudicarne di lontano sarebbe mal avveduto, e arrischierebbe di darne qualche pazza spiegazione; come pur troppo sogliono fare anche i maggiori naturalisti, allorché vogliono dicifrare qualche strano fenomeno dopo un’ispezione superficiale, o sulle altrui relazioni: come quel galantuomo che scrisse dell’istonia naturale dell’Alpi svizzere, senz’esservisi mai portato a viaggiare. L’erezione dell’estremità degli strati del Mossor è un inganno fatto all’occhio dalla distanza, e dalla inferiorità del sito, su del quale stando si possono osservare. Io gli avea creduti, nel primo viaggio che vi feci, uno di quegli scherzi, de’quali l’antico mare ha lasciato le impressioni nascoste nelle viscere de’ monti, e cui il tempo e i torrenti scoprono talvolta per tormentare il cervello degli orittologi. Ma l’aspetto lontano m’avea ingannato. Le apparenti estremità de’ semicircoli non lo sono di fatto, ma sono bensì punti della circonferenza di quegli strati scoperti e isolati dalle acque eventuali, che dalla sommità sino al piede dell’accidentale collina stanno orizzontalmente colcati l’un sopra dell’altro. Lo scoglio isolato, su del quale sorge Clissa, è per la maggior parte di breccia marmorea, la di cui origine è submarina, da che fra un sassolino e l’altro trovansi presi corpicelli marini isolati. I sassolini poi medesimi, che formano quella breccia, racchiudono delle lenticolari molto anteriori di data all’impasto petroso nel quale adesso si trovano. La base dello scoglio è di cote, corrispondente alla già descritta delle marine di Spalatro; e fra di essa e ‘l marmo corre un filone incostante di pietra calcarea soda, piena di testacei calcinati e sovente zeppi di terra bituminosa lapidefatta.
Anche nella breccia vedesi qualche pietruzza nera, figlia di lontani e antichi vulcani. Riesaminando da un sito egualmente alto la prominenza di questo colle, si vede ch’ella è stata divisa in parte dal resto della montagna, e che i di lei strati vi corrispondono, nella direzione non meno che nella sostanza. Gli strati arcuati continuano ad ingannar l’occhio, sino a che l’osservatore non si metta a portata di vederli orizzontalmente; allora l’illusione sparisce.
La fortezza di Clissa è fuor d’ogni dubbio l’ Ανδήριον di Dion Cassio, e ‘l Mandetrium di Plinio. Il primo di questi due antichi scrittori, descrivendone
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l’assedio e l’attacco sotto il comando di Tiberio, circostanzia minutamente la situazione di esso, dicendo «che non vi si trovava dappresso pianura di sorte alcuna, che il monte era inaccessibile, ripido, trinciato da burroni». Aggiunge che «Tiberio dopo d’aver veduto riuscir vani i replicati rinforzi, che dagli accampamenti di Salona salivano per sostenere i Romani, fece sfilare un corpo di gente per sentieri dirupati a guadagnar le altezze che dominavano Anderio; per lo qua! consiglio furono gl’Illiri tolti in mezzo, e la fortezza costretta a capitolarea». Ora Clissa è di fatti poco tratto di cammino sopra Salona, fabbricata su d’una rupe inaccessibile, circondata da burroni e botri, dominata dalla sommità della montagna. Plinio parla di Mandetrio come d’un luogo nobilitato da fatti d’arme. Clissa lo è stata pur troppo anche ne’ tempi vicini a noi; e lo sarebbe di nuovo, ogniqualvolta il flagello della guerra desolasse la Dalmazia, così portando la sua situazione sopra d’un passo angusto e importante.
Lo Spon riferisce ne’ suoi viaggi un’iscrizione trovata a Clissa, da lui veduta a Traù, dov’è fatto menzione di ripari fatti alla strada da Salona ad Andetrio.
 
§. 5. Del paese abitato da’ Morlacchifra Clissa e Scign; della valle di Luzzane, e del Gipàlovo Vrilo
 
Per passare oltre Clissa, dieci o dodici miglia nell’interno della provincia, attraversammo un paese or alto, or basso, ma quasi sempr’egualmente aspro e poco abitato. I rompicolli della Clapaviza, la discesa di Cozigne-Berdo, la valle Draçaniza sassosa ed incoltivabile quantunque piana, e la montagna della Crisiza sono tratti d’orrido deserto capaci d’intiepidire qualunque fervido viaggiatore naturalista. Tutto il pendio vi è di marmo pericoloso pe’ cavalli, che a fatica ponno sostenervisi; tutta la valle è disastrosa pelle spesse roccie dispostevi in taglio che ne formano il pavimento. Pochi cespi d’alberi mal nodriti e molti spini, da’ quali
aDio, Cass., lib. 55.
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riceve il nome di Draçanizab, fanno un peggior effetto che non farebbe la nuda orridezza, perché impacciano e rendono più incomodo quello spiacevole cammino.
Appiè della montagna di Crisiza giace la bella valle di Dizmo, che ha buoni pascoli e non infecondo terreno, e gira quasi dieci miglia all’intorno, tutta circondata di monti. Ella non è coltivata come potrebbe esserlo, perché i Morlacchi sono assai lontani dall’intendere la buon’agricoltura, ed anche la mediocre. Da Dizmo per Xenski-Klanaz, indi pel monte di Mojanka, poscia finalmente per Cucuzu-Klanaz si discende nell’ampia e bella campagna di Scign, ch’è irrigata dal Tiluro, detto adesso Cettina; tratto di paese di cui dovrò riparlare laddove renderò conto delle sorgenti, del corso e delle foci del fiume, dal qual ebbe altrevolte la denominazione di Contado di Cettina.
Non è rara cosa, internandosi nel paese abitato da’ Morlacchi, il trovare monti, laghi e contrade che conservano nel nome loro la memoria di qualche fatto seguitovi. Di questa fatta sono la strada detta Xenski-Klanazc, e il monte che si chiama Mojanka. V’ha una canzone, conservata tradizionalmente fra’ Morlacchi di que’ contorni, che narra il caso dolente d’uno, a cui fu rubata l’amante che avea nome Anka. Egli la cercò in tempo di notte per tutto il monte chiamaridola, e gridando ad alta voce «moja Anka», vale a dire Anka, o Annuccia mia; quindi la montagna ebbe il nome che ancora le resta. Vari luoghi vicini portano nomi relativi ai diversi punti di questa storia.
Dopo una giornata di fastidioso cammino per sì aspro e mal abitato paese, giunsimo a Scign, fortezza poco lontana dal fiume Cettina, di cui parlerò in altro luogo più acconcio.
Non volendo rifare la medesima strada, in partendo da Scign per ritornare a Spalatro, si può prendere il cammino di Radossich, ch’ è un po’ più verso tramontana che la Mojanka: ma prima di seguirlo direttamente, il naturalista vorrà declinare alquanto fuor di mano per andar a vedere la valle di Luzzane, e il
bDraça, spina, e più particolarmente paliuro.
cXenski-Klanaz; il passo angusto della donna.
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botro detto Gipàlovo-Vrilo. In questi luoghi separati dal mare per mezzo d’una vasta catena di montagne, che ha ben sedici miglia di largo, trovansi le più riconoscibili prove dell’antica sede dell’acque marine, e forse prove non meno incontrastabili dell’abitazione d’uomini sugli strati che adesso s’internano nelle radici de’ monti.
La valle di Luzzane è fiancheggiata da umili collinette dette glàvize in lingua illirica. Queste giacciono alle radici d’un alto monte petroso, e sono formate di terra marina sterile, or biancastra or azzurra, disposta in regolarissimi strati, e piena zeppa di turbinati, e in alcun sito di bivalvi marini candidi, lucenti, semicalcinati, esotici. Sulla superficie esteriore d’un quadrello non più largo che quattro dita, io ne ho annoverato oltre quaranta, della spezie e grandezza medesima. Tutti gli strati però non ne hanno un’uguale abbondanza, come non sono tutti della medesima consistenza e colore. In alcuno di essi trovasi presa dell’alga marina, e qualche pagliuzza di carbone d’erbe bruciate. La differenza più riflessibile, che fra queste varietà di terre marine si osservi, è la massima inuguaglianza del peso. Di due pezzi eguali di volume, presi da due strati differenti e pieni di corpi marini, quello che contiene pagliuzze di carbone pesa la metà meno, e ricorda le pomici cineree de’ vulcani, quantunque non ne mostri al di fuori la porosità.
Quelle pagliuzze incarbonite non sono già impregnate di bitume; elleno sfarinansi e tingono di nero, come il carbone di paglia de’ nostri focolari. Mi risovviene d’avere osservato piccioli carboncini simili in una terra bolare215 verde-ferrigna, che trovasi fra le materie vulcaniche del monte Berico presso Vicenza. Gli strati di terra mediocremente indurata delle collinette di Luzzane sono così ben divisi da linee orizzontali inclinate, che di gran lastre piane, come quelle dell’ardesia o lavagna tegolare, ne potrebbono essere asportate. I canaletti, che le acque piovane si sono scavati sul dorso di queste colline per iscendere unite nella
215Che ha l'aspetto del bolo, mescolanza naturale di hallosyte e di ossidi di ferro.
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valle, lascian vedere al di fuori la tessitura loro interna, e la disposizione e colore degli strati.
Andando mezzo miglio più oltre verso le angustie della valle, s’incontra il letto del torrente detto Gipàlovo-Vrilo, vale a dire fonte della famiglia di Gipal; questi porta seco grandissima varietà di materie. V’ hanno fra le sue ghiaie delle piriti, dell’etiti conchifere, nelle quali i corpi marini presi restarono candidissimi, e perfettamente resisterono al ferro disciolto. Vi si trova quantità di selci nere e d’ogni altro colore, pezzuoli d’agate finissime piene di corpi marini; ciottoloni di cote, di breccia e varie spezie di marmi semplici calcarei portate da’ monti superiori. Oltre a tutte queste produzioni di monti minerali e marini, v’ hanno infiniti pezzi di lave compatte, pesanti, or nere or grigie, e carbon fossile, e terra bituminosa scissile, nera quanto il gagate216, piena di corpi marini bianchissimi. Vari filoni orizzontali inclinati di questa terra compariscono dapprima lungo l’alveo del torrente, avendo sopra e sotto di se altri strati di terra marina poco compatta, e pur piena comunemente di testacei. Passando più oltre, l’alveo de va ristringedosi è in più d’un sito totalmente scavato nella terra bituminosa: ma pell’ ordinario i filoni sono alternati. Come sopra le collinette della valle di Luzzane sorge un monte petroso, così sopra gli strati divisi dal Gipàlovo-Vrilo s’alza un monte maggiore, composto delle varie materie che il torrente conduce seco nelle gran piene. All’ultimo confine della terra ampelitica217, che finisce di lasciarsi vedere sotto a una cateratta del torrente, e a vari massi ferruginosi caduti dall’alto, trovansi le radici e il tronco d’un albero incarbonito, che ha tre piedi di circonferenza. Egli stava tuttora, quando io fui colà, nella positura sua naturale, e dal di lui piede vedevansi partire le radici perfettamente intere sino alle minime diramazioni.
Io ne ho meco portate alcune, che somigliano alle silique del carrubbio nella figura, ma sono incarbonite e d’una lucidissima nerezza. La particolarità che
216Varietà nera di lignite sinonimo di giaietto.
217Terra sedimentaria che appartiene al gruppo degli scisti argillosi.
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distingue questo tronco incarbonito dalla gran quantità di legni fossili, che si trovano pelle montagne, si è l’essere stato tagliato poco più d’un piede sopra le radici da un’accetta, o altro simile stromento, prima che lo coprissero gli strati marini. Il replicato esame fatto sopra della di lui situazione, e sopra ‘l di lui stato attuale, mette fuor di dubbio quest’antica verità. I filoni di terra marina divisi dal torrente corrono regolarmente oltre due braccia più alto del sito occupato dalle radici e dal pedale. Questo ha dei falsi tagli, ne’ quali s’è insinuato il bitume. Egli era poi anche mezzo sotterrato, allor quando colle mie proprie mani cavando la terra io l’ho messo a netto, condotto a ciò fare dal sospetto cui m’avea ispirato la naturale situazione delle radici. Lascio decidere a chi sa più di me da quanto antica accetta sia stato tagliato quell’albero, di cui ci restano conservati i residui, e in quali tempi abbiano dominato su que’ terreni l’acque d’un mare adesso lontano da noi, che vi ha deposto una così prodigiosa quantità di testacei stranieri.
Il carbon fossile e la terra ampelitica del Gipàlovo-Vrilo, quantunque lontani parecchie miglia dalle marine, potrebbono divenire generi utili, se non ad altro, alla distillazione della rachìa che porta fatalissime devastazioni ai boschi del litorale.
 
§. 6. Della montagna Sutina e luoghi aggiacenti
 
Ripigliando il cammino onde ritornare a Spalatro, piegammo alquanto più a tramontana per non rifare la strada medesima dalla quale eravamo venuti. All’intorno di Radossich veggonsi rovine di montagne sfaldate, e massi di marmo isolati fuori del sito loro naturale; essi posano sopra strati di terra marina, ma non sarebbe agevole l’indovinare se vi siano caduti ne’ tempi che le acque coprivano que’ luoghi, e dopo il loro ritiro per qualche tremuoto. Molta varietà di corpi marini trovasi fra queste rovine, e lungo le radici della montagna di Sutina,
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nel profondo letto del torrente, che le va rodendo, v’è volgare la breccia minuta, pezzata di nero, né v’è raro il bardiglio, il bigio, il bianco e nero, e il persichino. Questa montagna, che ha pur le sommità di breccia composta di ghiaie fluitate, ha la parte di mezzo composta d’ardesia calcareo-micacea, di varie durezze, e gradi di colore rossiccio più conveniente a’ monti minerali che a’ calcarei. In uno strato di quest’ardesia, che fendesi in lamine sottilissime e oltremodo fragili, ho veduto dell’impressioni di telline. Varcata questa montagna trovasi Hamuch, o Mutch superiore, picciolo casale fabbricato sulla breccia madrosa e poco atta a lavori nobili. Colà vidi accumulate molte lastre di marmo, o ardesia tegolare calcarea, portate da non so quai luogo de’ monti superiori. In alcune di queste stanno presi e petrificati gusci di vermiculiti, e rami di madrepore; altre sono un impasto di telline e d’anomie profondamente striate, simili a quelle che non di raro trovansi lapidefatte ne’ monti del veronesea. Un pezzo di questo marmo tegolare, ch’io ho portato meco, fatto pulire divenne un bardiglio, cupo lumachellato, sparso di stelle bianche, le quali altro non sono che sezioni orizzontali di picciole asterie colonnari angoloseb. Una delle superficie di questo marmo nel suo stato naturale mostra le conchiglie petrefatte prone, l’altra solamente le loro impressioni concave.
Sotto il casale v’ ha una mediocremente estesa campagna, cui attraversai per andar a leggere un’iscrizione disotterratavi pochi mesi addietro.
La più osservabile cosa ch’io abbia colà veduto, furono de’ gran massi di breccia macchiata di pagonazzo e d’altri bellissimi colori. Superbe colonne e magnifici monumenti potrebbonsene lavorare, se il luogo fosse meno lontano dal mare, o più praticabili le strade intermedie. A Roma si vede impiegata una breccia antica similissima a questa nelle opere più riguardevoli, e gli scalpellini la conoscono sotto il nome di breccia corallata. Chi sa che negli andati secoli un paese tanto abitato da colonie romane, e frequentato dalle milizie non avesse delle strade
aHelmintholithus anomiae deperditae, novemstriatae, Linn., Syst. Nat., III, p. 163.
bHelminth. Isidis Asteriae, Linn.; Asteria columna angulis abtusis, Scheuchz.
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comode, di cui adesso abbiamo perduto ad un tratto i vestigi e la memoria? Ghisdavaz e Prugovo sono due valli, attraverso delle quali ci condussero le nostre guide per rimetterci su la via di Clissa. La loro figura è circolare, e tutto d’intorno sono chiuse dai monti. Parrebbe che dovessero avere profondo e pingue terreno: eppure la non è così. Elleno sono piane, ma così povere di terra, e ricche di roccie taglienti, che sembrano sommità d’antichi e nudi monti avvallate per mancanza di fondamenti. Di sì fatti avvallamenti sogliono accadere nelle regioni cavernose, per di sotto alle quali scorrono fiumi; e perdonsi le acque raccolte da una vasta superfizie. L’ampia valle di Prugovo si trasforma sovente in profondissimo lago nel tempo d’inverno, e a poco a poco resta asciutta sul finire di primavera. Il fiume di Salona, ch’esce già formato dalle radici del monte, e quello de’ mulini di Traù devono probabilmente l’origine e gli accrescimenti loro alle acque, che si sprofondano da questa e simili valli sotterra.
 
§. 7. Delle rovine d’Epezio, e de’ petrefattì che si trovano in que’ contorni
 
Sei o sette miglia lontano da Spalatro verso levante, e tre miglia da Salona trovansi i residui dell’antico Epetium, colonia degl’Issei. Il luogo chiamasi adesso Stobrez. Per andarvi per terra da Salona si passa vicino a vari archi dell’acquedotto di Diocleziano, dal volgo chiamati Ponte-secco, e sotto d’un masso isolato detto per eccellenza Kamenc, che portò in altri tempi qualche fortino, come da’ vestigi di muraglie che vi rimangono si può dedurre.
La situazione d’Epezio era bellissima. La città sorgeva in riva al mare, ma su d’un piano assai superiore al livello dell’acque. Il bel fiumicello di Xernovnizad, di cui non ho saputo finora trovare il nome presso gli antichi geografi, mette foce nel di lei porto, capace di molti navigli pella sua ampiezza, ma reso di basso fondo a’
cKamen, sasso.
dXarnovniza ha il nome da xarn, che significa in lingua illirica mulino.
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giorni nostri, forse dall’importazione del fiume abbandonato a se stesso. La campagna vicina, quantunque poco ben coltivata, è deliziosa. I Turchi v’aveano stabilito delle saline: ma il cangiamento, che ha fatto il paese passando dal giogo ottomano al dominio veneto, ne ha portato con se l’abbandono. Non è però uliginoso e insalubre quel tratto di pianura, ch’era dalle saline occupato; egli invita qualche mano intelligente a farvi prova di quanto vaglia l’acqua perenne del fiumicello vicino, la dolcezza del clima, l’apricità della plaga.
Veggonsi ancora, lungo le rive del picciolo porto di Stobrez, riconoscibili vestigi delle antiche mure d’Epezio, ch’erano fabbricate bensì di solidi materiali, ma senza quella squisitezza di connessione che si ammira nelle fabbriche romane. Un sotterraneo condotto, di cui sussiste nel suo primiero stato la bocca e che s’interna ben addentro sotto le rovine nascose della città, mostra d’aver servito negli antichi tempi a scolarne le acque. Vicino alla chiesa parrocchiale, ch’è un buon quarto di miglio lontana dalle rive del porto, si osservano le fondamenta d’una torre, che fiancheggiava Epezio da quella parte; e la chiesa medesima è stata eretta su’ fondamenti delle antiche mura. Io mi lusingava di trovarvi qualche pregevole iscrizione greca, e non mancai di frugare con quest’oggetto per ogni angolo del villaggio; tutto fu vano. Vi si vedono de’ rottami di lapide latine affatto spregevoli. Io mi dovetti contentare di ricopiarne una sola intera, che vi ho rinvenuta nel pavimento della chiesa. E probabile che da quegli abitanti me ne sia stata nascosta qualche altra; eglino sono abitualmente in sospetto del forastiere, e particolarmente dell’italiano; né per dir il vero hanno sempre il torto.
Il fiumicello di Xernovniza non viene di molto lontano. Egli ha piccioli principi frà Squercich e Dubrava dalle falde del monte Mossor; fa una cascata non molto lontano dalla sua fonte, indi gira varie ruote di mulini e dopo un corso di cinque miglia mette in mare non ignobilmente. Le di lui acque nodriscono pesci di squisito sapore, e quelli del mare amano di nuotare d’intorno alle sue foci, Quindi gli abitanti di Stobrez usano d’andare scalzi diguazzando pel porto ad una pesca, cui si dovrebbe ragionevolmente dare il nome di caccia, da che vi s’inseguono,
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feriscono ed infilzano i pesci con ispuntoni armati di ferro. Io volli portarmi alla villetta di Xernovniza, sì per esaminare un poco il corso del fiume, come per vedere delle iscrizioni che si veggono colassù in una chiesa, per quanto mi fu detto a Stobrez. Il viaggio è di tre miglia poco più. La prima collina, ch’io dovetti varcare, mi fermò per la quantità innumerabile di nummali sciolte onde ha coperte le falde; io ve ne raccolsi buon numero di perfettamente intere e di grandezza osservabile. Se ne trovano di compresse, e anche colla spirale esteriore; fra di esse si raccolgono frammenti d’ostraciti lapidefatti, ed elmintoliti rostrati simili alle Corna d’Ammone bianche, di quella medesima spezie ch’è assai ovvia fra le argille di Brendola e di Grancona nel Vicentino.
I fanciulli del paese mettono la carestia di esemplari ben conservati sì delle nummali che degli elmintoliti, raccogliendoseli pe’ loro giuochi. Eglino sanno anche il vero momento della raccolta, né mancano di portarvisi subito dopo le gran pioggie. Così ne’ monti padovani, fra le vette di Venda e di Rua, sogliono le fanciulle raccogliere gli entrochi, o asterie colonnari, che vi si trovano in quantità dopo lo squagliamento delle nevi, per gettarli sul fuoco di nascoso e godere della sorpresa, e talvolta della paura, cui mette negli astanti il loro crepitare improvviso, simile a quello del sal marino. Io mi portai due volte espressamente colassù, e ben m’avvidi, dalla scarsezza della raccolta, che molte mani m’aveano prevenuto.
Il monte squarciato dall’acque della Xernovniza è di pietra arenaria, ora grigia or azzurrognola, senza vestigi apparenti di petrificazioni. La sponda sinistra del fiumicello è dirupata, orrida, impraticabile; l’altra è coltivata, o almeno piantata di viti e fichi particolarmente. L’insetto nemico a quest’ultima spezie di frutto v’era così prodigiosamente propagato, che su d’un solo fico poco più grande d’una noce comune io ho contato oltre settanta galle nuove, e su d’una foglia sola ne ho contato centocinquantasette; i rami poi n’erano tutti coperti.
Arrivato alla villetta di Xernovniza e arrampicatomi sino alla casa del curato, nello stato d’un uomo che aveva camminato di state in fretta, sotto la sferza del sole ardente all’ora di mezzo giorno, per una via ripida e sassosa, gli feci esporre dalla
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benemerita guida il mio desiderio, non osando farlo da per me stesso, per timore d’offendere il di lui orecchio nel pronunziar male alcune poche parole illiriche. L’inospitale e sospettoso uomo negò assolutamente d’aprire la chiesa, né volle cedere alle preghiere che replicatamente gli furono fatte colla maggior umiltà possibile. Egli non rispose mai altro che «nechiu», non voglio, a quanto gli poté dire la guida, ed io balbettare. Quest’asprezza di procedere mi fece perdere la pazienza; non mi vergognai più a parlare illirico, e proruppi nell’andarmene in un catalogo così ampio di titoli contro di quell’uomo ferreo, che credo d’avervi fatto entrare, oltre gli strapazzi mascolini, anche le villanie che si dicono alle donne. Il buon curato mi lasciò gracchiare e si chiuse nella sua capanna pacificamente. Questo fu il primo e il più solenne, anzi quasi il solo esempio d’inospitalità, ch’io abbia incontrato in Dalmazia: ma io vi sono stato così sensibile che non ho potuto a meno di farne particolare memoria.
Guardivi il Cielo, o Signore, dall’incontrare così duri e scortesi uomini pelle montagne che andate visitando, e dalle quali recherete un gran numero d’importanti notizie ed osservazioni francesi e germaniche in qualunque altro viaggio, da cui avrà sempre ragione d’attendere la repubblica de’ naturalisti! Io aspetto avidamente il ritorno vostro a queste contrade, come d’un soggetto a cui mi legano indissolubilmente la venerazione, ch’io ho pella solida virtù, e il vincolo degli studi comuni, per cui v’ amo ed ho in pregio fra tutti gli orittologi a me noti, niuno de’ quali vi può stare a fronte pell’acutezza della vista, pell’esattezza degli esami, pella determinazione coraggiosa e pell’infaticabilità cui portate ne’ viaggi montani.