Viaggio in Dalmazia: differenze tra le versioni

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La differenza che passa fra la remora, o l’echeneide degli Antichi, e la paklara de’ nostri si è che la prima quasi costantemente trovasi descritta come un testaceo, la seconda è del genere delle murene. Amatemi, pregiatissimo amico; e pregatemi dal Cielo lunghi viaggi e buona salute.
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{{Centrato|A SUA ECCELLENZA MYLORD
FEDERICO HERVEY239 VESCOVO DI LONDONDERRY,
PARI D’IRLANDA,
ec. ec.}}
 
Del Primorie, o sia regione Paratalassia degli Antichi
 
Al genio vostro, infaticabile ricercatore de’ segreti della natura, che vi il conduce sovente per vie rimote ed alpestri, non mai o molto di raro calcate da’ grandi, e a quell’amicizia, cui generosamente donate a coloro che non risparmiano fatiche o disagi per aggrapparsi a leggere, nelle più aspre e dirupate montagne, l’antica istoria fisica del nostro globo, io dovetti, Mylord, la mia prima escursione in Dalmazia, e ‘l vivissimo desiderio di ritornarvi. Nel momento in cui sembrava ch’io dovessi rinunziare a questo pensiere, ed abbracciando le generose proposizioni vostre, passare alla contemplazione d’oggetti maggiori in più rimote, e peranche sconosciute terre, prevalsero combinazioni pelle quali io rivarcai l’Adriatico invece di navigare in Oceano. Rivisitai quella parte della Dalmazia ch’io avev’avuto l’onore di scorrere rapidamente in compagnia vostra; e contando di dover passare altri due anni in quel regno, mi procurai delle notizie preliminari inoltrandomi anche in quelle contrade, alle quali non vi permisero d’andare i pressanti affari vostri. Il piano della mia spedizione soffrì una non prevedibile alterazione; e quindi del poco che ho veduto dovendo contentarmi, e in necessità di provare al mondo ch’io non sono stato ozioso, diedi alle osservazioni mie quella
 
 
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forma di cui poterono essere suscettibili, non quella che avrei voluto dar loro se le avessi a dovere compiute.
Io conto sì fattamente, Mylord, su la bontà dell’animo vostro, che mi lusingo non isdegnerete di vedervene dirette alcune, e vorrete pazientemente occuparvene, come d’una prova della costante memoria, gratitudine e tenerezza che a Voi mi congiunge, e mi terrà unito a dispetto della lontananza mai sempre.
 
§. 1. Della città di Macarska
 
Quel tratto di litorale che stendesi fra i due fiumi Cettina e Narenta, il primo de’ quali Nestus e Tilurus, il secondo Naro dagli Antichi fu detto, dove racchiudevasi due secoli prima dell’era nostra la propriamente detta Dalmazia, è stato da’ Greci de’ bassi tempi conosciuto sotto il nome di Paratalassia, e quindi dagli Slavi con denominazione equivalente fu chiamato Primorie, Dai racconti d’Appiano240 rilevasi che gran numero di città v’ebbero gli Ardiei, o Vardei, parte proprie, parte tolte per forza alle nazioni vicine da loro domate, prima dell’invasione de’ Romani; e dalla Tavola peutingeriana apparisce che parecchie ve ne rimasero dopo la conquista, nelle quali stabilironsi i vincitori che vi fondarono anche de’ nuovi municipi. Di questa verità, se ci mancassero le prove, manifesto indizio darebbono le frequenti iscrizioni, che svolgendo la terra s’incontrano per que’ luoghi vicini al mare, ed anche ne’ più internati fra’ monti. L’amenità della piaggia, la fecondità de’ terreni, l’opportunità della situazione rispettivamente al commercio delle provincie interiori col mare, la ricca pescagione di quelle acque deggiono aver invitato le antiche nazioni quantunque barbare a stabilirvisi; e dalla coltura sconsigliata de’ vicini monti, e dal taglio de’ boschi che que’ popoli si saranno trovati in necessità di fare, per provvedere a’
 
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bisogni loro, deesi peravventura ripetere il deterioramento della contrada, l’inghiaiamento de’ fondi litorali, e la sfrenatezza furiosa delle acque montane, che ne rendono inabitabile qualche porzione. Macarska è a’ giorni nostri la sola città che vi s’incontri, e dalla situazione sua si puote arguire che sia sorta dalle rovine dell’antico Rataneum di Plinio, il quale dev’essere stato la cosa medesima che ‘l Retino di Dionea. Le grotte sotterranee, che in que’ contorni assai moltiplicate si trovano, sono analoghe a quelle che a detta dello storico intorno a Retino s’internavano nelle viscere de’ monti, e nelle quali ritiraronsi i Retinesi dopo d’avere incendiato la città loro, con dentro i Romani che l’aveano presa d’assalto. La totale distruzione di Retino non fece però abbandonare totalmente quel sito; da Procopio trovasi detto Muchirum e nel vi secolo trovasi chiamato Mucarum. Dal Concilio salonitano conservatoci da Tommaso arcidiacono si rileva che in quella età fu istituito un Vescovo mucarense. La lapida sepolcrale di Stefano, che il primo occupò quella sede, fu disotterrata a’ dì nostri. Poco dopo vennero gli Avari, ed occuparono il Primorie e le campagne di Narenta, che acquistarono allora il nome di Pagania perché questi nuovi ospiti erano idolatri, e s’usava di già nell’illirio il nome di Pogànini per qualificarli. E congetturabile che l’Inaronia della Peutingeriana sia un’altra denominazione di questo tratto di paese marittimo, tolta da Narona che n’era la capitale; se però non sembrasse più ragionevole il leggere Maronia con Tommaso arcidiacono: nel qual caso il vocabolo barbaro equivarrebbe a Paratalassia e a Primorie. L’Anonimo Ravennate241 prende in iscambio Mucaro per Inaronia, che nella Tavola viene nominata dodici miglia in oriente d’Oneo, o sia Almissa; Mucaro starebbe bene sette miglia più oltre, dove si vedono disegnate fabbriche senza titolo. Il Porfirogenito dà il nome di Mocros a Macarska, facendone la capitale d’una delle tre Zupanie comprese ne’ confini della Pagania, vale a dire fra le foci de’ soprannominati fiumi lungo il lido del mare. Come il nome di Pagania da Pogànin è derivato, così Mocros, e i corrotti Mucarum,
 
aDio. Cass., lib. LVI.
 
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Muchirum e Muichirum probabilmente discendono dalla voce mokar ch’equivale a umido e innaffiato, e quindi conviene moltissimo al sito di Macarska bagnato da rivoli d’acqua perenne. Dopo d’aver formato parte dello stato de’ Narentani per vari secoli, distrutti que’ pirati, passò Macarska col resto del Primorie sotto l’obbedienza di vari Principi cristiani, ora piccioli or grandi, ne’ bassi tempi, indi obbedì alla Porta ottomana, e finalmente nel 1646 si diede volontariamente alla Serenissima Repubblica, che l’accolse e colmò di privilegi.
Qualunque opinione sia da tenersi del primiero nome e stato di Macarska, egli è certo che niente d’antico le rimane più a’ giorni nostri. Ella è fabbricata tutta di nuovo, ed è la sola fra le città della Dalmazia in cui non si vedano case rovinose e macerie. La sua estensione è picciola, poco numerosa la popolazione; non ha fortificazioni di sorte alcuna, anzi è del tutto priva di porte e di mura, checché ne dicano i geografi moderni, e segnatamente il Busching, che prende anche un grosso abbaglio mettendola su la cima d’un monte. Ella è al pié d’una gran montagna, e stendesi lungo le rive del suo picciolo e non ottimoa porto, in sito piano. L’aria di questo paese non era granfatto salubre nell’età passate; una palude salmastra le tramandava nel tempo distate aliti pestilenziali. Gli abitanti vennero in deliberazione di farla comunicare col mare, ben intendendo che un picciolo tratto di basso terreno, allagato da fetide acque, corrompe l’atmosfera ad una estensione molto maggiore; ed infatti l’esito corrispose perfettamente alle loro patriotiche mire, imperocché la popolazione vi va crescendo, e vi gode molto miglior salute che negli anni addietro.
I Macherani sono di svegliatissimo ingegno e particolarmente addetti al mercanteggiare. Riescono felicemente anche nella letteratura; e quant’oltre possano arrivare nella coltura dello spirito col proprio esempio, lo provava il conte abate Clemente Grubbisich242, nato in Macarska d’antica e nobile famiglia, che
 
aIl Maty e La Martiniere danno ne’ loro dizionari un gran porto a Macarska.
 
 
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nello scaduto anno 1773 immaturamente fu tolto dalla morte alla repubblica letteraria, alla patria di cui era lo splendore, ai viaggiatori che ne ritraevano lumi ed ospitalità nobilissima, a tutti i buoni che lo amavano giustamente. Egli dee aver lasciato delle pregevoli cose manoscritte, fra le quali meritano particolar menzione una Storia narentina condotta a buon termine, e un Trattato delle origini ed analogie della lingua slavonica, pieno di laboriosa erudizione. Quest’uomo dotto e di costume aureo s’era ritirato in una casa di campagna, dove coll’esempio avea intrapreso di riformare la rozza agricoltura de’ Primoriani, e attendeva da tranquillo filosofo agli studi, gustando delle vere delizie d’una solitudine ch’egli aveasi resa piacevole ed amena. Come la sua famiglia nobilissima fra le altre, così si distinse fra i letterati cittadini di Macarska monsignore Kadcich243, arcivescovo di Spalatro, che dié alla luce una Teologia morale in islavo, ad uso del clero illirico glagolitico, che ne mancava totalmente, e lasciò la sua biblioteca provveduta di buoni libri ecclesiastici a beneficio della patria, con esempio commendabilissimo. Né si vuoi fra gli scrittori macherani lasciar di nominare F. Andrea Cadcich Miossich244, del quale fu pubblicata una raccolta di canzoni eroiche nazionali; quantunque egli n’abbia fatto la scelta con poco buon gusto, e con meno criterio v’abbia introdotto una quantità di cose inutili ed apocrife.
 
Il suolo su di cui sta fabbricata Macarska è attissimo a produrre olio, vino, mandorle, mori, miele e qualche poco di grani. L’indole del terreno è leggiera e ghiaiosa, né manca d’umidità come pell’ordinario gli altri paesi litorali della Dalmazia. Si riconosce manifestamente che da’ piccioli torrenti n’è stata formata la superficie esteriore; e i torrenti medesimi nelle materie che triturarono
ricordato da Fortis, In originern et historiam alphabeti sclavonici glagolitici, vulgo hieronymiani disquisitio.
243Autore di un Manductor Illyricus (Bologna, 1729), teologia morale che si richiama agli antichi canoni, dedicata al clero illirico.
244(1704-1760). Legato apostolico in Dalmazia, Bosnia ed Erzegovina Riprendendo il gusto e la sensibi1it popolare compose una raccolta di documenti e fatti storici, da Alessandro al sec. XVIII, esposti in versi Razgovor ugodni naroda sloviskoga (Discorso piacevole sulla nazione slava, 1756), che costituisce un classico della letteratura slava. Tre poesie della raccolta, tradotte da Fortis, furono pubblicate anche da Herder nei Volkslieder.
 
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anticamente sonosi scavati gli alvei. Un ruscelletto d’acqua detto Vrutak attraversa la piazza della città; non è però così dolce che possa servire a bevanda salubre, quantunque sorga da luogo elevato di molto sopra il livello del mare. Il popolo attinge acqua leggiera e purissima dal ruscello Budieviza, che scende dalla villetta di Cotisina e mette in mare vicino a Macarska. Sembra che ad onta delle ghiaie portate al lido dalle acque montane, il mare abbia guadagnato, e guadagni continuamente, in quelle vicinanze. Nel tempo di calma vedesi sott’acqua nell’imboccatura del porto un pezzo di muraglia, che non dovett’essere fabbricato certamente sotto l’onde ne’ tempi antichi; e lo scoglio detto di S. Pietro, che copre il porto medesimo, soffre uno smantellamento assiduo, quantunque non rapido, dalla violenza de’ flutti, come gli altri promontori di quel litorale. La palude contigua, dove l’acque stagnavano negli ultimi tempi per non poter avere libero corso in mare, somministrò anch’essa una prova di questo alzamento del livello. Nello scavarvi la comunicazione, di cui vi ho già fatto cenno, si trovarono i residui d’un magnifico sepolcro, e pezzi di nobili colonne. Io ho veduto a Macarska una bellissima medaglia di Marco Giulio Filippo in oro, tratta da queste fondamenta che non saranno state originariamente piantate in un sito allagato.
 
§. 2. Del monte Biocova, o Biocovo, che domina Macarska
 
Il più alto monte che sorga lungo le rive del Primorie si è il Biocova, alle radici del quale giace la città di Macarska. Egli apparisce di lontano bianco e spoglio d’alberi, e ben gli convengono ad un tratto ambedue i nomi d’Albio e d’Adrio che portò anticamente. L’aspetto nudo, sassoso e scosceso di questa montagna disabitata, presenta tutte le male qualità bastevoli a dissuaderne il viaggio. Non è possibile l’andarvi con cavalcature di sorte alcuna: e riesce per conseguenza malagevole anche l’arrampicarvisi co’ piedi e colle mani. La curiosità d’andar a
 
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vedere le ledenizze, o conserve naturali di ghiaccio, che nell’ardente bollore della state mantiensi nelle caverne della più alta parte della montagna, mi spinse ad intraprenderne la scalata. Il soavissimo amico mio, signor Giulio Bajamonti, acconsentì a tenermi compagnia. Noi partimmo allo spuntare del giorno da Macarska, con due Primoriani per guide, senza de’ quali non sarebbe venuto il mio prudente compagno, che non istimava benfatto d’esporsi a qualche incontro di Haiduci, molti de’ quali assicurati dall’asprezza del sito abitano come lupi pelle grotte del Biocovo. Io più inconsiderato, o più disposto a contare su la probità di que’ banditi, i quali pur troppo spesso Io sono pell’avarizia d’un rapace ministro, piucché per un vero delitto commesso, sarei andato volontieri anche solo il dorso della montagna è tutto rovinoso, e i sentieri meno impraticabili a’ quali dovemmo determinarci furono quelli pe’ quali scendono le piovane; le ghiaie e i sassi rotti ci mancavano sotto i piedi, e ricordavanmi la faticosa salita del Vesuvio, nella quale io ebbi l’onore d’accompagnarvi, dove pur troppo a lungo ci accadde di mettere un piede innanzi, per trovarci un passo addietro.
La bella vista del mare, de’ promontori e dell’isole, che di lassù si gode perfettamente, fu quasi il solo compenso della nostra fatica. Le diacciaie, alle quali per un ben lungo e disastroso cammino, saltando di roccia in roccia vollimo portarci, non aveano più ghiaccio sul principio d’ottobre. Noi discesimo in una profondissima voragine, che riceve lume dall’alto, e di fianco poi diramasi chi sa quanto addentro le viscere della montagna; vi trovammo un freddo acutissimo. Al di fuori vidimo degli abbeveratoi di legno, dove i pastori sogliono squagliare il diaccio e la neve pelle loro greggie. La montagna è quasi del tutto spoglia d’alberi, anche nelle profondità più impraticabili; molto di raro in proporzione della sua estensione, vi si vedono residui di selva antica, i quali pur vi si dovrebbono ritrovare lontano dall’abitato e in luoghi inaccessibili, d’ond’è fisicamente impossibile il trasporto de’ gran tronchi. Ma il fuoco acceso da’ pastori, talora per riscaldarsi, e talor anche per procurarsi uno spettacolo selvaggio, ha distrutto
 
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anche questi. Dicono che gl’incendi cagionati da sì tenui principi durarono alcuna volta de’ mesi interi.
La parte alta del Biocovo è composta di breccia e di marmo biancastro volgare. Così ne’ massi della prima, come in quelli della seconda pasta, trovansi erranti de’ pezzi di selce angolosa, screpolosa al di fuori, piena di corpicelli marini, e che nell’interno è poi dura, unita, semidiafana, e capace di lucidissimo ed uguale pulimento. Le radici di questa montagna stendonsi lungo il mare, da un capo all’altro del territorio di Macarska, e quindi alla litografia di essa appartengono tutti i fossili, de’ quali m’accaderà di farvi parola in questa mia lunga diceria, a misura che anderò toccandovi i vari luoghi dove gli ho osservati e raccolti.
Prima però di finir di parlare del mio viaggio al Biocovo, per darvi un saggio del carattere de’ Primoriani contadini, voglio aggiungere una picciola avventura che abbiamo incontrato nello scendere da quella montagna. I due uomini che ci precedevano, armati secondo il solito della nazione, incontrarono una vipera lungo il sentiero che se ne andava tranquillamente pe’ fatti suoi. L’uno e l’altro a gara eccitaronsi ad ucciderla a colpi di pietra, e malgrado alle intercessioni nostre si ostinarono a farlo, dicendo ch’ella era un demone malefico nascosto sotto quell’aspetto; eglino deviarono anche pell’orrore dalla strada per cui ella poteva avere strisciato. Il signor Bajamonti, avendo detto loro molte cose affinché conoscessero la stravaganza di questo pensare, tolse di terra la morta bestia, ch’era da essi ancora guardata di lontano con occhio pauroso, e andò verso di loro perché vedessero che veramente ell’era morta. Que’ due brutali ad un tempo si posero in istato di scaricare due armi da fuoco contro di lui, prorompendo nell’ingiurie e nelle minaccie più decisive: e fu veramente un tratto di buona fortuna che l’amico nostro non gettasse la morta biscia, come avea accennato di fare, verso di loro; nel qual caso indubitatamente sarebbe restato ucciso sui momento. Or non ebb’egli il torto di voler delle guide primoriane per difesa della persona? Fu detto per iscusarli che la superstizione è causa di tutto questo; tanto
 
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peggio affedidieci246! Io troverei questa gente orribile se fosse capace di tanto, anche mossa dallo spirito di buona religione.
 
§. 3. Delle meteore del Primorie
 
Il monte Biocova manda, al dire de’ Primoriani, i venti, le grandini, le pioggie, e ogni cangiamento dell’aria. Il vero è che questa montagna è il loro teatro meteorologico. I venti boreali sono quelli intorno ai quali hanno fatto le più diligenti osservazioni; ed io credo che meritino d’esservi riferite, da che il mio defunto amico conte abate Grubbisich mi assicurò che, dando loro la prova colla speranza, le avea trovate ben fatte.
Prima che il vento di borea prorompa, se v’ha nebbia sul Biocovo questa sollevasi in alto, stracciata in mille guise; l’interno della montagna mugge, poi mena romore grandissimo, l’aria s’irrigidisce. Se il Biocovo non ha nebbie, annunziano borea le nubi egualmente distese per quel tratto di cielo, e il rigore insolito dell’aria. Dicono i pastori, e sembra il fatto lo mostri, che il vento borea esce dalle voragini della montagna. Certa cosa è che dalla sommità egli scende verso il mare, come un torrente impetuosissimo ed improvviso. Gli antri d’Eolo situati nelle alte montagne, e le procelle che rovinando calano dalle altezze presso i poeti antichi, mostrano che queste osservazioni sono state fatte anticamente da nazioni più colte. Anche Seneca pensò che i venti si scatenassero dagli abissi sotteranei, e si facessero strada pelle aperture della terra. Allorché per qualunque cagione si accendono i boschi dell’interno della montagna, regnano i venti boreali di mediocre forza (come sono mediocremente sprofondate le convalli selvose accese) finché dura l’incendio: ma cagionano lunghe siccità. A questo proposito è da ricordare ciò che si legge de’ Segnani, nella storia della guerra de’ Veneziani contro gli Uscocchi. Asserisco n gli scrittori che que’ ladroni, accendendo gran
246In fede di..., antica interiezione usata principalmente come giuramento.
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fuochi pe’ boschi, o caccian d gran quantità di rami accesi nelle voragini, destavano il vento che impediva ai legni nemici l’approdare alle loro spiagge, e talvolta li faceva perire in quel pericolosissimo Canale della Morlacca. Quando il monte è assai bagnato dalle pioggie, o non fa vento boreale, o se spira per qualche poco di tempo, non prende forza se non a misura che il monte va rasciugandosi. Alzasi però il vento di borea se, dopo lunga siccità, cada in iscarsa dose la pioggia; se non fa borea in questo caso, è segno di vicino scirocco. Se dopo ventiquattr’ore di borea il cielo non trovasi perfettamente sereno, è indizio che il vento medesimo durerà a lungo, o si cangierà in scirocco. La durata di borea suol essere di giorni dispari, vale a dire d’uno, di tre, cinque, sette, nove, e persino a tredici, e quindici di seguito. S’alza pell’ordinario questo vento coll’alzarsi del sole e della luna, o col tramontare di essi; verso l’aurora e il mezzogiorno si rallenta, e cede talvolta: ma se non lo fa è segno manifesto che deve imperversare lungamente. V’ha un vento di borea periodico, il quale si fa sentire ordinariamente intorno a’ sette, diciasette e ventisette di marzo: ma il più costante si è quello che spira intorno alle feste di Pentecoste, che quindi ha il nome di duhovçiza. Pretendono che se intorno a quel tempo borea è mite, lo debba anch’essere per tutto il restante della state. Questo vento se spiri moderatamente credesi utile, ed anche necessario dopo la fiorita delle viti e degli ulivi, perché trae seco sollecitamente i fiori dissecati: così giova quando le viti per troppa umidità sono ammalate di rubedine247. Ma per lo più è micidiale, portando mali di petto e febbri maligne agli uomini, e morte a ghiado248 agli animali minuti che sono sparsi pei pascoli della montagna. Allontana da que’ lidi, per quanto dicono i pescatori, anche le masse, o stormi de’ pesci emigranti; e finalmente, quando inferocisce, lacera, fracassa e sbarbica le piantagioni, inaridisce e polverizza la terra, indi la porta seco pell’aria, o la lascia snervata e senza forza vegetatrice. I naviganti non si fidano a impegnarsi di notte nel canale ch’è fra ‘l Primorie, e l’isole di Brazza e Lesina, temendo il furore subitaneo di
247Ruggine delle viti.
248Morte per il freddo.
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questo vento che precipita dalle montagne o sbocca dal vallone della Vrullia; e quindi il commercio soffre moltissimi ritardi e pregiudizi.
Lo scirocco e il maestrale dominano anch’essi alternativamente in Primorie; quindi all’osservazione de’ pescatori e marinai furono soggetti. Le acque alte presagiscono lo scirocco, come le basse straordinariamente indicano vicinanza di venti settentrionali; così la straordinaria rapidità delle correnti. Lo scirocco periodico si fa sentire ogni anno verso Pasqua; questo non conduce pioggie, ma bensì caldo: il suo periodo ordinario è diventi giorni, e suoi cessare al calar del sole. L’anno in cui questo vento manca di spirare ne’ modi e al tempo accennato, si ha la state quasi priva di venti maestrali e di turbini o nembi. Questo scirocco asciutto è dannoso perché abbrustola i germogli delle piante; agli uomini non apporta altre malattie che stanchezza e svogliatezza, incomodi ben compensati dall’abbondante pescagione, cui si crede dovergli in particola r allorquando è piovoso di frequente, e dal buon raccolto de’ grani seminati pel monte. In tempo di state, quando il maestrale si posa per un giorno, è segno di scirocco nel dì seguente; lo scirocco poi sciogliesi con qualche turbine. Anche i turbini somigliano alla febbre; se non sono efimeri, ritornano a farsi sentire nel dì seguente, intorno all’ora medesima. Forse potrebbonsi pronosticare facendo riflesso alle anticipazioni, o posticipazioni de’ movimenti dell’aria. Dicesi che nell’interno della Bosna qualche tempo fa cadde una pioggia di sardelle, con grande spavento e contrizione di que’ poveri Turchi; s’egli è vero, se ne dee dar la colpa a qualche tifone, de’ quali sono frequenti gli esempi.
I lampi d’estate se si mostrano a ciel sereno predicono lunga siccità, ma se vengono da qualche nube carica, annunziano l’aggruppamento d’un qualche turbine e pioggia impetuosa. Nel tempo d’inverno i lampi, che sono frequenti al di là del nostro Adriatico, presagiscono comunemente che il vento dee venire dalla parte opposta. Il romore straordinario di molti tuoni non promette pioggia abbondante, e v’è di questo un proverbio illirico: «Kad vechie garmì magna dasgia pade», «Quando più tuona minor pioggia casca».
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La stagione delle pioggie in Primorie è sui principio d’autunno e sul finire d’inverno. Se l’inverno o la state sono piovosi di molto, è uno sconcerto; così hanno osservato che l’inverno mite dà una state procellosa. La state piovosa dà buon raccolto d’oglio, ma poco vino, e viceversa: ma se l’inverno è stato piovoso, la primavera e la state asciutta, v’ha carestia d’ogni prodotto. Quando la stagione è troppo piovosa, suol cadere nelle notti serene una rugiada rossiccia, ch’è osservabilissima spezialmente da chi viaggia per mare; pretendono che da questa venga la rubedine delle viti.
Verso Natale e in primavera si fanno sentire le provenze 249lungo que’ litorali; e queste per lo più la finiscono con qualche burrasca. I venti australi e il garbino vi sono poco frequenti a paragone de’ boreali, de’ maestrali e dello scirocco; quindi non se ne hanno regole dettagliate.
La neve e il diaccio non durano molto in Primorie, e nemmeno su la cima del Biocovo; quantunque al di là di essa, e fra’ dirupi del monte Mossor si conservino talvolta da un anno all’altro. L’abbondanza della neve porta abbondanza d’ogni prodotto, ma spezialmente d’oglio, e tanto più quando anticipi a cadere. Il freddo che si faccia sentire troppo tardi è dannosissimo, perché sorprende il succhio delle piante in moto. Anche gli animali minuti ne patiscono gravissimi danni. Non è però mai molto acuto il freddo in quelle contrade marittime, quando il vento di borea non lo conduca; e senza di questo il mese di gennaio vi è come l’aprile fra noi. La state vi si sente quasi da per tutto calda all’eccesso; e nel mese di settembre io vi ho sofferto tanto dall’ardore dell’aria, che in Puglia non ho certamente provato di peggio. Le grandini vi sono meno frequenti, e più minute che nella nostra parte d’Italia.
 
§. 4. Del mare che bagna il Primorie; del suo livello; della pesca
 
249Espressione locale, in Veneto indica prevalentemente le nebbie, ma può intendersi anche nell’accezione di venti freddi.
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Nel viaggio ch’io ho avuto l’onore di fare con Voi, ho in vari luoghi creduto di ritrovare costanti e chiari indizi dell’alzamento del livello del nostro Adriatico, del quale alzamento da’ tempi romani a’ nostri convennero il Manfredi250 e ‘l Zendrini, e che adesso da alcuni si nega senza verun ragionevole fondamento, anzi in opposizione de’ fatti, da altri non si calcola punto nelle occasioni, che pur chiederebbono si calcolasse. Non è del momento il raccogliere tutte le osservazioni di fatto, che in favore di questo alzamento di livello somministra la città di Venezia, dove il Governo è in necessità d’anno in anno d’alzare le piazze che danno acqua alle pubbliche cisterne, perché dal XVI secolo in cui per la maggior parte furono riparate, sino a’ dì nostri il mare ha guadagnato sopra i pavimenti nelle piene sciroccali, dove l’acque entrano in parecchi tempi, che saranno certamente stati fabbricati in modo da contenervi i fedeli all’asciutto; dove la gran Piazza di S. Marco, ad onta del nuovo pavimento e de’ rialzamenti che vi si son fatti, è tratto tratto inondata: dove ne’ magazzini de’ mercatanti l’acqua oltrepassa nelle piene le prevedute misure, con danno e deperimento grandissimo di merci. E questi danni urbani, e gli smantellamenti delle dighe, i pregiudizi cui soffrono le nostre valli, e quelle de’ Comacchiesi, che si lamentano giornalmente del mare sopraffattore; la rovina parlante del non oggimai, per qualunque dispendio che vi si faccia, ben riparabile porto d’Ancona e del monte vicino, che vien rovinato a occhi veggenti; la città di Conca sommersa poco lontano da Rimino; le fondamenta subacquee di Ciparum in Istria, che pur fu distrutta del DCCC, e tante altre osservazioni corrispondenti sono estranee al mio proposito. Io vi deggio parlare di ciò che ha rapporto al livello del mare lungo il litorale primoriano.
In tutta la spiaggia dalle foci di Cettina sino a quelle di Narenta, il mare ha visibilmente perduto della sua antica estensione in superficie. Le ghiaie, le terre, le sabbie portate giù da’ monti pell’impeto de’ torrenti hanno colmato le valli, e d’un lido, che anticamente sarà stato second’ogni apparenza portuoso, hanno
250Grande matematico bolognese (1681-1761), promotore dell’analisi infinitesimale. Tra i suoi interessi minori ci fu anche l’idraulica, della quale tratto specifici problemi in memorie edito anche nelle «Osservazioni letterarie», e nel «Giornale de’ letterati».
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fatto una spiaggia esposta ai venti e totalmente priva di seni. Il mare infuria adesso contro questi nuovi terreni, e li va rodendo tanto più agevolmente, quanto ch’ e’ non hanno gran connessione di parti. Per quanto s’abbassi la marea in que’ luoghi, dove il lido corroso sorge a perpendicolo, non si discuopre però mai altra materia che lo componga se non se ghiaie montane. I promontori che in vari luoghi sporgono in mare dal continente, invece di ricevere aumento, o fiancheggio, come dovrebbe accadere se il mare (come ad alcuno potrebbe venir in pensiero) cacciasse al lido le proprie ghiaie, perdono di giorno in giorno della loro estensione, e divengono scogli subacquei, capovolti e staccati dal monte.
A queste osservazioni generali, due di particolari ho potuto, viaggiando pel Primorie, congiungerne. L’una mi è stata dettata dall’iscrizione scolpita nel vivo dello scoglio lungo il lido di Xivogoschie, nella quale è parlato non solo d’una fonte che non vi sgorga più, ma anche d’un tratto di podere ch’ella irrigava. Adesso il mare batte violentemente contro la rupe scritta, e di già colla reiterata percussione delle ghiaie litorali ne ha pregiudicato di molto il pregevole monumento, che non si legge più intero. Il podere, il giardino, il viale ameno, per cui s’andava a questa fonte, che apparteneva, secondo il chiarissimo signor Girolamo Zanetti251, a Liciniano imperadore, è tutto stato sommerso con essa insieme dal rialzato mare.
Il fiume Narenta e la campagna da lui allagata, in cui trovansi sepolti i resti dell’Emporio Narona, mi somministrarono l’altra, che pur troppo è applicabile anche alla parte nostra, dove Adria e Ravenna subirono la medesima sorte. Le acque ritardate nel loro corso dall’opposta crescente altezza de’ flutti, deposero intorno alle foci di Narenta un gran numero di banchi d’arena, d’alcuni de’ quali formaronsi dell’isole basse e paludose: ma di questo apparente prolungamento delle terre ben si vendica il mare giornalmente, rimontando sempre più addentro
251Erudito veneziano (1723-83), dal 1753 al ‘58 pubblicò con Calogerà le «Memorie per servire all’istoria letteraria». Nella molteplicità dei suoi interessi si occupò di diritto, fu studioso di egittologia e di mitologia, volgarizzatore di classici) prevalsero quelli antiquari, testimoniati dalle numerose osservazioni sopra marmi antichi ed iscrizioni, si veda in particolare la Lettera sopra alcune iscrizioni votive e militari scopertese in Dalmazia, Padova, 1764.
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nell’alveo del fiume medesimo, e costringendone le acque impedite dallo scaricarsi liberamente a spandersi pell’aggiacente pianura. Quel tratto di paese ch’era una volta fecondissimo produttore di biade e dominato da una florida città, è adesso una vasta e insalubre palude, dove appena trae la vita languendo una miserabile e scarsa popolazione. Non sarebbe però difficile impresa il ridurre abitabile e fruttifera quella pianura, e vi s’incontrerebbero meno difficoltà che nel basso Polesine, poste le differenti combinazioni del sito; ma stando le cose in istato naturale, il mare vi ha fatto ritrocedere il fiume, ed allagate le terre. Il lago scardonitano sarà forse stato anch’egli una pianura irrigata dal Tizio, prima che il mare ne rispingesse il corso.
Il canale che separa la penisola di Sabbioncello252 dal continente, ha tutta l’apparenza d’essere stato in tempi rimotissimi l’alveo del fiume Narenta. Il monte che forma quel promontorio, non è d’origine vulcanica, onde possa dirsi sorto di sotterra o di sott’acqua tal qual si vede; egli è manifestamente stato separato dalla continuità della gran massa che forma il continente, come le vicine isole lo furono senz’alcun dubbio. Torcola, ignobile isoletta abitata da pastori soltanto, ha una cava di tofo fluviatile, il quale non d’altronde che da un fiume tartaroso può aver l’antica sua origine; e nella struttura della medesima isola restano degli altri segni riconoscibili d’antichi alvei. Così ne rimangono sull’isola di Lesina, de’ quali farò parola a suo tempo.
I fondi del mare primoriano sono ineguali; la profondità dell’acqua vi è però sempre considerabile nel mezzo del canale, che separa il continente dall’isole, e dovrebbe oltrepassare le cencinquanta passa. Nel seno di Narenta, come fra Sabbioncello e Lesina, è molto minore, a segno che sovente si vede il fondo. M’accadde di vedere, nelle acque del capo S. Giorgio di Lesina, cosa che può dar idea dell’accrescimento de’ fondi marini pell’accessione de’ testacei e polipari, che vi formano la crosta, di cui parla il Donati nel suo Saggio di storia naturale dell’Adriatico. Questo scrittor si credette, dopo lunghe osservazioni subacquee, di
252Peljeŝac.
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poter concludere che l’acque del mare s’alzassero di livello in qualche ragione coll’alzamento de’ fondi, prodotto dalle importate de’ fiumi e da questa crosta, ch’egli avea in vari luoghi e spezialmente nelle maggiori profondità ritrovata. Io tralascio d’esaminare se infatti deggia contribuire l’alzamento del fondo all’alzamento dell’acque in un seno di mare, nel quale l’acque vengono dall’Oceano, d’onde tanto meno probabilmente dovrà venirne, quanto meno pel riempimento ed interramento de’ fondi ne potrà il recipiente contenere; e vi parlerò soltanto di ciò che riguarda la crosta. Questa sembra ben lungi dal formarsi in ogni luogo; in alcuni fondi non si vede affatto, né si trae di sott’acqua con veruno stromento: in altri è picciolissima cosa. Fuor del capo S. Giorgio suddetto vedesi in poco fondo d’acqua un gran mucchio di urne antiche, che denno avere una dimora in quel sito di quattordici secoli per lo meno; molte di queste urne trovansi anche sparse a quattro, a due, a tre, colcate lontano dal maggior cumulo. Non sono sepolte, che anzi si vede loro più della metà del corpo; con mediocre spesa e fatica si può trarne dal mare qualcheduna. Elleno hanno poco più d’un piede di diametro, e intorno a tre d’altezza; portano sovente il nome del fabbricatore in belle e riconoscibili lettere romane. Sembra che il naufragio di qualche vascello carico di stoviglie le abbia colà depositate. Ora il giro di tanti secoli né le ha nascose sotto la crosta di recrementi253 marini osservata dal Donati, né questa crosta ha ingrossato più di mezzo pollice su di esse, che ne sono e al di dentro e al di fuori intonacate. Fa dunque d’uopo che la non sia così universale come peravventura egli si credette, o mostrò di credere, e che la non si formi sì presto come altri potrebbe forse pensare, e quindi che il sollevamento del fondo marino non sia tanto quanto si crede. Egli è poi probabile, e consentaneo alle leggi della fisica, che le deposizioni de’ fiumi, e quelle de’ torrenti moltoppiù, si decantino in poca distanza dalle foci, d’onde ne segue piuttosto un prolungamento de’ continenti, che altro cangiamento nella vasca del marea.
253Depositi, scorie.
a«Quanto più li testacei, crostacei, e polipari sopra una tal crosta si propagano, tanto più ella si riempie delle spoglie e degli scheletri de’ medesimi, ed accresce la propria mole, e perciò s’inalza
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Questi prolungamenti de’ terreni litorali produrrebbero non v’ha dubbio, egualmente che gl’interramenti de’ fondi, un alzamento di livello in qualche lago: ma non pare che debbano farlo nel nostro mare, che comunica e livellasi colle acque esteriori. L’alzamento di livello da’ secoli romani a’ dì nostri essendo però un fatto incontrastabile, di cui oltre alle sopraccennate da me anche il Donati arreca molte prove, fa d’uopo da qualche altra più grande e universale cagione ripeterlo. La subsidenza delle terre, colla quale alcun ingegnoso uomo si è studiato di spiegarlo, non può così ben quadrare a’ luoghi di fondo palustre e a’ fondi sassosi che ne risulti un eguale effetto: vi vorrebbe poi un miracolo continuo perché a Venezia, in grazia d’esempio, tutte le fabbriche s’abbassassero d’accordo, quantunque non tutte sieno della stessa data, o piantate nella stessa indole di suolo.
Io non so come si porti il mare intorno a codesta vostr’isola ne’ luoghi lontani dalle imboccature de’ torrenti, o de’ fiumi, da’ quali non si vuol trarre alcuna regola, per esservi troppo visibilmente parziale il prolungamento delle terre. So bene che nel Baltico (se alle attestazioni de’ signori Celsius, e Dalin254 si voglia credere, e al celebre signor Linneo) la terra abitabile s’accresce e il mare ritirasi manifestamente abbassandosi di livello: ma per una strana fatalità, anche inquesto vollersi mescolare i teologi del Nord (che dicono poi male de’ nostri) e ruppero talmente la testa alle persone, negando ad alte grida quanto da’ sunnominati osservatori venne asserito, che non se ne sa più che cosa credere.
Ma io mi sono lasciato ire ben lontano dal Primorie senz’avvedermene; lasciamoli contendere a loro piacere, e torniamocene alle nostre acque.
il letto del mare, al quale accrescimento però viene, e fu assai più somministrato dal disfacimento di qualche sola, che alcuna volta avvenne nel nostro Adriatico; dalle ruine ec. [...] Vedete come sia necessario che il fondo del mare s’accresca, ed accrescendosi questo, come l’acque debbano inalzarsi, ec». Donati, p. XI, XII.
254Entrambi studiosi svedesi, Celsius (1701- 44) astronomo, più noto per essere l’inventore del termometro centigrado è qui citato per la sua Oratio de telluris habitabilis incremento. Dalin, medico, letterato e storico (1708-1763), oltre ad operette letterarie scrisse la storia del Regno di Svezia.
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La pescagione delle sardelle e degli sgomberi è la più ricca che soglia farsi lungo le rive del Primorie. Il tempo di eseguirla è nelle notti oscure; il pesce viene ingannato dalle barche dette illuminatrici che, portando su la prua un fuoco di ginepro o di sapino acceso, lo conducono a numerosi stuoli nelle reti vicino a terra. Ciascuna di queste reti, che chiamansi da tratta, ricerca tre barche; una maggiore, in cui giace la tratta medesima, e due minori fornite di legna, che servono di guida al pesce allettato dal loro lume a seguirle sin dentro alle reti. Tredici uomini sono impiegati per ciascheduna tratta, e questi divengono eccellenti marinai dopo pochi anni d’un tal esercizio, che gli espone sovente a combattere con improvvise nembate, o a vincere a forza di remi l’ostinazione or delle calme, ora de’ venti contrari. L’arte pescatoria fiorì altre volte in Dalmazia: ma dappoiché ai di lei prodotti, che spacciavansi felicemente pella terra ferma, sono stati a poco a poco maliziosamente da privati interessi surrogati gli stranieri, invece di perfezionarsi e dilatarsi ha perduto molte delle antiche industrie, ed è assai meno estesa a’ giorni nostri di quello fosse nell’età passata. Uno degl’impedimenti alla propagazione della pesca è anche divenuto il prezzo delle resinose scheggie di ginepro e sapino, di cui quegli abitanti esclusivamente si servono nell’illuminare: queste due spezie d’alberi sono oggimai quasi sterminate da’ monti litorali e dagli scogli. Sarebbe facile il superare quest’obbietto colla sostituzione d’un ben inteso fanale, simile a quelli che si usano da’ pescatori francesi del Mediterraneo, che vanno di notte in cerca degli sgomberi e delle sardelle; questo ripiego farebbe scansare una riflessibile parte delle spese che abbisognano per una tratta, e risparmierebbe anche l’opera di qualche uomo, ch’è un animale da tener caro in un paese poco popolato come la Dalmazia.
La pesca delle sardelle e degli sgomberi s’incomincia all’aprire di primavera e dura tutta la state, e buona parte d’autunno, eccettuandone le notti vicine a’ pleniluni che sono troppo chiare. Pretendono i pescatori d’aver osservato che gli stuoli di queste due spezie di pesci vengano dal mezzo del golfo, e si perdano pel canale del Primorie cercando pastura; eglino dicono ancora che la pastura, di cui
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si compiacciono particolarmente, sono varie spezie d’ortiche marine, chiamate nel dialetto pescatorio klobuci, o sia cappelletti, che cacciate dal vento vengono galleggiando a quelle rive. Gli sgomberi e le sardelle gl’inseguono, mostrandosi avidissime di questi e d’altri animali gelatinosi congeneri, de’ quali gran varietà ritrovasi presa nelle reti sovente, ma che sono difficilissimi da osservare, perché fuor d’acqua scompongonsi facilmente e si dileguano. E anche cibo appetito da’ pesci emigranti l’insetto detto morska buba, o sia pulce marina, che rassomiglierebbe all’onisco assillo di Linneo, e trovasi nuotando a sciami pell’acque: come lo sono certe scolopendre lunghe poco più d’un pollice e mezzo, conosciute da’ pescatori sotto la generale denominazione di glistine, o sia vermi, e da taluno col nome di glistine stonoghe, cioè vermi da cento piedi. Questi poveri insetti in tempo di notte sogliono dare anche nell’acqua tranquilla una vivissima luce argentea, che dev’essere la loro rovina. Io ne ho veduto talvolta camminare ne’ luoghi di poco fondo con grandissima compiacenza mia nell’oscurità delle notti estive; e fu loro ventura che non fossi uno sgombero.
Oltre la pesca de’ due accennati generi, e le reti da tratta che vi si adoperano, altre reti soglionsi usare per far preda di ghìrize, o smaride, ignobile e picciolo pesce che s’insala a beneficio del minuto popolo, e per cogliere i muggini detti chiffle da’ pescatori. La pesca delle ghìrize è quasi d’ogni stagione; quella de’ muggini si suoi fare unicamente in autunno lungo i lidi del Primorie. Questi s’aggirano in occasione di gran pioggie, o di venti boreali intorno alle foci del fiume Narenta, dove vanno a far le ceremonie loro matrimoniali. I Primoriani escono con una sola barca equipaggiata di nove uomini alla pesca de’ muggini, che si fa di chiaro giorno; due sentinelle occupano qualche luogo eminente del lido per conoscere, dal movimento dell’acqua, da qual parte vengano gli stuoli, ed avvertirne quei della barca, da’ quali destramente sono calate le tratte ne’ siti e ne’ momenti opportuni. A questa pesca, che dura poco tempo, è spesso congiunta quasi per compenso una favorevole fortuna, per cui dopo poche ora di viaggio le barche ritornano cariche di preda. I muggini sogliono essere da’ Primoriani
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spaccati e messi in sale, come s’usa di fare a Comacchio: ma questi pesci sono più grandi in Dalmazia; i pescatori specialmente di Macarska n’estraggono le bottarghe, che seccate al sole conservansi lungamente, e riescono d’uno squisito sapore. I ghiotti le trovano più delicate che quelle del mar di Grecia, quantunque sieno molto minori di mole.
Non è facile il calcolare quanto pesce insalato metta in commercio annualmente il Primorie; questa materia è malissimo sistemata per tutta la Dalmazia, ed anche ne’ luoghi dove i risultati della pesca sono molto più degni di riflessione. Certa cosa è che i Macherani (quantunque, in premio della spontanea dedizione, abbiano molte esenzioni nel portare alla scala di Venezia i loro prodotti) si contentano pell’ordinario di vendere il salume agli stranieri. Pretendono d’essere stati addottrinati dalla sperienza, e d’aver trovato maggior vantaggio nel contrattare co’ mercatanti regnicoli o papalini, che co’ nostri. Da vent’anni in poi dicono che la pescagione è diminuita, e che appena si ritraggono dall’esercitarla profitti che compensino le spese. Io non crederei però che il pesce n’avesse colpa, e che meno abbondanza ne venisse in cerca dj pascolo pel canale del Primorie; quantunque anche questo possa esser vero, e forse sia da accusarne il deterioramento de’ fondi vicini ai lidi, ne’ quali precipitano coll’acque insieme, da’ monti spogliati di boschi, terre d’ingrato sapore e sterili ghiaie. Mi sembra però probabile che l’impoverimento generale e progressivo della popolazione dalmatina sia la principal cagione dell’infelicità delle pesche; l’impotenza fa scemare d’anno in anno il numero delle barche peschereccie, e per conseguenza va mancando il numero de’ pescatori coraggiosi che battano il mare e ne traggano ricche prede, anche nelle notti nuvolose, come altre volte facevano. Sarebbe necessario, non che utile, il promuovere con adattati incoraggimenti l’esercizio e la moltiplicazione di quest’arte, a segno che i pescatori s’incomodassero gli uni cogli altri. La marina nazionale vi guadagnerebbe moltissimo, lasciando anche da parte l’aumento del prodotto e i comodi di commercio che se ne potrebbono trarre. La vostra nobilissima nazione, Mylord, somministra un esempio luminoso dell’influenza
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dell’arte pescatoria nelle forze marittime. E vero che noi non abbiamo nell’Adriatico balene da combattere, né la gran quantità de’ pesci polari che inondano i mari del Nord: ma egli è vero altresì che la nostra navigazione non è ordinariamente diretta all’America, né alla China, e quindi il pescatore uso a battere il nostro mare in qualunque stato diviene attissimo marinaio pe’ bisogni che abbiamo.
De’ pesci inquilini erranti da per se soli, come a dire dentici, congri, orate, e simili, usano andar a caccia pur di notte con barche illuminate, e sono meravigliosamente destri nel coglierli colla foscina, ch’è una lunga lancia di legno armata all’estremità d’un pettine di ferro, che ha i denti fatti in foggia d’amo. I tonni, le palamide, le lizze, i pesci spada e i goffi non di raro si trovano anch’essi alle mense di Macarska.
Il delfino e i tursioni congeneri ad esso vagano liberamente per quelle acque; né vi fu sino ad ora chi abbia volto il pensiero a trar partito da questa picciola specie di cetacei del nostro mare. I pescatori dalmatini hanno una sorte d’amicizia e di gratitudine ai delfini, facendo loro un merito del cacciar il pesce alle barche illuminate, o sia che peschino colle tratte o colla foscina; in quest’ultimo caso i pescatori non mancano di gettare dalla barca al delfino qualche grosso pesce, come per dividere la preda con esso. S’io avessi avuto l’agio ed opportunità necessaria, mi sarei provato a far toccare con mano, a qualche pescatore men irragionevole degli altri, il danno che apportano questi animali voraci alla pescagione, e il vantaggio che dalle loro carni messe in sale e dal loro grasso squagliato può ricavarsi.
I vitelli marini rare volte si mostrano nel canale del Primorie, ma non infrequentemente si vedono presso le foci di Narenta. Eglino amano i fondi interrotti da scogli ed isolette, per uscire all’aria sovente; e quindi spesse volte se ne incontrano lungo le coste dell’Istria, e fra l’isole del Quarnaro. Gli abitanti del litorale attribuiscono a questo anfibio una grandissima propensione alle uve, e
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protestano asseverantemente che in tempo di notte egli esce a succhiare i grappoli pendenti dalle viti, nella stagione opportuna.
Tre sorte di pesci velenosi o dannosi trovansi sovente nelle reti de’ pescatori, il pesce colombo, detto xutuglia, o xutizza, pella giallezza del suo colore, ch’è la pastinaca marina, il pesce pauk, o ragno, e la scarpena, o pesce scorpione. Il veleno di questi tre pesci consiste nella puntura della spina che hanno sul capo, da cui diligentissimamente si guardano i pescatori. Se però ad onta delle precauzioni si trovano trafitti, alla ferita della scarpena applicano il fiele dell’animale medesimo, a quella del ragno e del colombo rimediano col fielebianco (dicon essi) della loligine, detta in loro dialetto quasi latinamente lighgnai, od oligagn. il migliore però di tutti i rimedi si è un forte strettoio alla parte affetta, e un taglio per cui scorra fuori il sangue avvelenato. La torpedine vi è comunissima, e si chiama trnak; l’irrigidimento del piede che la preme, o del braccio che la tocca, non suole aver mai lunga durata o conseguenze.
Le conchiglie di questo mare non sono gran cosa, né rispetto alla varietà loro, né rispetto alla bellezza. Le pinne, che in alcun luogo di fondo fangoso vi crescono sino all’altezza di due piedi, danno una cattiva sorta di perle di colore piombato, e quella spezie di seta di cui Voi avete veduto in Dalmazia de’ lavori. Un naturalista che volesse intieramente occuparsi di ricerche conchiliologiche e zoofitologiche, troverebbe però certamente ampio pascolo alla sua curiosità ne’ fondi dell’Adriatico, e potrebbe unire un gran numero d’osservazioni curiose; da che si può dire francamente che Marsigli e Donati appena sfiorarono questa messe vastissima. I lavori petrosi e legnosi de’ polipi deggiono essere moltiplicatissimi nelle profondità subacquee, e non di raro qualche pezzo di madrepore o di corallo dà fuori. La pesca di quest’ultimo genere è a’ dì nostri trattata con un po’ d’oscitanza255, perché forse qualche serie di combinazioni disfavorevoli ne ha disgustato il fermiere256.
255Negligenza.
256 Detentore dell’appalto delle imposte.
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§. 5. De’ luoghi abitati lungo il litorale del Primorie a ponente e a levante di Macarska
 
Dalla picciola villa di Brella, che sorge su d’un’altura in riva del mare presso la Vrullia, dove second’ogni probabilità il Pegunzio degli Antichi e la Brullia del Porfirogenito si dee cercare, incomincia il territorio di Macarska. I pochi terreni che dalle radici della montagna stendonsi lungo il mare, formando qualche striscia di litorale piano, e le colline contigue sono assai mal coltivate; buona parte di esse giace abbandonata al pascolo degli animali, quantunque fosse ragionevole cosa il ridurre a vigne tutto quel tratto. La nudezza però della montagna superiore giustifica l’uso delle terre litorali. A onta delle troppo frequenti visite di borea, tutto il Primorie macherano è attissimo a portare ulivi e viti e frutta gentili; queste ultime vi si vanno introducendo sull’esempio de’ Poglizani, che ne coltivano lungo il loro litorale con felicità e ne fanno un commercio lucroso, quantunque non sieno peranche arrivati a migliorare le spezie col mezzo degl’innesti. Vi fanno eccellente riuscita le marasche, spezie di ciriegie, dal nocciuolo delle quali particolarmente si dà il sapore al rosolio conosciuto sotto il nome di maraschino, di cui molte fabbriche esistono in Dalmazia, e a Zara principalmente una d’assai rinomata presso i signori Carseniga.
Oltre gli ulivi e le viti, i più considerabili prodotti degli alberi fruttiferi sono in quel distretto i fichi e le mandorle. La coltura delle due prime spezie non vi è generalmente ben intesa: si trovano nel medesimo picciolo podere alla rinfusa ulivi, fichi e mandorli in mezzo alle viti, queste sono piantate in distanza di due piedi l’una dall’altra, e si lasciano vagare per terra co’ sarmenti. Il prodotto annuo delle vigne non ascende a rendita media sino al quattro per cento, computando le spese che vi si richiedono. L’età della vite è di trent’anni al più: ma l’associazione
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de’ tanti alberi che succhiano il terreno medesimo fa che la vecchiaia loro si scopra assai presto, e tanto più quanto che il paese manca di concimi, in conseguenza del metodo barbaro di lasciar vagare gli animali anche in tempo di notte, e dell’aver pochissimo foraggio. Al finire delle viti d’un podere riesce svantaggioso il ripiantarne fra l’ombra; né dall’altro canto l’interesse consiglia che si sradichino gli alberi fruttiferi, il partito cui prendono in questo caso i Primoriani si è di seminare quelle terre, nel che spendono sudore e tempo fuor di proporzione col raccolto, quantunque i loro aratri adattati alla picciolezza de’ buoi poco si profondino nel campo. Questi vizi d’agricoltura convengono poco più poco meno a tutta la provincia, ed in conseguenza di essi il popoio, dopo d’essersi ben affaticato, trovasi ridotto a vivere di radici salvatiche per qualche mese, mancando d’ogni altro alimento.
Tutte le villette del Primorie sono ben situate, e godono d’ottim’aria e di buon’acqua. Bast, ch’è fabbricata su d’una collina, attinge a una fonte vicina al mare, che dà il nome di Baska-Voda ad un picciolo gruppo di case litorali. Colà si traggono di sotterra iscrizioni ed altre pietre lavorate anticamente. Un pilastro, ch’eravi stato trovato di fresco, mi somministrò materie d’osservazione. Egli è di pietra calcarea composta di frantumi marini, e particolarmente di petrobri e spine, o croste d’echini lapidefatte; un fluore bituminoso, che vi si è insinuato probabilmente prima del suo induramento, le ha dato un colore grigio fosco. Coloro che trassero di sotterra il pilastro, nel percuoter colle zappe, sentirono alzarsi un forte odore di pece; quindi mi condussero a vederlo come una curiosità. Io ne feci staccare parecchie scheggie che nell’atto di separarsi diedero una fortissima graveolenza, ed attualmente ancora la cacciano fuori, allorché voglio confricarle l’una contro l’altra.
Le colline di Bast fiancheggiano le radici del Biocova, e prolungandosi passano dietro alla città di Macarska sempre appoggiate alla montagna. Su d’esse veggonsi i casali di Velo-berdo, di Macar, di Cotisina, dai due ultimi de’ quali scendono piccioli rivoletti di buon’acqua, che dopo breve viaggio mettono in mare. Le carte
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della Dalmazia confondono in questi contorni tutte le posizioni, e stroppiano i nomi de’ luoghi così stranamente, che lunga e noiosa cosa sarebbe il parlarne in dettaglio; sarà più agevole per Voi di farne il confronto colla mia carta topografica rettificata, per così dire, a palmo a palmo lungo quel litorale.
Nel tenere della picciola villetta di Tucepi sul mare abitava, in un delizioso casino fabbricato col gusto de’ nostri della Brenta, il conte abate Grubbisich, dotto ed utile ed ospitale filosofo, della di cui morte immatura sarò maisempre dolentissimo. Egli avea concepito il progetto di riformare col proprio esempio la malintesa agricoltura de’ Primoriani; e vi sarebbe infallibilmente riuscito, se avesse avuto lunghezza di vita proporzionata al suo merito. Il conte Grubbisich avea incominciato dallo studiare il clima dei paese e l’indole de’ terreni: e in conseguenza di lunghe e ragionate osservazioni s’era determinato ad un nuovo piano di coltivazione. Le viti de’ di lui poderi a Tucepi sul pendio delle colline erano alzate da terra tre piedi, e legate a picciole pertiche e pali longitudinalmente, in guisa di siepi piantate a traverso del vento dominante, ch’è il grand’obbietto alle piantagioni elevate in quella contrada. Fra l’una e l’altra siepe restavano convenienti spazi per le seminagioni, onde si traessero ad un tempo due prodotti dallo stesso terreno, senza spossarlo. Le uve maturavano meglio, erano più abbondanti e di miglior qualità; le viti potate alla maniera de’ colli d’Italia promettevano più lunga vita. Gli alberi da frutto e i mori veggonsi disposti anch’essi intorno a’ campi coltivati, per modo che non gl’ingombrino incomodando i seminati o le viti. Studiavasi poi particolarmente il riflessivo uomo di piantare gli ulivi lungo i sentieri, dopo che aveva osservato una differenza notabilissima fra gli alberi di questa spezie piantati nel centro de’ poderi, e quelli che trovansi vicini a’ luoghi di passaggio, ne’ quali riescono più fruttiferi e meno soggetti all’aridezza. Le muraglie a secco, dalle quali sono sostenuti i terreni di Tucepi, somigliano alle meglio intese de’ Toscani e de’ Vicentini, dai quali il Conte abate avea preso anche l’aratro da monte con quattro ruote e tirato da quattro
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buoi, che non si usava da’ Primo nani avvezzi a graffiare la terra con un leggierissimo aratro senza ruote, e tirato da due piccioli animali.
Per mettere le sue sperienze al coperto da ogni eccezione, egli avea scelto il luogo più dominato dal vento, il più soggetto agli altri incomodi del clima, e del più laborioso fondo; sapendo benissimo che de’ tentativi fatti in luoghi vicini all’acque, coperti da’ venti e di terreno pastoso, non si suoi dare il merito all’intelligenza del coltivatore se riescano bene, ma solo alle favorevoli circostanze. Il saggio amico mio avrebbe voluto che la georgica fosse trattata piuttosto per via di fatto dai possessori di terreni, che per deduzioni e congetture e compilazioni da gente che non ha un campo in proprio; quindi egli era poco divoto de’ fogli periodici che trattano di questa materia; delle sperienze poi non faceva il menomo conto, se le non erano fatte all’aperto. Secondo il di lui modo di pensare, come non si dovrebbono scegliere pegli usi medicinali le piante alpine trasportate in un giardino botanico, a preferenza di quelle che si colgono su’ monti, così non si dovrebbe far caso delle prove eseguite ne’ terreni chiusi, preparati, irrigati, se non dopo d’averle vedute riuscjre nelle vaste tenute o su i monti.
Le colline del Primorie sono in parte sassose, e in parte coltivabili; è però necessario usare dell’industria e della fatica per ridurre queste ultime, che non sempre sono naturalmente docili. Oltre alle terre cretose e argillose che s’incontrano in istato trattabile, v’hanno degli strati della natura medesima, semipetrosi, ne’ quali scavando, dopo che le glebe hanno sofferto l’azione delle pioggie e del sole per qualche tempo, si ritrae un fondo buono per le viti, ma che non è punto atto a nodrire ulivi, né a produr grano. Questa spezie di terra, che sciogliesi in minime parti romboidali, è detta bigar da’ Primoriani. Le crete azzurrognole sono talvolta mescolate con minutissima sabbia di torrenti, o con terre bianchiccie provenienti dalla dissoluzione di marmi calcarei, ed in quel caso portano sufficiente raccolta di grani, purché la secchezza della state non le renda sterili. La pietra dominante in queste colline è la cote, detta brusniza dagli abitanti, nella quale talvolta si scoprono frantumi di corpi marini, e talvolta no. E
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osservabile la qualità di questa pietra, che al di fuori per lo più è rugginosa e nell’interno quasi sempre azzurra; coloro che deggiono fabbricare in riva del mare, la scelgono a preferenza d’ogni altra pelle fondamenta. Vi si trovano anche degli strati d’alberese e varie paste di marmi, fra’ quali un banco di nobilissima breccia rossa ne’ poderi de’ conti Grubbisich. Rimontando i letti de’ torrenti vicini al delizioso casino, dov’io era alloggiato fra’ libri dell’ottimo amico, io raccolsi parecchie varietà di pietre aggregate. Le fenditure fatte da quelle acque eventuali non sono così profondamente scavate, che si possa trarne idee precise dell’interna struttura de’ colli, per lo pendio de’ quali si fanno strada, essendo pell’ordinario gli alvei loro fiancheggiati da materie più anticamente trasportate dall’alto della montagna, prima che gli uomini vi fissassero un cammino costante ai torrenti. Presso la chiesa della Madonna di Tucepi io ho raccolto una spezie curiosissima di marmo bianco, tutto scritto di lineette serpeggianti, rosse, che corrono quasi sempre regolarmente colla medesima direzione.
Vicino a questa chiesa campestre, ch’è circondata dal suo bosco sacro, trovansi molte sepolture antiche slavoniche, senza iscrizione alcuna, ma con vari bassorilievi. La lapida d’una di queste ha un guerriero stranamente vestito, che porta in capo una spezie di berretto, sul quale s’alza un cono acutissimo; al qual ornamento forse è appoggiata la tradizione, che sotto di quella pietra sieno state sepolte le interiora d’un Doge di Venezia morto in guerra contro i Narentani. Questo Doge potrebb’essere stato Pietro Candiano257, che morì in una spedizione narentana vicino ad un luogo detto Miculo. La sepoltura, però, ch’io ho fatto disegnare per curiosità, mostra d’essere slavonica, ed è anche slavonico il berretto acuminato, come si vede in un sigillo pendente da un diploma del re Dabiscia, che dee trovarsi fra le carte del mio amico defunto.
Nel tenere della villa di Tucepi sono state trovate delle iscrizioni romane e greche, le quali passarono in Italia. E probabile che nella contrada detta Javorac fosse il Laurentum di Procopio, dacché il significato delle due voci indica
257Doge di Venezia per soli sei mesi, nell’887. Intraprese una guerra contro i Narentani che pretendevano tributi sul transito delle navi, durante la quale morì.
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egualmente luogo piantato di lauri. Le caverne naturali sono comunissime in que’ contorni, e se ne trovano anche quasi in ogni villa di fortificate con muraglie, e talvolta con piccioli castellucci di secoli e architettura barbara. E probabile che ne’ più rimoti tempi servissero di ritiro ai pirati, come ne’ più vicini a noi servirono di ricovero agli abitanti spaventati dalle ruberie degli Uscocchi.
Tre fonti submarine si veggono presso il litorale di Tucepi, a’ quali senz’alcun dubbio somministrano acque i gran serbatoi che sono al di là della montagna, o alcuno di que’ fiumi che non potendo venirsene al mare si sprofondano nelle voragini. Uno di questi tre fonti è detto Smerdegliac, cioè puzzolente, pel fetore (che ai dire degli abitanti) suoi tramandare; le terre vicine sono chiamate Pakline, o sia luoghi abbondanti di pece. Dicono che il fetore della fonte non è costante, nel che fa d’uopo distare alla loro asserzione.
E fatto di verità che non sempre il fonte Smerdegliac si vede gorgogliare, mettendo in movimento la superficie del mare; egli suole starsi cheto qualche giorno, ma non di raro anche nel dì medesimo si fa replicatamente vedere, e sparisce. Le pioggie copiose al di là della montagna, e gli anfratti sotterranei, pe’ quali deggiono farsi luogo le acque assorbite dalle voragini per venir al mare, saranno peravventura le ragioni di queste incostanze; il fetore poi di bitume chi sa che non venga da qualche accensione, o fermentazione sotterranea, ora più, ora meno violenta?
In poca distanza da Tucepi sorge su d’una collina la villa di Podgora, che domina un bellissimo tratto di litorale, il più fertile e coltivato di que’ contorni. Il picciolo promontorio di Dracevaz, che sporge in mare nel tenere di questa villa, merita d’essere osservato. Gli strati superiori che lo formano sono di breccia, gl’inferiori composti di cote hanno de’ filoni fabbricati di pezzi cubici e disposti a foggia di muraglia. Due di queste muraglie sporgono in fuori, racchiudendo una spezie di terrapieno nel mezzo; gli ordini de’ pezzi cubici è inclinato verso il mare. Sotto Podgora nasce un ruscello, che nell’atto di finire il suo brevissimo corso fa girare de’ mulini a Jarìchine. Forse da questa picciola acqua, indiscretamente
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marcata su qualche carta corografica, prese motivo il Cantelio di segnare fra Podgora e Drafnize un fiume, che scende dalle vicinanze d’Imoski, d’onde non è possibile che l’acque volino al disopra del Biocova.
È ben probabile cl-le di là venga la fonte submarina chiamata Vrugliza, o Mala Vrullia, che nel vallone contiguo a Drasnize si fa vedere. Ella sorge con impeto appié d’una ripida falda di monte, dal fondo del mare che in quel sito è considerabile, e chiama a se un gran numero di pesci.
Noi discesimo a Drasnize per vedervi una lapida romana che vi debb’essere, ma che dallo scortese curato del luogo ci fu tenuta nascosa, pelle solite ragioni di sospetto e d’ignoranza che mutano in quelle contrade a danno del forastiere. Fu d’uopo contentarci di ricopiare due iscrizioni slavoniche, l’una pella singolarità di qualche carattere, l’altra perché indica l’epoca d’un passaggio dell’herceg Stefano per quei paese.
È celebre in Primorie l’acqua d’una picciola fonte, che scaturisce da un masso elevato poco lontano dalla chiesa di Drasnize, e scorrendo giù pella rupe portasi al mare, dopo poche braccia di viaggio. Dicono ch’ella sia tanto leggiera e perfetta quanto quella di Nocera; e vi fu chi ne conservò per molti anni in fiaschi senza che si guastasse; nella loro semplice medicina quegli abitanti ne fanno uso frequente e fortunato. Ell’ha veramente le qualità volute da Ippocrate, ed è κουφοτάτη, καί γλυχυτάτη, καί λεπτοτάτη, καί λαμπροτάτη.
Sarebbe da farne de’ confronti più precisi per la via dell’analisi, e delle sperienze replicate ne’ nostri spedali; da che anche l’articolo dell’acqua di Nocera porta fuori dello stato una somma di denaro non affatto spregevole. E vero che questo nome d’acqua di Dalmazia durerebbe qualche fatica a venir in moda: ma l’appoggio d’un qualche barbassoro258 in medicina potrebbe operare anche questo miracolo sollecitamente.
Vicino a questa fonte io ho raccolto de’ pezzi erranti di marmo finissimo statuario, visibilmente staccati da strati superiori non molto lontani dal mare, e un marmo
258Persona di grande autorevolezza, reale o presunta.
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rosso gentile d’unitissima e fina grana, degno d’essere impiegato in qualunque ornamento di sacri luoghi, o di nobili stanzea. Se il viaggiatore naturalista avesse sempre i modi necessari per riportare alla patria delle prove parlanti dell’utilità delle sue osservazioni, io sarei ritornato a Venezia con tavole, o pezzi de’ più bei marmi litorali, che avessero potuto innamorare delle produzioni nostrali di questo genere gli scultori e gli scalpellini. Avrei voluto anche portare una buona quantità dell’acqua di Drasnize, in adattati vasi custodita, perché i dotti e onesti medici nostri ne facessero gli esami e le sperienze opportune. Ma non essendo possibile con privati appoggi di far tutto ciò che anderebbe fatto, io mi dovetti contentare di dar indicazioni d’utili ritrovati, lasciando al tempo e alle combinazioni fortunate la cura di far il resto.
Non molto lontano dalla fonte di Drasnize havvi una cappella dedicata a s. Rocco, dove per lungo tempo fu onorato un bassorilievo antico, che poi passò a Venezia non ha molti anni. Egli rappresenta un satiro mezzo coperto d’un mantello di pelle di capra, col suo bastone in mano, e ‘l cane dappresso; qualche parte del di lui corpo è da Custode d’orti259. Una inferriata che gli era stata posta dinanzi difendealo dalle mani troppo profane, ma non impediva che le buone donne e le fanciulle del vicinato vi avessero una gran divozione, come a una rappresentazione di s. Rocco. Fu questo sconvenevole oggetto di superstizione levato di notte dalla sua nicchia: il popolo di Drasnize ebbe a sollevarsi quando se n’avvide, ed appena fu tenuto in dovere dall’aver rilevato che il preteso santo era stato asportato per comando d’una rispettabile magistratura.
Quasi tutte le ville del Primorie hanno delle fonti di buon’acqua, e parecchie di queste godono molta riputazione di salubrità. Questo titolo non si avrebbe potuto negare alle fonte di Xivogoschie, in di cui lode stanno scolpiti nel vivo della rupe sul mare i due epigrammi accennati più addietro, uno de’ quali la chiama
aCalcareus micans, ruber, Waller., § 41.2 (c), ed anche Calcareus aequabil:s, incarnatus, Waller,, § 41.1 (c).
259Il custos hortorum è una delle tradizionali raffigurazioni di Priapo. L’iconografia lo rappresenta come sommariamente vestito, o nudo, con accentuate caratteristiche sessuali, una roncola in mano e canne sul capo, per spaventare gli uccelli.
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salutifera: ma da quel sito non iscaturisce più acqua. Rimane però ancora una fonte perenne alla villa, e trovasi un po’ più addentro sul pendio della collina, presso al convento de’ buoni cortesi padri Minori osservanti. Così ha la sua acqua sorgente Dervenich, dove anticamente fu un castello di cui veggonsi tuttora le muraglie rovinose, e dove ricopiò un’antica iscrizione slavonica, in carattere cirilliano compostissimo, l’amico mio conte Grubbisich. Non molto lungi da questo castello trovasi a sinistra del cammino della montagna una gran pietra sepolcrale in piedi, piantata su d’una base proporzionata, adorna di addentellature gotiche tutto all’intorno e d’un bassorilievo nel mezzo, in cui si veggono varie figure rozzamente disegnate, e fra le altre quella d’un guerriero che uccide una belva. Questa sepolcrale isolata, contro l’uso delle altre slavoniche, appartiene all’antica famiglia Costagnich, attualmente stabilita in Macarska. A poco più d’un miglio da Dervenigh trovasi Zaostrog, ch’è ‘l 'Рασώτξα del Porfirogenito, dove si veggono due iscrizioni romane nella chiesa di s. Barbara. Al lido del mare v’è un convento di Minori osservanti che, nella fabbrica della chiesa loro fatta di fresco, impiegarono una quantità grandissima di lapide antiche, dalle quali ebbero l’attenzione di scancellare i caratteri. Eglino le raccolsero da’ vicini luoghi, e dalle rovine di Narenta in particolare; e chi sa di quante belle memorie dobbiamo la perdita al loro zelo! Lungo il lido di Zaostrog, ch’è importuoso e battuto da tutti i venti, io ho raccolto de’ pezzi di stalattite cretaceo, fluviatile, con impressioni di foglie d’amo, similissimo a quello che trovasi presso Roma alle falde del monte Pincio, dove altre volte corse peravventura il Tevere. Vi si trovano anche erranti pella ghiaia ricacciata su dal mare, e portata originariamente da’ torrenti montani, molti pezzi di pietra bituminosa, scissile, di sottili lamine parallele, di grana impalpabile, fetidissima nella confricazione, e che corrisponde perfettamente alla pietra porcina de’ naturalistia, e non male somiglia al bitume marmoreo, compatto, fetido, del Linneo. La superficie esteriore de’ pezzi esposti
aCalcareus fissilis, unicolor, fuscus, Wall.; Schistus fusco-cinereus, lapis foetidus dictus, Dacosta 170, 9; Lapis fuilli particulis granulatis (piuttosto impalpabilibus), Cronst. 23; Bitumen marmoreum, foetidum, compactum, Linn.
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all’aria è cenerognola, e conviene colla descrizione del Davosta260: ma l’interno è nero. Lungo il lido medesimo ho raccolto delle nummali lapidefatte.
Da Zaostrog alle foci del fiume Narenta trovansi alle radici della montagna i casali di Brist e Lapagn; e dietro al promontorio fra terra deesi aggiungere alle migliori carte il lago di Bachina. i monti che lo circondano sono più aspri e sassosi che ‘1 resto del Primorie: ma nulladimeno furono abitati anticamente più di quello lo sieno adesso. Il rovinoso castello di Gradaz e il sepoicreto di Slavinaz, dove probabilmente fu la Labienitza del Porfirogenito, ne fanno buona testimonianza. Dicesi che il Bachinsko-Blato, o sia lago paludoso di Bachina, oltre alle anguille che gli sono comuni cogli altri laghi di quelle contrade, abbia de’ pesci propri: ma sarebbe d’uopo pescarvi replicatamente per assicurarsene.
 
§. 6. Delle voragini di Coccorich; de’ laghi di Rastok, di Jezero, di Desna; e del fiume Trebisat
 
Dal convento di Zaostrog volli portarmi a vedere il lago temporario261 di Rastok, dal quale avea letto in vari geografi che nasce il fiume Norin, asserzione a cui gli abitanti del Primorie non s’accordavano. Presi la strada di Dervenich per costeggiare il Biocova a cavallo: ma non fu possibile di proseguire il viaggio così comodamente. I sentieri della più alta parte del monte passano sovente fra massi dirupati, e talora sono al margine di qualche precipizio. Varcata la cima del Biocova, proseguii il mio cammino parte a piedi, parte in sella, preceduto dalle scorte che ‘l cortese vojvoda Pervan di Coccorich m’aveva mandate. Il cammino de’ pedoni morlacchi da Zaostrog a questa villa interna è di cinque brevi miglia: ma eglino vanno con meravigliosa destrezza aggrappandosi su le balze più ripide, e si
260Manuel Mendes de Costa, naturalista di origine portoghese, nato a Londra nel 1717, membro della Royal Society, Scrisse una Natural History of fossiles (1757), e successivamente una Historia naturalis testaceorum Britanniae (1778).
261Soggetto a variazioni.
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calano agilmente da’ più scoscesi greppi, dove parrebbe che gli uccelli soltanto potessero far viaggio. Io impiegai sei grosse ore nel varcare la montagna per la strada de’ quadrupedi; e giunsi finalmente all’albergo del buon vojvoda, che mi ricevette con una cordialità sincera. Le case di questo galantuomo sono fabbricate in forma di torre alla turchesca; io ebbi una torre appartata, dalla quale passava a pranzo e a cena in quella della famiglia. La moglie e la nuora del mio albergatore comparivano a baciarmi la mano allorch’io entrava, e non si vedeano più sino al momento del mio uscire dopo mangiato. Le fanciulle di casa metteansi alle fessure delle porte per guardare me e il mio disegnatore come due strani animali, sì nel vestito che nelle maniere. A tavola sedeva con noi l’onorato vecchio, e le vivande preparate alla turchesca erano portate dal di lui figlio. Questo vojvoda è ragguardevole personaggio nel picciolo paese, ed ha veramente de’ talenti, senza che gli si sieno sviluppati nelle città; in gioventù compose molte poesie amorose ed eroiche.
Egli mi parlò d’alcune voragini, dalle quali esce talvolta in tempo d’autunno e di primavera l’acqua con estrema violenza, e in così grand’abbondanza che la valle di Coccorich, che avrà tre buone miglia di lunghezza, trovasi cangiata nello spazio di pochi giorni in un profondissimo lago. Le case del Pervan sono piantate sul dorso d’una collina, di modo che fa d’uopo discendere per un considerabile tratto prima di trovarsi al basso della valle; ma ad onta di questa elevatezza, l’acqua s’alzò in una notte all’improvviso, così straordinariamente che guadagnò il secondo piano della torre in cui abitava il buon vecchio, al quale poco mancò che non impedisse l’uscire dalla porta che dà su la scala di fuori. Io volli andar a vedere una o due di queste voragini, che si somigliano tutte. I cespugli che le circondano sono vestiti di muschi e conserve262 annerite, il che dà loro un aspetto triste. La maggiore ha venti pié di diametro nell’apertura, e centoventi di profondità; nei fondo v’è sempre acqua, e parecchi anni sono, v’ebbe chi volle assicurarsi della quantità e del livello di essa. Si trovarono dodici piedi d’acqua, il
262Antico termine botanico che designa varie specie di piante d'acqua dolce.
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di cui livello corrispondeva a quello del lago di Jezero poche miglia lontano. Dopo le gran pioggie nell’interno della Bossina queste voragini, o jame, come gli Slavi dicono, gettano colonne d’acqua sino all’altezza di venti piedi. In quindici giorni il lago di Coccorich suoi arrivare alla massima altezza, che qualche volta eccede all’improvviso le solite misure per nuove pioggie, o squagliamenti di nevi nel paese interiore; nel tempo di due mesi la campagna resta a secco. Una grandissima quantità di pesce sorge dalle viscere della terra insieme con queste fonti gigantesche; ed al calare dell’acque gli abitanti ne pigliano assai colle nasse, o con reti adattate alla bocca delle voragini. Il poco fondo di terreno che ha la valle di Coccorich fa che non vi resti aria cattiva, dopo il risprofondamento delle acque.
Un breve miglio lontano dalle case del vojvoda trovasi una miniera di pissasfalto similissima identicamente a quella di Bua. I Turchi vi lavorarono, per quanto si vede, innanzi che l’armi venete occupassero questo paese: ma non sembra che se ne possa ritrarre molto profitto, a cagione della sua distanza dal mare, e della scabrosità del cammino. L’impasto del marmo, che forma la superficie esteriore de’ monti di Coccorich e di Vergoraz, è alternativamente brecciato e pieno or di corpi ceratomorfi, ora di lenticolari e nummali. Vergoraz è una cattiva rocca che copriva in altri tempi un borgo ben popolato da’ Turchi, perché, ad onta della montagna intermedia, passava come luogo opportuno al commercio e a portata del mare; adesso è un aggregato di macerie popolato da poche e povere famiglie. Le campagne dominate dal monte di Vergoraz sono tutte soggette all’acqua, il che riduce sovente gli abitanti all’inedia, e per conseguenza alla necessità di rubare, o di lavorare su le terre turchesche. Un soprintendente vi amministra la picciola giustizia, e suoi essere della famiglia Furiosi d’Almissa, che ha principalmente contribuito alla presa di questo luogo. Al pié di Vergoraz giace la valle di Rastok, pianissima ed assai ragionevolmente estesa in lunghezza e in larghezza; quella parte che s’insinua fra la giogana di Vergoraz e gli aspri colli del confine ottomano, è attraversata da un ramo del fiume Trebisat, che invece di portarsi verso levante devia per un cammino totalmente opposto, e viene ad incontrare le radici de’
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monti laddove formano un arco. Trovando l’opposizione di essi e le ghiaie d’un torrente eventuale, il picciolo Trebisat gira a sinistra, ma invece di ritornare verso il naturale suo corso, dividesi in più rami, e si sprofonda in parecchie voragini che stanno aperte in quella pianura. Nel tempo ch’io mi vi portai, le acque che sogliono riempiere la campagna di Rastok, e farne un lago incostante, se n’erano tutte partite; quindi potei esaminare davvicino il fiume, che si sprofondava in vari luoghi. I Vergorzani hanno fatto de’ ripari di muro a secco nelle bocche delle voragini di Rastok, e adattano all’aperture che vi restano delle nasse, per prendere il pesce che anderebbe a nascondersi sotterra. E' dimostrato che la sconsigliata avidità d’ottenere questo picciolo vantaggio pescatorio facilita l’otturamento di questi scoli, e quindi ritarda l’asciuga mento de’ campi allagati, con gravissimo danno della popolazione di Vergoraz. Dove se ne vada per le vie tenebrose delle caverne il ramo sobbissato del Trebisat, io noi saprei dire; ma forse non hanno ragione quelli che lo mandano a far nascere il fiume Norin, venti buone miglia lontano, senza nemmeno avvertirci che le acque fanno questo viaggio per vie sotterranee. Così trovo ne’ Prolegomeni del Farlati un’altra falsa asserzione risguardante il fiume Lika, che fa uno scherzo simile a questo del Trebisat. Il dotto autore lo fa metter in mare presso Carlobago; mentre è di fatto che il fiume Lika, nato presso Graaz, si perde sprofondandosi appié della montagna morlacca nella valle di Cozigne, una giornata lontano dal mare, come il fiumicello Gaschiza, o Guschiza dopo d’esser passato sotto Ottoaz cade in buche voraginose a Suizza. E ben vero che si dice alcuni vasi di legno, portati via dal fiume a Suizza, si sieno trovati in mare presso alla villa di S. Giorgio sul Canale della Morlacca, dove sono delle fonti submarine, come si vuole che le sorgenti pur submarine presso Starigrad vengano dallo sprofondato fiume Lika; ma ciò non pertanto un geografo ha il torto di segnare le foci de’ fiumi in sì fatti luoghi. Anche il Cantelio potrebbe aver a questo modo ragione di metter le foci di due fiumi, provenienti dai laghi di Prolosaz e d’Imoski, là dove le due Vrullie si
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fanno vedere in mare; quantunque fra i laghi e le Vrullie v’abbiano venti miglia di monti intermedi.
La catena dei colli aspri di Vergoraz stendesi verso levante sino alle fonti del Norin, e divide le campagne turchesche di Gliubuski dai laghi di Jesero, Jeseraz, Delna e Bachinsko-Blato. Il primo di questi ch’io ho visitato, stendesi per dieci buone miglia in lunghezza, ed è sparso di piccioli scoglietti ed isole coperte di bosco, che danno uno spettacolo delizioso a chi le osserva dall’alto. Tutto il circondano del Jezero è montuoso; io lo vidi dal Prologh, dove fui a ricopiare delle iscrizioni slave. L’acqua di questo lago, ch’è detto Jezero per eccellenza, come il maggiore di que’ contorni, è purissima e limpida. In alcuni luoghi si vedono nel fondo delle rovine di case: il che potrebbe accreditare ciò che ne raccontano gli abitanti vicini, vale a dire che ne’ tempi andati quel lago era una campagna coltivabile, le di cui acque scolavano per voragini, o jame sotterranee, otturate da’ Turchi nell’abbandonare il paese. Gli resta però ancora un’uscita verso mezzogiorno, dove s’insinua nella caverna di Czernivir; e, per quanto dice quella gente, dopo un viaggio coperto di due miglia, forma il lago di Desna, poi si scarica nel Canal nero, che mette foce nel fiume Narenta due miglia lontano dal mare. Il lago di Jezero s’asciuga pur qualche volta, e presenta pinguissimi terreni ai coltivatori morlacchi, che ne profittano alla loro maniera, come sogliono fare anche della campagna di Rastok, quando resta libera dalle acque in istagione opportuna. Jeseraz è un laghetto, come appunto il suo nome lo indica, il quale ha poco fondo e quindi resta asciutto quasi ogni anno, quando però le pioggie non sieno state strabocchevoli.
Il paese che giace fra Vergoraz, le paludi narentine e il mare, generalmente parlando, è poco atto a coltura, perché alternativamente coperto d’acqua e di sassosissimi monti: ma sono ben altra cosa le campagne irrigate dal Trebisat al di là del nostro confine. La poca cura però che ne hanno i Turchi fa che sieno gran parte dell’anno inondate; quel fiume non ha veruna sorte d’argini, anzi tratto tratto incontra degl’intoppi nel bel mezzo della pianura. Le acque del Trebisat sono tartarose; e ne’ luoghi dov’egli spandesi, sovente lo strato esteriore del
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terreno è composto di picciole pagliuzze, frammenti d’erbe e neriti intonacate di tofo cretaceo. Io ne ho raccolto per curiosità, nel mentre che le mie guide si ristoravano mangiando. Lungo questo fiume hannovi de’ gran tratti di macchia, per mezzo alla quale passa l’antica via militare, che manteneva la communicazione fra Salona e Narona. Io vi discesi per esaminare alcuni monumenti antichi slavonici d’un sepolcreto che vi si trova: ma non potei cercarvi iscrizioni, sì perché la macchia era oltremodo fitta, sì perché le mie guide non mi assicuravano che i Turchi, de’ quali poteva sopravvenire qualche brigata, guardassero senza sospetto la mia curiosità. La maggior parte delle sepolture sono enormi pezzi di marmo, somiglianti a quelli su’ quali ebbi l’onore di pranzare in compagnia vostra, poco lontano dalle fonti di Cettina, colla numerosa compagnia de’ nostri buoni Morlacchi. I bassorilievi del sepolcreto, che giace lungo le rive del Trebisat nel bosco, sono però assai più curiosi che quelli di Vrilo-Cettine.
 
§. 7. De’ fiumi Norin e Narenta, e della pianura allagata da essi
 
Verso la fine della faticosa giornata mi trovai rientrato nell’angolo del confine veneziano, che passa fra gli aspri colli marmorei, da pié de’ quali scaturisce il fiume Norin abbandonato a se stesso sin dalle sorgenti, e che impaluda quindi un vasto tratto di campagna ingombrato di canne, di salci e d’ami spontanei. Picciolo spazio di terreno rimane asciutto fra le radici de’ colli e la palude, nel luogo chiamato Prud: ed egli è tutto seminato di pietrame antico riquadrato, di frammenti d’iscrizioni, di colonne rotte, di capitelli, di bassorilievi d’ottima età, stritolati, per così dire, e deformati dal tempo e dalla barbarie de’ popoli settentrionali, che di là incominciarono a distruggere Narona. Gli abitanti, che vanno a tagliar canne sovente nella palude, assicurano che sott’acqua vi si veggono ancora vestigi della vasta città. Ella dovette stendersi chi sa quanto nella
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pianura, e certamente più di tre miglia in lunghezza appié de’ monti. Il cammino antico è sommerso: e noi dovemmo salire per una strada dirupata onde varcare la punta del colle asprissimo, su di cui sorgevano probabilmente, prima de’ tempi romani, le fortificazioni che dierono tanto da sudare a Vatinio. Lungo quel sentiere si vedono nelle rupi le traccie d’antiche iscrizioni, che vi furono scolpite. La povera villa di Vido è adesso nel luogo dov’erano i tempi, e i palagi de’ Romani conquistatori; vi si riconoscono gran vestigi di bagni, d’acquedotti, di nobili edifici, di mura; e i miserabili alloggi di que’ Morlacchi che v’abitano sono tutti fabbricati di bel pietrame antico. Poche lapide vi restano sopra terra attualmente, essendone stata trasportata una gran quantità in Italia per adornarne i musei degli amatori. Io ve ne ho ricopiato due sole: ma è probabile che ve ne sieno dell’altre ricopiabili, a]Ie quali la maliziosa pigrizia di quegli abitanti non mi avrà voluto condurre. Della formidabile popolazione di pirati che, nell’età di mezzo, dominava in questo paese, e che finalmente dopo lunghissime guerre fu da’ Veneziani estirpata, non rimane monumento veruno. Sarebbe forse stato inutile il cercarne, anche se avessero occupato un luogo difeso dalle inondazioni, imperocché que’ rapaci corsari probabilmente saranno stati privi d’arti, e disprezzatori de’ posteri, come degli antenati loro.
Alcuni geografi, fra’ quali il signor Busching, dicono che l’antica Narona sorgeva precisamente su1 colle dove ora è Citluc, picciolo luogo fortificato, e posseduto da’ Turchi; ma il fatto prova in contrario. Citluc è intorno a Otto miglia lontano dalle rovine di Narona: e se v’hanno delle pietre antiche impiegate nel fabbricarlo, si dee credere che vi sieno state trasportate da Vido. La Martiniere263 e vari autori di carte segnano col nome di Narenta una città che non esiste. li Norin dopo il breve corso di sei miglia mette nel fiume Narenta, detto dal solo Porfirogenito Oronzio, che ingrossato dalle di lui acque, e da quelle che dai monti di Xaxabie concorrono
263Antoine A. Bruzen de la Martinier (1683-1749) poligrafo: autore di trattati geografici, storici e letterari di carattere divulgativo. La sua opera maggiore, per la quale è citato anche da Fortis, è costituita dai dieci tomi de Le grand dictionnaire géographique et critique (La Haye, 1726-30), pubblicata successivamente anche a Venezia.
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ad ingrandirlo, allargasi in forma di lago, indi facendo due gran rami prende in mezzo l’isola d’Opus, tre miglia più sotto. Le acque della Narenta sono salmastre intorno a quest’isola, e non di raro l’amarezza marina rimonta sino a dodici miglia fra terra, e va al di là delle foci del Norin. Gli abitanti bevono però indifferentemente queste acque, dal che forse denno ripetersi come da principalissima cagione i malori, a’ quali vanno soggetti. Sull’isola d’Opus è un picciolo luogo fortificato con arginature di terra, al quale sono vicini due casali di Morlacchi, che portano il nome di borghi; uno di questi due casali è de’ Morlacchi di rito greco. Gli uomini vestono come tutti gli altri Morlacchi; le femmine, quando sono nella loro maggior gala, portano un caftan, o sopravvesta, all’uso delle Turche (Tav. XIII, Fig. II).
Io mi sono fermato parecchi giorni in Opus, cortesemente sofferto dalla nobile famiglia Noncovich, colla speranza di poter penetrare addentro sino a Mostar, e farvi disegnare il ponte antico che dà il nome a quella città mercantile de’ Turchi bossinesix: ma un ufiziale della craina264 narentina, dopo d’avermi dato solennemente parola di scortarmivi, mi mancò in un modo vergognoso e impudente. Potete ben credere, Mylord, ch’io sono stato tanto più sensibile al di lui mal tratto, quanto più mi stava a cuore in questo affare il piacere e servigio vostro.
Sembra che gli antichi geografi non abbiano ben conosciuto questa parte della Dalmazia, come non ben la conoscono i nostri che prendono tanti sbagli, sì nel derivarne i fiumi, come nel situarne, e nominarne i luoghi abitati, Scilace Cariandeno265, che dal Farlati viene censurato come poco esatto nel descrivere il paese di Narenta, mi sembra che ne avesse un’idea più giusta di tutti gli altri antichi scrittori, e infinitamente più che tutti i moderni. Egli probabilmente non
xMost stari, ponte vecchio.
264Marca, regione di confine.
265A Scliace di Carianda geografo greco del VI-V sec, a.C.) sono attribuiti due peripli: l’uno relativo ad un viaggio d’esplorazione compiuto, per incarico di Dario I, dalle coste dell’India alla Penisola Arabica. Il secondo, al quale probabilmente fa qui riferimento Fortis, d’incerta attribuzione, contiene la descrizione delle coste del Mediterraneo e varie notizie di carattere storico ed etnografico.
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pensò mai a dire che il fiume Narone uscisse dal lago d’Imoski, come pende a credere il Farlati: ma s bene dalla pianura allagata detta di Narenta a’ giorni nostri. Ecco le di lui parole tradotte alla lettera: «Dopo i Nestei (abitanti delle rive del fiume Cettina e del Primorie) è il fiume Narone. La navigazione in esso non è angusta, imperocché lo rimontano le galere ed altri navigli sino all’Emporio, ch’è situato addentro, ottanta stadi lontano dal mare. Colà abitano i Manii, razza di gente illirica. Al di là di questo Emporio è un vasto lago, che arriva sino ai confini degli Autariati, nazione pur illirica, ed in esso lago è un’isola di centoventi stadi, i di cui campi son ottimi da coltivare. Da questo lago esce il fiume Narone»a. Se si volesse dire che il testo di Scilace è corrotto là dove leggesi τό έισω τοΰ έμπορίου, e che doverebbesi sostituire una lezione di senso contrario, ogni cosa si troverebbe accomodata. L’isola da lui mentovata sarebbe quella d’Opus, la di cui grandezza quadra sufficientemente co’ centoventi stadi; il lago rinverrebbesi nell’ampia estensione del fiume, laddove dividesi per abbracciarla. L’Emporio Narona non era poi più d’ottanta stadi lontano dal mare a dritta linea; e Plinio ebbe il torto nel metterlo a maggiore distanza, Non volendo però punto alterare il testo di Scilace, si può credere che il lago di cui egli parla fosse la pianura di Rastokb e del Trebisat, che ben merita questa denominazione nella stagione delle inondazioni, e da cui resta prominente un gran tratto di coltivabile campagna, che forma adesso il midollo del territorio di Gliubuski. In questo caso Scilace avrebbe preso pel Narone il Trebisar, che da quelle pianure discende a metter foce in Narenta. Forse anche l’isola, di cui quell’antico scrittore vanta la fecondità, è il tratto di campagna narentina che stendesi fra il Norin e la Narenta, e che poté benissimo essere isolato anticamente per una regolata comunicazione de’ due fiumi, che passasse appié del colle di Citluc, dove adesso è un terreno paludoso e un canale mal navigabile. Volendo andare un po’ più addentro, sarebbe da esaminare le
aScyl Cariand., inter Geograph. min. , Hudsoni, p. 2.
bPotrebbe alcuno condotto dalla maggior analogia de’ nomi credere che Ραδώτζα del Porfirogenito fosse Rastok, e non Zaostrog: ma dovendo Rastotza essere al mare come Mocros, ed esercitare la pescagione, non si può ragionevolmente confonderla con Rastok fra terra.
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terre elevate del Mostarsko-Blato, vale a dire del lago paludoso di Mostar, da cui si può assai giustamente asserire che il fiume di Narenta si parta, per venirne a scaricarsi maestosamente in mare, pel mezzo di tre ampie foci. Le rive di questo fiume furono negli andati tempi famose presso i professori di farmacia, a’ quali Nicandro266 nella Teriaca, prescrive di raccogliervi l’iride. Teofrasto267, citato da Ateneo, dà il vanto, sopra tutti gli altri paesi produttori di questa pianta, ai monti illirici lontani dal mare, il che potrebbe accordarsi benissimo con Nicandro, intendendo de’ monti da’ quali esce la Narentac. E giacché sono a ricordare gli Antichi, credo opportuno d’aggiungervi che a Mostar e nel resto della Bossina si prepara ancora dai Turchi, coll’infusione de’ favi nell’acqua e pel mezzo della fermentazione, una sorte d’idromele da essi chiamata scerbèt, che corrisponde a quella che usavano gli antichi Taulanzi abitatori del paese medesimo, della quale trovasi riferita per esteso la manipolazione, dell’autore dell’opuscolo Περί θαυμασίων άκουσμάτων268, attribuito ad Aristoteled. I nostri vicini, che avrebbono un rimorso grandissimo, se bevessero un bicchiere di vino, non hanno poi gran difficoltà d’ubbriacarsi collo scerbèt. Eglino cioncano anche de’ buoni bicchieri di rakia, ch’è l’acquavite fatta di graspi; ed hanno inoltre varie preparazioni di mosto cotto, delle quali si servono senza veruno scrupolo. Il muscelez e la tussìa sono
266Poemetto di 958 esametri che descrive le forme degli animali velenosi, gli effetti dei veleni e i contravveleni. Nicandro, poeta greco del III o forse del II sec. a.C., scrisse anche l’Alexipharmaka, descrizione di pozioni velenose e antidoti.
267Ateneo, erudito egiziano dell’età imperiale, rappresenta una delle fonti più ricche e preziose per la conoscenza della cultura greca, Nella sua unica opera pervenutaci, I deipnosofisti, raccoglie frammenti della commedia attica, di storiografia greca e di erudizione ellenistica; vi compaiono anche passi di Teofrasto (372-287 a.C.).
cAthen., Dipnosoph, lib. XV, cap. VIII.
268Il passo citato è tratto dal XXII par, del De mirabilibus auscultationibus, operetta tarda e spuria, composta di tre parti eterogenee: vi figurano excerpta di scritti di scienze naturali di Teofrasto, nella prima, e dello storico Timeo, nella seconda, La terza costituisce una sorta di appendice, posteriore al III sec. d.C.
dNarrasi che gl’Illiri detti Taulanzi fanno vino del miele; ìmperocché spremono i favi dopo d’avervi gettato sopra acqua, e questa cuociono fino a che ne resti la metà, poi la mettono in vasi di creta ch’ella è di già dolcissima al bere; indi ripongonla in botti di legno e la conservano per molto tempo sino a che contragga il sapore di perfetto vino, Questa bevanda poi è dolce e salubre. Raccontasi che qualche volta ne sia stato fatto anche in Grecia, e che non distingueasi dal vino vecchio», Aris., Περί θαυμασίων άκουσμάτων.
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bevande di questa fatta, che riescono attissime ad ubbriacare: ma i probabilisti269 turchi hanno facilitato su questo articolo. La proprietà del muscelez invecchiato, che ha bisogno d’essere sciolto in qualche altro liquore per divenire bevibile, ricorda i vini degli Antichi.
L’ampio fiume di Narenta non è navigabile oltre alla villa di Metkovich da grosse barche; le picciole vanno sino a Pocitegl, e non più oltre, per quanto me ne fu detto dagli abitanti. Fa d’uopo fossero stati mal informati quegli scrittori che lo credettero atto a portare navigli sino a Mostar: d’onde certamente discenderebbono, se lo potessero fare, gli zopoli carichi di merci turchesche, con molto minor incomodo e dispendio di quello richiedano i viaggi di terra.
La pesca delle anguille è la più considerabile che si faccia nelle paludi narentine, dove questo pesce ascende in gran copia dal mare vicino. Non v’è forse luogo in Dalmazia più opportuno all’istituzione di valli chiuse e regolate come le comacchiesi; ed è certa cosa che il prodotto delle anguille da mettere in sale e da marinare, in breve giro d’anni, avvicinerebbesi a quella quantità, per acquistare la quale dalla nazione profondesi annualmente un tesoro, che passa in estero Stato. Adesso questo prodotto di Narenta non ascende a gran cosa, perché vi si esercita la pesca con un metodo rozzissimo; i fondi non sono disposti come dovrebbono, né le valli regolarmente piantate. Nello stato poi attuale di quelle paludi, il pesce che vi si prende ha poco concetto di salubrità, quando si voglia mangiarlo appena uscito dell’acqua: purgato però ne’ vivai, diviene usabile senza pericolo veruno, come lo è quando sia messo in sale.
Oltre alle anguille della valle, si prendono varie spezie di pesci fluviatili nella Narenta, e di quelli che hanno maggior pregio nelle mense de’ ghiotti. Le trote vengono frequentemente dalla parte superiore del fiume, e vi si prendono anche de’ salmoni. Verso le foci e ne’ contorni dell’isola d’Opus frequentano i muggini,
269Si designano come probabilisti i seguaci di un sistema di teologia morale che sostiene la liceità di una azione qualora essa abbia a suo favore un’opinione fondatamente probabile. Dal ‘600 il termine, usato in precedenza in modo generico, assunse questa più specifica accezione, quando se ne fecero principali assertori i gesuiti.
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nella stagione opportuna alla fecondazioe dell’uova; ed anche di questi vi si farebbe gran preda da un popolo mediocremente industrioso. Le barchette, colle quali i Narentini vanno pci fiume loro, sono picciolissime e leggerissime. Essi le chiamano ciopule, coi medesimo nome ch’è usato dai Morlacchi della Kerka e della Cettina per le loro canoe. Le ciopule, o zopoli, di Narenta non sono d’un solo tronco d’albero, ma d’assiccelle ben sottili, unite insieme da costole interiori. Questi zopoli non hanno differenza dalla poppa alla prua, né orlo, o banda veruna; sono acuminati dalle due estremità. La loro estrema picciolezza, e la poca distanza dall’acqua in cui-si ritrova chi naviga con essi, fa raccappricciare. Gli zopolieri non hanno remi, e spingono avanti il loro barchetto con certe palette lunghe intorno a quattro piedi, le quali maneggiano stando a sedere su le proprie gambe incrocicchiate.
Il suolo di Narenta ne’ luoghi non ricoperti dalle acque permanenti è arenoso, come dev’essere il terreno frequentemente inondato da un fiume totalmente privo d’argini, e che si gonfia co’ torrenti de’ luoghi montuosi. A queste alluvioni l’isola d’Opus, che vi soggiace tuttora, deve un alzamento di dieci piedi da’ tempi romani ai nostri. Uno scavo fatto colà nell’orto de’ signori Noncovich mi ha mostrato le differenti stratificazioni, che hanno successivamente coperto il terreno antico campestre, nel quale si trovano alla detta profondità rottami di vetri e di stoviglie romane. L’isola ad onta di questo alzamento non è coltivabile in ogni sua parte, restandovene grandissimi tratti paludosi, i quali però si potrebbono facilmente ritrarre e mettere a profitto. L’abbondanza d’ogni genere di prodotto che si mette nelle campagne narentine, dovrebb’eccitare quella popolazione, s’ella non fosse d’un inerzia ineccitabile, ch’è probabilmente una conseguenza dell’aria crassa che la preme e circonda. Gli erbaggi d’ogni sorta, il grano turchesco, il frumento e gli ulivi poi singolarmente vi fanno meravigliosa riuscita; i mori vi si alzano in breve giro d’anni a una procerità sorprendente, e i bachi che se ne pascono fanno una bellissima seta. Le viti non vi danno assai buona rendita; ed è un prodigio che vi si conservino restando per lungo tempo ogni anno sott’acqua, spezialmente nella
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pianura che stendesi fra’ due fiumi rimpetto a Metkovich, villa ben abitata da gente sana, laboriosa e coraggiosa.
Ad onta del terreno ubertoso, e della situazione più che ogni altra felice rapporto al commercio colla Turchia, il paese di Narenta è pochissimo popolato, e meno ancora frequentato da’ naviganti, che temono gli effetti di quell’aria, da cui forse dee ripetersi la qualificazione di Neretva od Boga procleta, Narenta maladetta da Dio, ch’è passata in proverbio presso i Dalmatini. Il celebre Giuseppe Pujati270, che morì pubblico professore a Padova, dopo d’avervi con somma lode per vari anni insegnato la medicina, diede alla luce un trattato De morbo naroniano, atto a spaventare qualunque avesse voglia di colà portarsi spezialmente in autunno. Io però vi fui d’ottobre, vi restai quindici giorni, e la mercé di semplicissime precauzioni ne uscii sano, con tutti i miei marinai, che aveano fatto di molte difficoltà prima di venirvi. L’acqua che stagna in alcuni luoghi, vi diventa pestilenziale a segno d’uccidere il pesce che vi nuota; il Pujati assicura che gli uccelli palustri, de’ quali v’è un’immensa abbondanza, cadono sovente avvelenati dalle micidiali esalazioni. Egli qualifica le febbri autunnali narentine come una spezie di peste, da cui è difficilissimo il liberarsi.
Ogni abitante di quella contrada ha il suo picciolo padiglione per ripararsi dalle zanzare e insetti congeneri nel tempo del sonno; le persone più comode stanno sotto il padiglione di velo anche il giorno, durante la stagione calda. Il numero di queste incomode bestiuole, nel tempo ch’io mi trovava colà, era ancora sì grande, ch’ebbi a disperarmi. Un ecclesiastico mi mostrò una picciola escrescenza, o natta, che avea in fronte, e mi assicurò che la gli era venuta dalla puntura d’una zanzara. Egli è uomo d’ingegno acuto anzicché no; e mi disse che sospettava le febbri, dalle quali erano tormentati i Narentini, potessero essere occasionate dalle punture di quest’insetti, che dopo d’aver succhiato un pesce, o un quadrupede fracido, o forse un’erba malefica, passano a succhiare gli uomini.
270Medico (1701-60), allievo di Morgagni e Vallisnieri, dal 1754 professore di medicina all’Università di Padova. Nel 1726 fu in Dalmazia dove esercitò la medicina e svolse studi su particolari affezioni del luogo.
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Veramente non sembra impossibile la comunicazione d’un qualche miasma anche per questa via; ed il sospetto è per lo meno ingegnoso. L’insalubrità del paese di Narenta non è però irrimediabile; alcune porzioni vi si sono rese abitabili dopo la coltivazione de’ terreni contigui. Il cercare d’incoraggirvi l’agricoltura, e i ritratti271 in particolare, potrebbe ancora farlo divenire un territorio ricco e ridente, come dovette essere stato ne’ tempi antichi.
I colli che circondano quella contrada sono per la maggior parte marmorei: non v’ha differenza dagl’impasti delle loro pietre a quelle dell’isole. Né curiosità fossili, né cose utili vi si osservano, se una miniera di pissasfalto se ne voglia eccettuare, che trovasi appié del monte Rabba, nel tenere di Slivno, in Xaxabie. Io non ho visitato quel sito, come nemmeno una cava di marmo bianco, nel luogo detto Comin, che m’era stata indicata. La regione montuosa v’è tutta piena d’antri e di voragini, delle quali si raccontano gran meraviglie. Io ebbi nella mia barca un frate, da cui m’era stato fatto sperare che avrei ritratto qualche buona notizia, il quale mi raccontò le più matte fole che possano formarsi in un capo guasto dalla superstizione. Questo strano vivente giurava su le strida de’ bambini nelle voragini, e su le danze delle fate nelle caverne, come s’egli ne avesse veduto le mille volte. Egli mi assicurò che avea in un suo libro particolare una benedizione, contro la quale nessuna febbre poteva resistere. Interrogato del perché non guariva tutta quella meschina popolazione, e non faceasi così un merito presso Dio e gli uomini, rispose ingenuamente che voleva essere ben pagato per fare di questi miracoli, e non si curava di operarli per gente meschina e spilorcia. Io restai poco edificato, come potete ben credere, di questa sincerità: e tanto più mi parve mostruosa, quanto che gli altri di lui confratelli sono pieni d’umanità e di carità verso i poveri Morlacchi. Sarebbe lunga cosa ed inutile il ridirvi tutte le pazzie e le falsità dettemi dal fantastico uomo sul proposito dell’antica estensione, de’ monumenti e delle lapide che si ritrovano in quelle paludi. Io mi sono fidato delle di lui parole una sola volta; ed ebbi da pentirmene. V’è anche un libriccino
271Da «ritrar», bonificare.
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stampato, nel quale si leggono molte cose mattamente apocrife del paese di Narenta; io non voglio sapere se il mio frate ne sia l’autore, ma, comunque siasi, è lavoro che non merita d’essere letto, né censurato.
Io abbandonai il paese di Narenta penetrato da un intimo sentimento d’obbligazione inestinguibile verso i cortesi miei ospiti, ma nel tempo medesimo stomacato dell’impudenza, dello spirito bugiardo, mancatore, scompiacente di qualche altro, che ho avuto la disgrazia di conoscere a prova. Mi resta l’esacerbazione ancora nell’animo pel progetto che mi vi fu guastato dell’andata al ponte di Mostar. Spero ciò non pertanto ancora, Mylord, di potervi servire in questo, se mai ritorno a internarmi nella Dalmazia, e di darvi così una prova di quel giusto e inalterabile attaccamento, cui la continuazione della bontà vostra per me rende vieppiù forte, ad onta del tempo e della distanza che mi allontana da Voi.