Viaggio in Dalmazia: differenze tra le versioni

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stampato, nel quale si leggono molte cose mattamente apocrife del paese di Narenta; io non voglio sapere se il mio frate ne sia l’autore, ma, comunque siasi, è lavoro che non merita d’essere letto, né censurato.
Io abbandonai il paese di Narenta penetrato da un intimo sentimento d’obbligazione inestinguibile verso i cortesi miei ospiti, ma nel tempo medesimo stomacato dell’impudenza, dello spirito bugiardo, mancatore, scompiacente di qualche altro, che ho avuto la disgrazia di conoscere a prova. Mi resta l’esacerbazione ancora nell’animo pel progetto che mi vi fu guastato dell’andata al ponte di Mostar. Spero ciò non pertanto ancora, Mylord, di potervi servire in questo, se mai ritorno a internarmi nella Dalmazia, e di darvi così una prova di quel giusto e inalterabile attaccamento, cui la continuazione della bontà vostra per me rende vieppiù forte, ad onta del tempo e della distanza che mi allontana da Voi.
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AL CHIARISSIMO SIGNOR ABBATE LAZZERO SPALLANZANI272 PUBBLICO PROFESSORE DI STORIA NATURALE NELL’UNIVERSITÀ DI PAVIA, MEMBRO DELLA SOCIETÀ REALE DI LONDRA, DELL’ISTITUTO DI BOLOGNA, E D’ALTRE CELEBRI ACCADEMIE D’EUROPA Dell’isole di Lissa, Pelagosa, Lesina, e Brazza nel Mare Dalmatico, e dell’isola d’Arbe nel Quarnaro
272Scienziato e letterato emiliano, biologo e fisiologo (1729-99), applicò in modo magistrale il metodo sperimentale alla biologia, ottenendo risultati di fondamentale importanza, in particolare nelle ricerche sulla riproduzione e sulla generazione spontanea (Saggio di osservazioni microscopiche, 1765, nel quale sfata il mito della generazione spontanea degli infusori), sulla circolazione del sangue e sulla respirazione. Varie osservazioni di zoologia descrittiva, fisiologia, geologia e ittiologia sono contenute nelle opere minori, tra le quali vi sono anche due resoconti di viaggi, Viaggio nelle due Sicilie e Viaggio in Oriente.
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Quantunque io sappia, al pari d’ogni altro, che le cose incominciate e abbandonate a mezzo viaggio non meritano pell’ordinario d’essere offerte pubblico, né a qualche dotto uomo in particolare; e sia intimamente convinto che difettose e mutile sono le osservazioni ch ‘io vado scrivendo della Dalmazia, e delle numerose isole sparse nel vicino mare, perché incomode combinazioni m’impedirono il perfezionarle, ardisco ciò non ostante d’indirizzarne una parte anche a Voi, dottissimo e pregiatissimo amico, senza timor d’incontrare la taccia di temerità, o disprezzo del mio dono qualunque siasi. La sperienza dee avervi insegnato quante difficoltà, e remore non prevedibili, sovente incontrino i viaggiatori naturalisti, anche allora che sono scortati dall’autorità del Governo, pelle montagne; e quindi, più che i sedentari letterati, sarete in istato di calcolare quanto tempo m’abbiano rubato, in contrade poco abitate e lontane dalla coltura italiana, i cangiamenti dell’aria, le incostanze del mare, l’ignoranza o la diffidenza degli uomini rozzi. I giorni perduti indispensabilmente occuparono forse più che la metà de’ dieci mesi da me consumati nelle replicate gite fatte in quel regno; ed io mi sarei forse risarcito del danno, se dopo d’aver superato una buona parte delle difficoltà non mi fosse cessata l’occasione di ritornarvi. Ad ogni modo, non essendovi stato sinora chi abbia dato di quel vasto paese notizie dettagliate, credo anche il poco ch’io ne ho osservato possa piacere ai naturalisti.
 
§. 1. Dell’isole Lissa e Pelagosa
 
L’isola che a’ giorni nostri è chiamata Lissa273, fu dagli Antichi conosciuta sotto il poco dissimile nome d’Ίσσα, Issa. I geografi greci e latini ne fanno menzione onoratissima come d’una colonia di Siracusani; e le danno quasi unanimemente il primato fra l’isole del Mare Illirico, quantunque il di lei breve circuito non la faccia essere una delle maggiori. Scimno Chio dovendo parlare dell’isole illiriche incomincia da Lissa, quantunque sia la più lontana dal continente; Strabone fra le notissime l’annovera in principal luogo; ed
273Viš.
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Agatemero274 la mette alla testa delle più nobili; non v’è poi geografo che non la nomini distintamente. Fra’ poeti greci Apollonio Rodiano275 nell’Argonautica la nomina colla qualificazione di δυσκέλαδος, romorosa, o malsonante, con- giungendovi la «desiderabile Pitiea», che debb’essere non Lesina, come alcuni riputatissimi geografi vollero, ma l’isoletta di S. Andrea coperta anche a’ giorni nostri di boschi, da’ quali si fa colare la resina pel mezzo dell’incisione. Da Licofrone276, nella Cassandra, rilevasi che Cadmo v’abbia per qualche tempo abitato, e generatovi un figliuolo:
O! così nella d’acque circondata Lissa, Cadmo prodotto non avesse Te, condottiero di nemici, quarto Germe del seme misero d’Atlante, De’ tuoi congiunti ultimo eccidio, Prilo, Veridico indovin d’ottime cosea!
Quasi tutti gli antichi storici greci e latini del primo ordine parlano a lungo di quest’isola, che sin da’ tempi rimotissimi era considerabile pelle forze marittime e pel commercio. De’ Liburni e de’ loro alleati, gli Etruschi adriesi che vi si erano stabiliti e di là davano la legge a tutto l’Adriatico, non ci conservarono assai distinte notizie le storie; ed appena incominciamo a saper qualche cosa de’ fatti
274Sotto il nome di Agatemero va un breve trattato (Abbozzo di geografia), non anteriore al III sec, d.C., che compendia le opinioni degli antichi sulla configurazione della terra e riferisce notizie sui mari, sulle misure della superficie terrestre e delle isole.
275L’elemento geografico trova ampio sviluppo nelle Argonautiche, poema epico ricco di intarsi eruditi di Apollonio Rodio, bibliotecario di Alessandria, cultore di studi storici, grammaticali, filologici ed antiquari del III sec. a.C.
276L’Alexandra è l’unica opera pervenutaci di Licofrone, tragico greco di età alessandrina: lungo monologo, quasi integralmente occupato dal vaticinio di Cassandra, ricco di materiale erudito e di miti rarissimi, che celebra l’egemonia di Roma e si conclude con una descrizione del dominio romano e degli stati confederati.
aΏς μή σε Κάδμος ώφελ' έν περιρρύτω
Ϊσση φυτεϋσσαι δυσμενών ποδηγέτην,
τέταρτον έξ Άτλαντος άθλίου σπόρον,
τών αΰθομαίμων συγκατασκάπτην Πρύλιν,
τόμουρε πρòς τά λώστα νημερτέστατε.
ΛΥΚΟΦΡ. Κασσάνδρ.
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de’ Lissani nella XCIII Olimpiade, vale a dire nel tempo che Dionisio il Vecchio se ne impadronì, e vi trapiantò una colonia di Siracusani, divenuta coll’andar del tempo indipendente dalla patria madre, e formidabile della estensione de’ suoi domini e pel numero delle sue navi. I Lissani fecero la guerra sovente ai re dell’Illirio, e furono alleati de’ Romani così tenuti in pregio, che per cagion d’essi mandarono un’ambascieria alla regina Teuta, onde cessasse dal molestarli. L’esito sanguinoso di questa legazione servi di pretesto alla prima guerra illirica, che condusse tutte le altre, dalle quali ne risultò la conquista di quel vasto paese. Il commercio e la navigazione de’ Lissani decaderono e per conseguenza il loro potere si ridusse a nulla, dopo il fine delle guerre illiriche. Gli storici non parlano più di essi per una lunga serie di secoli; e solo si trova che ne’ tempi di mezzo appartenevano ai pirati narentani. Nell’età più vicine a noi l’isola di Lissa divenne dipendente da quella di Lesina; e non si trovò mai in caso di formare un corpo da se. Essa non ha più che trenta miglia di circuito, è montuosa, ma non manca di valli coltivabili; gode d’una felicissima temperatura d’aria, e sarebbe compiutamente felice se avesse abbondanza d’acqua dolce.
Anticamente ebbe due città, una delle quali portava il nome dell’isola, l’altra chiamavasi Meo. Della prima restano de vestigi miserabili sul porto veramente teatrale, ch’è a’ dì nostri dominato dal borgo di Lissa; e segnatamente de’ pavimenti a mosaico, che vengono coperti dal mare quando le acque si alzano; dell’altra è probabile rimangano le rovine a Comisa, luogo popolato e colto, che sorge al mare dalla parte orientale dell’isola. Si trovano due monete degl’Issei, l’una delle quali ha il capo di Pallade armata dal dritto, e un’anfora dal rovescio; l’altra porta in luogo dell’anfora una capra. Frugando sotterra si trovano colà de’ vasi antichi, somiglianti nella forma e nelle inverniciature agli etruschi, e qualche lapida greca o latina. Vi fiorì in questo secolo un erudito uomo della famiglia Caramaneo277, che lasciò molte pregevoli schede appartenenti spezialmente
277Della famiglia Caramaneo si ricorda principalmente Antonio, erudito vissuto alla fine del ‘600, cultore di lettere antiche e moderne, e di storia dalmata. Lasciò numerose memorie relative ad antiche iscrizioni e medaglie, e al Giardino Morosini a Padova.
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all’illustrazione della sua patria. Questo valentuomo ebbe dei dispiaceri per aver voluto provare, in una dissertazione, che le reliquie di s. Doimo, venerate a Spalatro con sommo fervore, non erano legittime. Io non fui che una sola volta sull' isola di Lissa, in compagnia di mylord Hervey, infaticabile indagatore de’ segreti orittologici; noi vi sbarcammo per così dire alla ventura, privi d’appoggi e di chi ci potesse dirigere utilmente. Quindi pochissimo vi potemmo osservare, tormentati anche dall’eccessivo calore della stagione, a cui però poco avrebbe badato Mylord, se avessimo avuto buone indicazioni. L’ossatura dell’isola di Lissa è per la maggior parte marmorea; v’hanno degli ortoceratiti nel marmo volgare, che vi si trova ne’ più bassi strati, e delle nummali ne’ più elevati. Questa legge non è però così costante che non si vegga alcuna volta rovesciata. Fra le spezie di pietra, che si osservano lungo il lido del porto di Lissa, v’è un marmo tegolare di sottilissimi strati, e una pietra scissile biancastra, calcarea, poco atta agli usi economici per essere di lamine irregolari e fragili. Le ossa fossili vi si trovano petrefatte nell’impasto medesimo che si vede in vari luoghi dell’isola d’Osero e in quella di Rogosniza. Se ne incontrano abbondantemente fra le fenditure verticali degli strati nella picciola Valle di Ruda; e gli abitanti ci dissero che n’è ancora più ricco uno scoglio poco lontano, detto Budicovaz, e che in altri angoli dell’isola medesima di Lissa ne avressimo rinvenuto.
Il Donati nel suo Saggio d’istoria naturale dell’Adriatico scrive d’aver pescato ne’ contorni di Lissa una spezie di serpentino, ma non rende conto se potess’essere qualche pezzo errante, o se fosse veramente di cava locale. In quella parte d’isola ch’io ho veduto, non trovasi indizio veruno di eruzioni vulcaniche, da cui si possa trar probabilità che nelle vicinanze di essa trovinsi serpentini, o altri marmi prodotti dal fuoco. Vari rottami di lava trovammo sparsi sul porto di Lissa, e, venuti di fresco dal Vesuvio, ci lusingavamo di poter iscoprire su di quest’isola qualche vulcano spento. Gli abitanti ci dissero che, in un luogo chiamato Porto Manica, il mare non cacciava su altro che pietre nere; noi v’andammo, attraversando l’isola a cavallo, e trovammo falsissimo quanto c’era stato
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raccontato. Conchiusimo che le pietre vulcaniche da noi vedute a Lissa non erano indigene; si volle poi farci credere che uno scoglietto poco lontano dal Porto Manica fosse tutto impastato di pietra nera, simile ai pezzi erranti che avevamo veduto: ma non si trovò barca che vi ci tragittasse, e quindi restammo colla sola probabilità che il racconto fosse una seconda bugia. Di marmi nobili, o di pietre fine non vidimo alcun indizio nella traversata che fecimo: ma vi dovrebbono essere delle breccie compatte nell’interno de’ monti, come all’esterno se ne trovano di madrose ed ignobili. Il terreno vi è roccioso e tenace come le crete saturate d’ocra di ferro; ne’ luoghi elevati è arenoso e ghiaiuoloso.
Il prodotto più celebre di quest’isola ne’ tempi antichi fu il vino. Ateneo ne fa onorata menzione sulla fede d’Agatarchide278, che diede il primato sopra tutti i vini a quello di Lissa. «In Lissa isola dell’Adriatico, dice Agatarchide che nasce un vino, il quale, paragonato a qualunque altro, ritrovasi migliorea». A’ giorni nostri il vino di Lissa non è gran cosa, sia perché vi manchi l’arte di farlo, sia perché il tempo abbia fatto perire le antiche spezie dell’uve. Il terreno e la situazione sono attissimi a portare qualunque prodotto; le viti, gli ulivi, i mori, i mandorli, i fichi vi allignano volontieri. La quantità d’erbe odorose che si trovano pe’ monti di Lissa, ne rende il miele d’un eccellente sapore; ma le api dell’isola sono accusate di dar poco lavoro, il che dee forse ripetersi dalla mancanza d’acque. Le carni degli agnelli, de’ capretti, il latte, il cacio vi sono d’ottima qualità; non così le lane, pella poca cura che vi si ha delle greggie. La raccolta di grani è lieve cosa, né basta ad alimentare quella picciola popolazione.
Il più riflessibile oggetto del commerzio de’ Lissani viene loro somministrato dalla pesca. Una sola barca da tratta vi prende talvolta in poche ore d’oscura notte sessanta, cento e cencinquanta migliaia di sardelle. In questi casi però
278La vasta compilazione di Ateneo è l’unica fonte che ci conservi la descrizione del’Europa di Agatarchide, grammatico, storico e geografo del II sec. a.C.
aΈν δέ Ίσση τη κατά τόν Αδρίαν νήσω
Άγαθαρκίδης φησίν οίνον γίνεσθαι, όν πάσι
συγκρινόμενον καλλίω εύρίσκεσθαι. ΑΘΗΝ
Δειπνο. α.
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l’abbondanza soverchia diviene un oggetto d’afflizione. Per una di quelle picciole ragioni che sovente traggono seco per conseguenze danni riflessibili, l’isola di Lissa, situata nel più opportuno luogo all’esercitare una ricchissima pescagione, non ha magazzini di sale. Que’ pescatori, colti all’improvviso da un’abbondante preda, si trovano in necessità di ricorrer trenta e quaranta miglia lontano, per aver di che conservarla da’ magazzini di Lesina. Eglino intraprendono talvolta di questi viaggi se un vento determinato gl’inviti a tentare la fortuna: ma pell’ordinario, disperando di poter andare e ritornare colla necessaria sollecitudine, gettano al mare le cinquanta e anche le cento miglia di pesce, per non essere appestati dal puzzo. Ogni migliaio di sardelle si calcola intorno a uno zecchino di valore; gli sgomberi in ragione della loro mole vagliono di più. Sarebbe un tratto di benintesa economia nazionale il piantare sull’isola di Lissa un magazzino di sale, onde que’ poveri abitanti non dovesser pur troppo sovente perdere il frutto delle loro fatiche. La pesca de’ Lissani non è circoscritta solamente alle notti oscure de’ mesi estivi; il clima dolce di quell’isola permette a’ pescatori l’esercitarsi anche nel verno. L’affluenza de’ pesci, che amano di ritirarsi a svernare fra gli scogli contigui, somministra de’ compensi ai disagi inseparabili dall’arte. Tutte le spezie acquatiche crescono, ne’ contorni di Lissa, a maggior grandezza che ne’ luoghi più vicini al continente; le orate e i dentici presi nel verno soglionvisi mettere in gelatina, ed entrano in commercio così preparati. Fra i pesci curiosi, che si prendono in quelle acque, deesi annoverare principalmente la paklara, ch’io non ho veduto, ma di cui la descrizione fattami da’ marinai corrisponde all’echeneide d’Artedi e di Gouan279; non però all’echeneide, o remora degli Antichi, secondo la mia opinionea.
279Entrambi ittiologi di scuola linneiana, il primo (1705-1735) pose le basi di una classificazione scientifica dei pesci con la Ichthyologia sive opera omnia de piscibus, Leyden, 1738, opera che lo stesso Linneo pubblicò dai manoscritti lasciati da Artedi, Antoine Gouan, botanico francese (1732-1821) applicò il sistema di Linneo, ancora poco conosciuto in Francia, alla descrizione dell’Orto botanico di Montpellier e scrisse una Historia pisciurn in classes et ordines redacta, Strasburg, 1770.
aArtedi, Syn., p. 28. Gouan, Hzst pisc. Gen, XXXVII.
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I Lissani, pella situazione loro lontana dalle altrui acque, messi fuori del pericolo di far danno alle tratte de’ vicini, dovrebbono potersi liberamente servire delle reti che stimassero più adattate ai fondi ne’ quali pescano: essi non sono però liberi quanto farebbe d’uopo su di questo articolo. Quindi ne avviene che si allontanino di frequente dalle acque loro, e vadano a pescare intorno all’isola Pelagosa, ch’è sessanta miglia lontana da Lissa, e, poco più poco meno, dal promontorio di S. Angelo in Puglia. Le loro prede non passano a Venezia, dove pretendono d’incontrare gravissimi discapiti, ma si diffondono pel Regno di Napoli, le di cui spiaggie che guardano l’Adriatico sono mal provvedute di pescatori. Sarebbe desiderabile che ne’ luoghi abbondanti di pesci com’è l’isola di Lissa fosse introdotta una polizia pescatoria, che si estendesse anche sopra le insalazioni; e se ne potrebbe prendere il modello da’ Francesi, accomodandolo ai generi e alle circostanze nostre.
L’isola Pelagosa e vari scoglietti che spuntano dal mare nelle vicinanze di essa, sono residui d’un antico vulcano. Io non vorrei assicurarvi che fosse sorta dall’acque, come tante altre isole dell’arcipelago, quantunque possa farcelo sospettare il non trovarne memoria precisa ne’ geografi più antichi. Sembrerebbe che non dovess’essere stata confusa colle Diomedee, dalle quali è trenta miglia distante; ad ogni modo però si può dare che l’abbiano fatto. La lava, che forma l’ossatura di quest’isola, è similissima alla più comune che getta il Vesuvio, per quanto abbiamo potuto vedere passandovi dappresso. Se qualche naturalista vi discendesse, e ne visitasse di proposito i luoghi più elevati, potrebbe darsi che sapessimo s’ella è stata cacciata fuori da un vulcano submarino, come nel secolo nostro l’isola vicina a Santerini, o se debba credersi la cima di qualche antica montagna vulcanica, le di cui radici e le falde sono state coperte dalle acque che divisero l’Africa dalla Spagna, formando lo Stretto di Gibilterra, invasione di cui non può dubitare chi ha esaminato i fondi e i lidi del nostro mare. I pescatori lissani assicurano che il tremuoto vi si fa sentire frequentemente, e con molta violenza; l’aspetto dell’isola prova, anche agli occhi meno prevenuti, che vi
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accadono sovente delle rivoluzioni; ella è scabrosa, rovinosa e sconquassata. Avrei avuto voglia di visitare anche l’isole Diomedee, dette di Tremiti da’ nostri geografi, alle quali forse dalla frequenza de’ tremuoti è venuto il nome, perché secondo le mie congetture dovrebbono avere de’ segni vulcanici: ma vado disanimandomi di giorno in giorno. Io vi confesserò, pregiatissimo amico, che dopo le scoperte degli antichi vulcani fatte dalla dotta compagnia del cavaliere Banks280 nell’isole di Scozia, nell’Islanda, nelle terre nuovamente trovate; dopo le osservazioni dell’oculatissimo Vescovo di Londonderry in Irlanda, pel Valese, pell’Alvernia; e dopo i viaggi orittologici pe’ monti degli Svizzeri, della Francia, della Germania, fatti di fresco dal celeberrimo naturalista signor Giovanni Strange, tutte le cose nostre mi sembrano oggetti microscopici. Il solo vantaggio che ci dà la loro picciolezza, e che m’impedisce dal disgustarmene del tutto, si è che possono essere più diligentemente esaminati che gli spettacoli maggiori. La natura è sempre ingegnosa e grande egualmente; né agli occhi dell’osservatore le picciole cristallizzazioni basaltine delle lave volgari, e i piccioli cristalli de’ Colli Euganei deggiono provar meno, che le meravigliose colonne prismatiche di Staffa, o le grotte cristalline degli Svizzeri. Egli è però d’uopo di fare sforzi per tenersi presente questa verità; ed allora particolarmente che cadono sotto gli occhi le descrizioni o i disegni di quelle magnificenze naturali.
 
§. 2. Dell’isola di Lesina
 
Del nome che portava quest’isola nel tempo della sua dipendenza dai Liburni, non resta, per quanto io so, più memoria né presso ai geografi, né presso agli storici antichi. Scilace la nomina Φάρος;, né si ferma a parlare di essa. Scimno (s’egli è così antico come alcuno de’ suoi illustratori lo vorrebbe) è il primo a dirci ch’ella era una colonia di Paria, nel che s’accorda con Strabone, il quale aggiunge
280Naturalista e collezionista inglese (1743-1820), membro della Royal Society, partecipò alla famosa spedizione dell’«Endeavour», con la quale si inaugurarono gli studi moderni di oceanografia. Pur non avendo mai prodotto lavori di grande peso, ebbe grande fama ed esercitò una notevole influenza sugli studiosi dell’epoca.
aΦάρος δέ τούτων σύκ άποθεν κείμενη
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che da’ nuovi venuti fu primamente detta Πάρος, Paro. Tolommeo chiama Φάρια, Faria, tanto l’isola, che la città capitale di essa; e i geografi più bassi s’accordano quasi tutti nel darle questo nome, da cui non s’allontanarono gli Slavi chiamandola Hvar nella lingua loro, che nella pronunzia sua primitiva sostituisce alla lettera f le due hv, o talora la lettera p. Adesso è detta Lesina, dalla sua figura somigliante a quello stromento de’ calzolai. I Pari, che secondo Diodoro Siculo281 furono dall’oracolo mandati a stabilirsi nell’Adriatico, vi fondarono Faria, e si eressero in picciola repubblica, di cui ci resta una moneta. Eglino vissero in libertà più tranquilla che gloriosa sino al tempo d’Agrone, dal quale furono vinti forse insieme con molti popoli del continente, e tutti gli altri isolani, trattone quei di Lissa. Nelle storie romane si parla assai più che de’ Fari di Demetrio loro concittadino, che divenuto potente alla corte d’Agrone e di Teuta, tradì la sua sovrana e diede ai Romani varie piazze, fra le quali anche Faria sua patria, di cui era stato fatto governatore da Agrone; egli ne divenne poi signore in premio del tradimento. Come costui abbia abusato dell’amicizia de’ Romani si ha da Polibio, da Dione, da Appiano. Faria portò la pena delle di lui male azioni, e fu dai Romani medesimi replicatamente distrutta, nella guerra ch’ebbero contro Filippo re di Macedonia. Egli è un danno che la celebrità de’ Fari incominci e finisca da un traditore; dopo la morte di Demetrio non si sente più parlare di essi presso agli antichi scrittori profani. Ne’ tempi della decadenza dell’Impero cangiò padroni sovente, e rimase lungamente nelle mani de’ Narentani; poi ebbe signori particolari, l’ultimo de’ quali Aliota Capenna la cedette alla Serenissima Repubblica nel 1424.
La lunghezza di quest’isola è di circa quarantaquattro miglia, la maggior larghezza di otto. La sua capitale porta il nome di Lesina, ed è situata verso
Νησος, Παρίων κτίσις έστίν. ΢ΚΥΜΝ. 425.
281La Biblioteca di Diodoro Siculo, storico greco d’età cesariana, rappresenta una sorta di enciclopedia dell'antichità, comprende la preistoria dei popoli asiatici e africani, la mitologia greca, le origini delle popolazioni europee fino alle imprese di Cesare. Di essa rimangono integri solo alcuni libri, altri, in frammenti, sono tramandati da Fozio, dal Porfirogenito e nelle Eclogae Hoeschelianae.
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l’estremità occidentale in un luogo bastevolmente bene scelto, ma non paragonabile per verun conto alla situazione in cui la città loro aveano piantato gli antichi Pari. E mediocremente abitata, e vi risiede il nobil uomo Provveditore e un Vescovo; il castello che la domina, fabbricato sulla cima d’un monte marmoreo, e le altre fabbriche militari vi sono mal tenute. Il porto, quantunque ben coperto e spazioso, è poco frequentato presentemente: com’è poca e povera cosa la popolazione della città. I Lesignani sono amici del forastiere, ma non hanno fama d’essere molto amici fra di loro.
Ne’ pochi momenti ch’io mi fermai ne’ contorni della città di Lesina, raccolsi parecchie varietà di pietre. Il più vago è un marmo di grana finissima salma, color di carne, listato: questo non trovasi a strati molto estesi, ma sibbene a gruppi, come i marmi stalattitici, che vi sono anch’essi comuni. Vi si estende in vaste stratificazioni una spezie di marmo lumachella, oggetto più curioso agli occhi dell’orittologo, che aggradevole al marmoraio: il suo fondo di colore è bianco sudicio, l’impasto rigido, i frantumi di corpi marini, che vi si veggono disposti orizzontalmente, sono cangiati in ispato biondiccio. Quella spezie di pietra marmorea di color rosso fosco, che noi conosciamo a Venezia sotto il nome di rosso da Cattaro (perché dalle vicinanze di quella città ce ne viene portato in quantità), vi si trova comunemente; e vi è frequente la breccia corallata, nelle di cui macchie predomina il colore avvinato e ‘l pagonazzo; i sassi, onde quest’ultima spezie è composta, sono scantonati e conservano i caratteri d’una lunga fluitazione. Questa breccia occupa pell’ordinario la sommità de’ monti; e rende così più evidente l’antica adesione dell’isole del continente vicino, nelle di cui altezze osservasi il medesimo impasto. Voi intendete bene, come intendo anch’io, che perch’esistessero delle ghiaie da rotolare, fu d’uopo avessero preesistito delle alte montagne, dalle quali dovettero staccarle e trasportarle i torrenti; e che veggendosi ne’ sassi fluitati delle breccie, che si trovano su’ monti dell’isola de’ corpi marini lapidefatti, diviene indispensabile il mettere la sede d’un antico mare su quelle montagne, ora distrutte, dalle quali le ghiaie discesero. Questa picciola
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faccenda di fabbrica- mento e distruzione porta qualche lunghezza di tempo, è vero, ma noi non ne abbiamo colpa. Come poi gl’immensi letti di ghiaie seminate con prodigalità da’ fiumi, da’ torrenti, o trasportate e rimescolate dalle onde marine, sieno stati abbandonati dal mare ed invasi da nuovi fiumi e torrenti, che le pianure continue trasformarono in montagne e in colli trinciati e suddivisi da valloni; come ai fiumi e ai torrenti sieno mancate le acque col mancare de’ monti più antichi, da’ quali erano discese le ghiaie; come nelle gran fenditure e ne’ valloni siasi un nuovo mare introdotto, io non lo saprei dire, quantunque assai vicini all’età nostra deggiano essere stati questi ultimi avvenimenti, in confronto de’ primi. Sarebbe davvero un’occupazione pessima quella di chi volesse mettersi di proposito a spiegare i come, e i quando di tutte le rivoluzioni sofferte dalla sola corteccia esteriore del nostro miserabile globo. Il loro numero provato delle osservazioni di orittologi diligenti e oculati metterebbe in allarma migliaia di Brovalli, che non vorrebbero forse venire a patti, e contentarsi di farle accadere rapidamente l’una dopo l’altra in un breve giro di secoli: sul qual ripiego un amico della pace non troverebbe che dire. Lungo il lido del porto di Lesina io ho raccolto selci gialle, verdi e rosse, tutte compenetrate di fluore piriticoso dendromorfo. Nel picciolo scoglio di Borovaz trovansi degli ammassi d’ossa fossili.
Parecchi uomini dotti produsse la città di Lesina nel secolo XV, i nomi de’ quali sono riferiti da Vincenzo Pribevio282 nella sua orazione De origine et successibus Sclavorum, colà recitata nell’anno 1525. Fra questi due si distinsero nella poesia, e furono Annibale Lucio283 e Pietro Ettoreo284, del primo de’ quali
282Vincenzo Priboevich, erudito, dell’ordine dei predicatori, fu un grande cultore di storia dalmata La sua opera è dedicata ai più illustri personaggi della sua epoca, in particolare ai letterati.
283(1485-1553 circa). Eccellente versificatore. tra i più antichi poeti croati. Distrusse gran parte della sua produzione, ciò che rimane fu pubblicato dal figlio Antonio, a Venezia nel 1556. Nella sua opera maggiore Robinia (La schiava), ritornano i temi della lotta contro i Turchi e dell’amore in ritmi che ricalcano moduli popolari.
284(1487-1572). Scrisse in italiano e in latino delle composizioni piuttosto convenzionali, ma il suo capolavoro è il poema piscatorio Ribanje i ribarsko prigovaranje (La pesca e i discorsi pescherecci), tra gli scritti più importanti della letteratura dalmata del ‘500.
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sono stampate alcune cose poetichea del secondo forse anche ha il pubblico qualche opera, e molte ne restano manoscritte. Fra queste contasi una traduzione del Rimedio d'Amore d’Ovidio in versi illirici, e varie egloghe.
L’isola di Lesina, quantunque sassosa e sterile nella più alta parte, ha però de’ tratti di buone terre, atte non solo a portar alberi fruttiferi ma biade eziandio. Quindi n’avviene ch’ella è la meglio abitata dell’altre del Mare Illirico, e che alcuni de’ suoi villaggi meritino il nome di grossi borghi, e superino nel numero degli abitanti molte picciole città. Fra questi si vuoi dare indubitabilmente il primo luogo a quello che sorse dalle rovine dell’antica Faria, e però chiamasi Città-vecchia. Egli è posto al mare su d’un bello e comodo porto, appié d’una campagna amenissima, in questo solo luogo il mare visibilmente cede alla prolungazione del terreno: e la ragione manifesta n’è il declivio della campagna superiore, che si stende in costa del monte dolcemente ascendendo, ed è fiancheggiata verso l’estremità più alta da terreni molto elevati. Le acque che ne discendono, torbide dopo le pioggie, depongono sulla spiaggia le terre ond’erano saturate, e la fanno così a poco a poco crescere. Mi parve di riconoscere, anche dalle poche rovine antiche rimaste sopra terra, che Faria fosse quasi due miglia più addentro di quello è attualmente Città-vecchia; e i dettagli avuti dagli abitanti mi confermarono in questa opinione. Due soli pezzi antichi io ho veduto in questo luogo, il più pregevole de’ quali è un bassorilievo sufficientemente ben conservato, in marmo greco, che rappresenta una barca a vela, col timone alla destra della poppa e il piloto che lo governa; l’altro è pur un bassorilievo sepolcrale di cattivo scalpello. Mi fu d’uopo andar a cercare il primo sino alla sommità del campanile, nella di cui fabbrica probabilmente molti monumenti de’ Fari saranno periti. D’iscrizioni greche non vi ho trovato vestigio; e una sola sepolcrale latina ho ricopiato forse un miglio fuori della borgata, pentitissimo d’esser andato a cercarla così lontano. Gli abitanti di questo paese sono di bella statura, coraggiosi
aRobigna Gospodina Anibala Lucia, Hvarskoga Viastelina, Venezia. 1627. in 8°.
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e d’ingegno svegliato; eglino si danno molto alla navigazione padroneggiando vascelli; il minuto popolo s’occupa della pesca e del costruirne.
Da Città-vecchia io mi portai a cavallo sino al picciolo seno di Zukova, dove trovano porto bastevolmente sicuro le barche de’ pescatori. Colà si cavano in riva del mare le lastre di marmo tegolare biancastro, di cui sogliono usare generalmente gl’isolani della Dalmazia per coprire le loro case. Accade sovente che nel fendere le più grosse lamine di questa spezie di pietra, si scoprano impressioni di piante marine e di pesci non conosciuti ne’ nostri mari; ma il caso di trovare le impressioni e le spine lapidefatte de’ pesci è assai raro, quello delle piante comunissimo: le spezie però di queste non sono assai moltiplicate. E raro il rinvenirvi delle impressioni di coralline: e la sola benissimo espressa ch’io v’abbia incontrato è passata in Inghilterra, per aver luogo in una ricchissima collezione, come vi passarono i pochi pesci di quel sito che mi venne fatto d’avere. Vi si trovano anche de’ mituli cangiati in pietra, maltrattati e sfigurati. Il mare, che non ha ragioni topiche di allontanarsene, guadagna sulla costa di Zukova, e risommerge a poco a poco gli strati curvi del marmo tegolare, in cui gli scheletri de’ pesci stanno sepolti. Essi resteranno coll’andare del tempo coperti dalle ghiaie e dalla rena mescolata co’ testacei dell’Adriatico; e daranno da pensare a’ naturalisti de’ secoli venturi, se mai ne anderà alcuno ad esaminare quel luogo divenuto subacqueo, o riabbandonato dall’acque. Non sarebb’egli difatti da compatire un naturalista, che su le prime traendo da qualche strato lapidoso del fondo del mare una petrificazione, la credesse formata dalle acque sotto le quali giaceva? Il fatto però prova ad evidenza che la non è pell’ordinario così; e i gran pezzi di marmi lenticolari e ortoceratitici, che si traggono coll’ordigno de’ corallai dagli abbissi del nostro Adriatico, lo dimostrano chiaramente. Gli scheletri de’ pesci di Zukova, che vanno a gran passi risommergendosi insieme cogli strati ne’ quali giacciono, non appartengono certamente al nostro mare, posteriore di molto alla loro deposizione. Io non me ne ritrovo attualmente alle mani per
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descrivervene le parti riconoscibilissime, e determinare a qual genere appartengano, e a quale delle spezie conosciute s’accostino.
Un picciolo casale lontano dal mare, detto Verbagn, ha un’altra cava di marmo tegolare, dove pur trovansi de’ pesci: ma per averne fa d’uopo aspettare delle settimane intere, e far lavorare a proprio conto gli scavatori, che non si curano di queste curiosità. Questo Verbagn è due miglia lontano da Varboska, villaggio assai popolato due secoli addietro, come lo provano le case ben fabbricate che vi si vedono adesso rovinose. Gli abitanti del luogo, come anche generalmente di tutta la costa, sono ospitali e cortesi. La principale occupazione delle femmine vi è la coltura delle terre: gli uomini sono addetti alla pesca, quando abbiano modi e salute per esercitarvisi. Da Varboska a Gelsa per terra è un viaggio di quattro miglia. Io trovai nel farlo una curiosità fossile, che mi parve meritar tutta la mia attenzione. Buona parte del cammino e tutto quasi un colle intermedio è di tofo fluviatile, abbandonato colà da qualche antico fiume che si è perduto, ovvero ha raccorciato il proprio corso, direttolo forse per altra via, o trasformatolo irriconoscibilmente, Questo tofo posteriore di molto alla formazione degli strati marino-marmorei, che costituiscono l’ossatura dell’isola, è certamente di non poco anteriore all’irruzione del nuovo mare fra le nostre terre, che non è poi affare di data recente; imperocché l’isole della Dalmazia doveano già essere dallo stato d’antiche pianure ridotte a quello di montagne intersecate da valloni, allora quando il mare venne a visitarle. L’interiore della Dalmazia guardato dall’alto del monte Biocova a confronto dell’isole, che da quella sommità si veggono tutte unite, presenta uno spettacolo similissimo ad esse, quando si tolga loro col pensiero il mare d’intorno. Io ho vuotato colla fantasia pelle valli della Bossina, fiancheggiate, ora da colli, ora da montagne, quel mare che circonda Lesina, Lissa, la Brazza e le numerose altre isole illiriche, ed ho queste lasciate a secco. La Bossina avea cangiato situazione, ed era venuta a far una continuazione del Primorje; e l’arcipelago illirico trovavasi quasi senz’alterazione riconoscibile trasportato al di là del monte Adrio. Il picciolo lago di Jezero, che pieno d’isolette e scogli selvosi
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giace nel continente, appié del Biocova che lo separa dal mare, mostra nel breve giro di poche miglia ciò che sarebbe tutta quella contrada transalpina se venisse inondata, e ciò che furono l’isole prima d’essere circondate dal mare.
Gelsa è un grosso villaggio ben situato su d’un porto, ricco di ruscelli perenni che menano buon’acqua, ed assai popolato. Egli è alle radici di colli marmorei che con dolce pendio si perdono in mare. Vi si vede il più bel marmo brecciato sparso pelle strade ne’ rozzi pavimenti, e messo in opera nelle fabbriche più ignobili. Generalmente la breccia di Gelsa è composta di pezzi angolosi di marmo bianco, suscettibile di pulimento ugualissimo, legati insieme da un cemento di terra rossa lapidefatta; non vi è rara la breccia di color pavonazzo, irregolarissima nelle sue macchie, e degna d’adornare qualunque edificio nobile. Monsignor Blascovich285, vescovo di Macarska, fece cavare tutte le colonne della nuova sua cattedrale, e tutti i gradini degli altari da questo luogo. Il solo difetto che vi si osserva dipende dalla cattiva scelta che hanno fatto gli scalpellini, condotti forse da uno spirito di malintesa economia a prescegliere la materia che prima venne loro alle mani, come la più comoda all’imbarco, Nel caso di voler mettere in opera il marmo d’una nuova cava, non si dee contare su lo strato esteriore, danneggiato pell’ordinario dall’ingiurie dell’aria e dal salso se trovisi in riva del mare, ma scoprirne più addentro un altro, e servirsi di quello. Le paste de’ marmi di Gelsa impiegate a Macarska sono bellissime, il pulimento loro acceso quanto quello delle più belle breccie che veggonsi impiegate a Roma, e che probabilmente vi furono trasportate dalla Dalmazia; ma il cemento, che forma l’aggregazione de’ pezzi, ha sofferto un grado di deterioramento dall’essere esposto per lunga serie di secoli alle acque del cielo e del mare, al calore del sole, all’azione dell’aria: d’onde n’avviene che la levigatura di que’ lavori non ha tutta la continuità e perfezione che se ne doveva aspettare. Farebbe d’uopo prendere le breccie di Gelsa qualche centinaio di passi lontano dal lido, e da una cava mediocremente profonda; la
285Canonico, nato a Macarska e vescovo di questa città dal 1777. Autore di un volume in gran parte in croato Edicta, sanctiones, decreta epistolae quas ad cleri et populi macarensis utilitatem in unum collegit, Venezia, 1799.
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riuscita non mancherebbe di compensare ampiamente il picciolo accrescimento di dispendio. Per la città di Venezia, che fa un consumo annuo di marmi riflessibilissimo, non sarebb’ella importante cosa l’averne piuttosto dall’isole della Dalmazia con pochissime spese, che dalla terraferma, o dagli esteri stati a prezzo esorbitante? Oltre a’ marmi brecciati io ho veduto a Gelsa de’ pezzi erranti di lumachella bianco e nero, composto di terra bituminosa marina indurata e di piccioli ortocerati, trasformatisi al solito in spato calcareo di grana salma.
Quantunque a Gelsa v’abbiano di molte case, e buon numero di persone vestite alla francese vi vada a villeggiare, io non ho potuto trovarvi col mio denaro provvigioni per me, né pe’ miei marinai, ed ho passato la notte a bordo della mia barca, Il paese abbonda di pescatori; ma questi erano forse all’esercizio dell’arte loro quando io giunsi colà, e quindi non vi trovai quella cortesia che suole abitare colla povera gente.
La villa di S. Giorgio, situata sulla punta orientale dell’isola, è per se un poco osservabile luogo popolato mediocremente. La sola cosa che possa condurvi un viaggiatore si è la quantità di urne romane che vi si veggono, a poca distanza dal lido, ammonticchiate e sparse pel fondo del mare, dove giacciono dl quattordici secoli per lo meno. In alcune di esse leggesi il nome del fabbricato re, dopo d’averle spogliate della crosta poco resistente di cui l’hanno ricoperte, nel giro di tanti anni, l’escare ed altri polipari: i caratteri mostrano d’essere de’ buoni tempi.
L’isola di Lesina, com’è la men povera d’abitatori, così è la più ricca di varietà di prodotti che sia nell’Adriatico, ed ogni prodotto vi è di buona qualità. Vi si raccoglie vino, oglio, fichi, mandorle, zafferano, miele in osservabile quantità; i luoghi piani danno anche biade, ma in misura non proporzionata al numero degli abitanti. Il clima dolce vi fa moltiplicare gli aloe, del refe de’ quali si può far uso utilmente all’esempio degli Americani e de’ Francesi nella pesca. Le palme, gli aranci, i carrubi vi allignano volontieri, e sarebbe da incoraggirvi la moltiplicazione de’ mori, come in tutte l’isole e il litorale della Dalmazia, dove il terreno ha fondo opportuno ad essi. Le legna è ancora un oggetto di commercio
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de’ Lesignani: ma va d’anno in anno scemando, per la poca economia usata ne’ tagli de’ boschi, e pe’ novali che vi si sono moltiplicati. Le lane, gli animali peconini e il cacio portano qualche picciola somma di denaro annualmente nell’isola: ma il prodotto più considerabile che n’esce, si è quello del salume, che meriterebbe d’essere protetto e sollevato dagli aggravi pubblici, e dalle avanie286 de’ particolari, onde si moltiplicassero i pescatori dell’isola, e trovassero il loro vantaggio nel portare il pesce a Venezia, che dal principio di questo secolo in poi si è fatta ogni anno più gravemente tributaria de’ pescatori del Nord. Se la metà sola del denaro che la nazione spende annualmente negl’insalubri cospettoni287, si difondesse in Dalmazia, tutta quella provincia ne risentirebbe un vantaggio considerabilissimo, del quale tanto maggior conto si dovrebbe fare, quanto maggior utilità recherebbe al pubblico erario, che oggimai non ritrae più dal pesce della Dalmazia diritti degni di riflesso. La pescagione di Lesina era più florida ne’ tempi andati perché da maggior numero di barche veniva esercitata; e fu forse vero che provvedevasi l’Italia tutta, e buona parte del Levante colle sardelle di questa, e della dipendente isola di Lissa, come dice il signor Busching: ma adesso, quantunque il mare sia egualmente popolato di pesci, il commercio di salumi de’ Lesignani è scemato di molto. La rakia è un prodotto non dispregevole di Lesina, come di tutto il litorale e dell’isole illiriche: ma la Dominante anche da questo ritrae poco vantaggio, per esserne l’economia per lo meno egualmente mal sistemata, che quella degli altri generi somministrati da una sì vasta, e fruttifera provincia.
 
§. 3. Dell’isola di Brazza
 
Quest’isola non è mai stata, per quanto si può congetturare, abitata da un popolo riguardevole: Scilace la nomina appena col nome di Κράτια, Crazia; Polibio
286Imposta ingiustificata, nel caso quella che gravava sui generi sotto sale («salumi»), principale risorsa dell’isola.
287Pesce di mare, generalmente aringhe, conservato sotto sale.
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con quello di Βρέκτια, Brezzia; Licofrone la chiama Κράθις, Crati; Plinio Brattia, e così Antonino, e l’odografo288 peutingeriano; il Porfirogenito, Βάρτξω, Barzo; e dessa e Lesina qualifica come καλλίστας, και εύφορώτατας, bellissime e fertilissime. La sua estensione è di trentadue miglia in lunghezza, sopra una larghezza ineguale che non oltrepassa mai le nove. Asseriscono gli abitanti che vi fosse anticamente una città nel luogo ora detto Scrip: ma sembra strano che tutti i geografi greci e latini l’abbiano passata sotto silenzio, quantunque veramente vi sia stata. Il Busching ha dato a quest’isola un borgo per capitale, col nome di Brazza, e vi ha posto anche un Vescovo a risiedere, quantunque né borgo di questo nome, né residenza di Vescovo attualmente abbia l’isola, e il luogo, che dee considerarsene la capitale, sia Neresi, dove il Governatore che ha titolo di Conte suole abitare, come nella più opportuna situazione pell’amministrazione della giustizia agl’isolani. Il celebre geografo ha accozzato un buon numero di piccioli sbagli, nelle sole pochissime parole che dice di quest’isola. Eccole: «Brazza, Bractia, denominata dal borgo Brazza, ove risiede un Vescovo. Il Conte veneziano, o sia il Governatore, soggiorna a S. Pietro, luogo situato dalla parte di ponente presso il porto di Milna». Agli errori di fatto compresi nelle prime parole si dee aggiungere che S. Pietro non è a ponente, né presso al porto di Milnaa.
288Estensore.
aFa d’uopo che il celebre signor Busching sia stato mal servito da’ suoi corrispondenti, o abbia bevuto a cattive fonti quando scrisse della Dalmazia. Io non ho avuto sotto gli occhi il volume della sua opera, dov’è parlato di questa provincia, se non tardi; e quindi non ho potuto accennarne le principali inesattezze al luogo loro. Protesto che nessuno spirito d’ostilità mi anima contro il benemerito uomo; pur troppo ciascuno è soggetto a scrivere delle cose poco esatte! Ma credo di rendere un vero servigio ad esso, non meno che a’ di lui leggitori, avvertendoli d’alcuni errori non sopportabili; così vi fosse chi lo correggesse di provincia in provincia la di lui fatica diverrebbe utile. Non è vero che i Dalmatini (n° LI, p. 75, ed. di Firenze) sieno di nazione, e di religione greci; v’ha una parte di essi che segue il rito greco, ma non è la maggiore. Nona è ancora un aggregato di rovine tanto lontano dell’essere una buona fortezza (p. 76) che appena si può più chiamarla città murata. La Vrana (p. 77) lungi dall’essere uno de’ più deliziosi luoghi della Dalmazia, è un orrido monte di macerie, disabitato e inabitabile. Knin (p, 78) è bagnato dal fiume Butimschiza, non dalla Bolisniza, e non è sede d’un Vescovo, Dernis (p. 79) non è una città di poco momento, ma un povero villaggio; e la cattedrale di Sebenico non è nel castello, quando non vi fosse stata portata di fresco. Così non è una città Clissa (p. 80); né la strada, che conduce in Turchia, passa vicino a quel. la fortezza per una valle, ma sul dorso della montagna. Salona non era situata in una bella pianura, ma alle radici e sulle falde d’un monte; né era traversata dal rivo Salona, ma bagnata esteriormente dal fiume di questo nome. Tralascio molti altri minori sbagli,
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L’isola della Brazza è tutta montuosa ed aspra. V’hanno de’ gran tratti di paese nella parte più elevata di essa che sono affatto pietrosi, e anche poco atti a portar ginepri, o simili alberi abitatori de’ luoghi sterili. Costa molta fatica il farvi de’ novali: ma con tutto questo i novali vi si moltiplicano, il che fa crescere d’anno in anno il prodotto del vino, e scemare quello delle legna e delle greggie. L’indole del suolo petroso, e la scarsezza di fontane rendono quest’isola soggetta a fatali aridità.
Il principal luogo della Brazza è Neresi, così chiamato con derivazione greca dai serbatoi d’acqua, che ne sono poco discosti. Questa terra è la vera residenza del Governatore, in cui si tengono i consigli; i nobili brazzani vi si portano ne’ tempi determinati da’ vari luoghi marittimi, dove hanno le loro abitazioni. La situazione di Neresi è poco felice, quantunque le sole buone terre dell’isola gli sieno immediatamente appiedi. Il cammino per portarvisi dalle rive del mare è asprissimo e selvaggio; l’aria vi si mantiene rigida oltre la stagione di primavera, e l’inverno poi vi è, per quanto dicono, crudele. Il paese gode d’alcuni punti di vista bellissimi, ma il piacere che possono dare costa troppo caro. Neresi sarà stato ne’ tempi delle incursioni e piraterie più ragguardevole, e quindi conserva una sorte di primato, perché vi s’erano ritirati i principali isolani; adesso però che ponno essere abitati sicuramente i luoghi vicini al mare, ha perduto molto della sua popolazione, le case disabitate vi cadono in rovina da tutti i lati. Bol è una ragguardevole terra, S. Giovanni, S. Pietro e Pucischie sono grossi villaggi popolati di gente industriosa e commerciante. I monti superiori a Neresi, che formano come la spinale dell’isola, sono affatto sterili, e null’altro vi nasce che qualche ginepro e il pino silvestre, delle scheggie de’ quali si fa un picciolo
stroppiamenti di nomi, errori di posizione, che farebbero una lunga diceria. Mi sorprende però che non solo in parlando della Dalmazia, ma rendendo anche conto di città ragguardevoli e notissime d’Italia egli dica delle ridicole stravaganze. Non è l’ultima quella ch’egli scrive, fra le innumerabili altre, di Venezia (p. 29) garantita contro la fame dai pesci, che gli abitanti possono prendere stando sull’uscio delle loro case; è poi vergognosa cosa il non sapere il valore del nostro ducato, e fissarlo a L. 7 ½, com’egli era anticamente. Di Padova, di Vicenza, di Verona, e dell’altre città di Lombardia il signor Busching parla colla medesima esattezza, mettendo p. e. una catena di montagne fra Vicenza e Padova, dove abitano i Sette Comuni, che coltivano le viti. Come se gli dovrà credere allora quando ei ci parlerà delle terre australi?
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commercio per l’uso della pesca notturna. Sull’isola della Brazza trovansi molte varietà di pietre. Le più universali sono il marmo volgare, biancastro, il marmo ortoceratitico, il lenticolare e le breccie. Del primo veggonsi presso al porto di Spliska le cave antiche, d’onde fu tratta la materia per costruire il palazzo di Diocleziano. In quel medesimo luogo, ascendendo un poco verso i monti, trovasi un marmo di pasta nera, pieno di corpi marini cangiati in ispato bianco, salino. Vi si lavora una vena di pietra bianca, poco resistente allo scalpello quando sia estratta di fresco dal sito nativo, che indurasi poscia all’aria, e fa molto migliore riuscita che le pietre troppo dolci e famose di Costoggia, e di S. Gottardo nel Vicentino. Questo medesimo impasto di pietra si trova a S. Giovanni e a Pucischie, vale a dire alle due estremità opposte dell’isola. In altri tempi v’era conosciuta una miniera di pissasfalto, se si dee credere al Tomco Marnavich; io non ho potuto trovarne vestigio, e solo il mio dotto amico, signor Giulio Bajamonti, mi fece vedere a Spalatro un pezzo di pietra calcarea grigia, graveolente, piena di riconoscibili corpi marini, differente da tutte le altre pietre bituminose ch’io avea veduto in Dalmazia, e mi disse ch’era conosciuta sotto il nome di pietra pegolotta dagli scalpellini, e si trovava a Pucischie. Ne’ contorni del villaggio di S. Pietro trovansi presi nella pietra forte oltre le nummali, molti echiniti e pettiniti; sul porto di Postire domina una spezie di cote senza corpi marini, grigia e compatta, che scagliasi come le selci; a San Giovanni veggonsi fra le petrificazioni ceratomorfe delle fungiti e delle conche difie.
Il prodotto, per cui quest’isola era conosciuta presso gli Antichi, le rimane tuttora nella sua primitiva perfezione; Plinio la distingue dalle altre lodando i capretti che vi nasconoa. Difatto i capretti non solo, ma gli agnelli ancora, vi contraggono dalla perfezione de’ pascoli un sapore particolare, ed il latte del quale si nodriscono supera di molto quello de’ vicini paesi. Quindi ne avviene che il cacio della Brazza sia riputatissimo in Dalmazia e fuori. Le pecore sono state però quasi universalmente sostituite alle capre da quegl’isolani, come meno nocive ai
a«Capris laudata Brattia», Plin., 1. III, c. XXVI.
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boschi, de’ quali le capre sono desolatrici. Generalmente parlando le lane della Brazza sono di poco pregevole qualità: ma fa d’uopo eccettuarne buona parte delle greggie del conte Giuseppe Evelio, che ha introdotto delle razze forastiere ne’ suoi poderi di Pucischie, e le fa custodire con più attenzione di quello porti l’uso della provincia. Questo benemerito gentiluomo ha non solo migliorato di molto le proprie rendite, riformando gli abusi della mal intesa veterinaria ed agricoltura, ma è di già arrivato a scuotere col proprio esempio qualche altro. Gli apiari, le vigne, gli oliveti, che ad esso appartengono, sono altrettante prove delle di lui utili applicazioni agli studi economici, ch’egli ha saputo accoppiare agli ameni. Gli alveari dell’isola sono fabbricati di lastre di marmo tegolare ben lotate289, o cementate nelle congiunzioni; la lastra superiore è mobile a piacere del padrone, che vi tiene sopra un peso di sassi affinché il vento non la sollevi, allorché soffia con troppo impeto; l’apertura della lastra anteriore, per cui le api entrano ed escono, è picciolissima. Questi alveari sono moltiplicatissimi nel medesimo luogo; e il conte Evelio ne possiede parecchie centinaia. Egli usa d’ogni diligenza perché non manchino d’acqua e di pascolo, alle quali due disgrazie principalissime vanno soggetti gli apiari dell’isola.
Ad onta del suolo pietroso, la Brazza fa gran quantità di vino, il quale universalmente è tenuto pel migliore della Dalmazia; questo articolo, le legna e gli animali pecorini sono il nerbo delle rendite de’ Brazzani. L’isola produce anche oglio, fichi, mandorle, seta, zafferano e qualche poco di grani. V’è una quantità grandissima di lentischi, dalle bacche de’ quali i poveri contadini fanno oglio negli anni poco abbondanti d’ulive. Io ho avuto un saggio di quell’oglio, procuratomi da un gentiluomo del paese, e mi sono provato a condirne le vivande, né m’è sembrato difficile l’avvezzarmi al suo odore un poco forte. Le provvigioni necessarie al sostentamento della vita si comprano a bassissimo prezzo in quell’isola, e con poco denaro si mangiano anche de’ bocconi ghiotti; si hanno pell’ordinario tre beccafichi per un soldo veneziano, e tutto il resto in proporzione.
289Saldate, connesse col fango.
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La pesca è anch’essa un articolo non indifferente pell’isola, ma non è così considerabile come quella di Lesina e di Lissa; né le acque della Brazza hanno pesci particolarmente abitanti de’ loro fondi.
Si può quasi considerare come una continuazione della Brazza l’isola vicina di Solta, Όλύνθα di Scilace, detta Solentum nella Tavola peutingeriana, quantunque non dipenda dal medesimo Governatore, e sia soggetta a Spalatro così nel civile, come nell’ecclesiastico. Un solo picciolo scoglietto abitato da conigli s’alza nel canal di mare che la separa da essa. Solta gira intorno a ventiquattro miglia; è pochissimo abitata perché quasi tutta coperta di boschi, ne’ quali propagansi molte vipere, come anche in quelli della Brazza. Il suo miele è celebratissimo, e non cede a quello di Spagna o di Sicilia per verun titolo.
 
§. 4. Dell’isola d’Arbe, nel Golfo del Quarnaro
 
Egli è un terribile salto geografico questo passare tutto ad un tratto dall’isola della Brazza a quella d’Arbe290, che n’è ben centoventi miglia lontana. Ma che volete ch’io dica? I viaggiatori di mare ne fanno di più belle. Delle isole minori del mar di Sibenico e di Zara, io ho scritto quel poco che mi venne fatto d’osservarvi; di quelle di Cherso e d’Osero ho parlato forse anche più di quello portasse la discrezione; nell’altre isole del Quarnaro non mi sono fermato che momenti, e quella d’Arbe è la sola di cui possa dir qualche cosa di non inutile.
Quest’isola agli antichi geografi fu poco nota; si trova però nominata da Plinio, dalla Peutingeriana, e dal Porfirogenito; presso Tolommeo, per qualche difetto de’ copisti che avrà messo del disordine nel testo, l’isola è detta ΢καρδώνα, Scarduna, e le sono attribuite due città Arba e Colento. Gli Arbegiani, avendo delle ragioni per credere che due città esistessero nell’isola loro, tengono quasi per infallibile lo storpiato testo di questo geografo, nel quale l’isola loro bella e nobilissima viene
290Rab.
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confusa coll’incolto e disabitato isolotto di Scarda, contiguo all’isola di Pago. Città di tempi romani non ebbero gli Arbegiani probabilmente oltre quella, che porta il nome dell’isola, dalle di cui vicinanze sovente si traggono lapide antiche mallevadrici del vero. Io ho visitato le pretese rovine di Colento, e non ho potuto riconoscervi altro che i residui d’un ritiro, fabbricato dalla paura e dalla deboleza degl’isolani ne’ tempi barbari. Non è possibile che uomini ragionevoli avessero colà stabilito una dimora costante; imperciocché la situazione più aspra e sterile e fredda e ventosa anche nel cuor della state non può trovarsi. E poi verità di fatto che la costruzione delle mura mostra d’essere stata tumultuaria; che i vestigi di porte accusano un architetto rozzissimo; che non v’è una sola pietra riquadrata sul gusto antico, né verun frammento d’iscrizioni, o di pietrame nobile. Le piante delle casipole, che vi erano cinte dalla muraglia esteriore, non mostrano d’essere mai state destinate a contenere famiglie, così sono anguste e inabitabili. S’io fossi Arbegiano vorrei cercare i vestigi d’un’altra città, in luogo che facesse più onore ai fondatori di essa.
Quantunque capitale d’una picciola isola, che non eccede le trenta miglia di circuito, ed è incolta totalmente ed inabitabile nella sua parte più elevata, che guarda il Canale della Morlacca, la città d’Arbe si mantenne con decoro mai sempre. Che fosse abitata da persone colte ne’ tempi romani, lo provano le iscrizioni che frequentemente vi furono scoperte, alcune delle quali ora trovansi nella collezione dell’eccellentissimo signor cavaliere Jacopo Nani291, altre vi rimangono ancora. Ne’ secoli bassi soffrì tutte le disgrazie dalle quali furono afflitte le contrade vicine, ma si ristabilì sempre con decoro anche dalle desolazioni. L’Archivio della comunità d’Arbe ha delle carte antiche pregevolissime, che vi sono ancora custodite con somma gelosia, dalle quali rilevasi che nell’undecimo secolo gli abitanti aveano della familiarità coll’oro e colla seta.
291Jacopo Nani (1729-97) arricchì di 180 iscrizioni raccolte so Dalmazia e nel Peloponneso. di reperti orientali e di età cristiana, la già vasta collezione creata dal fratello Bernardo, Il Museo Nani rappresentò la più grande collezione veneziana, di orientamento archeologico erudito della seconda metà del ‘700, e la più famosa, grazie anche alle numerose descrizioni dei monumenti presenti che furono pubblicate.
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Dall’obbedienza de’ Re d’Ungheria passarono alla dipendenza di feudatari veneziani; indi direttamente sotto il dominio della Serenissima Repubblica, che vi tiene un patrizio col titolo di Conte, e Capitanio, dignità ch’era coperta con sommo decoro, rettitudine e prudenza nel tempo ch’io fui colà del nobil uomo signor Tommaso Barozzi, di cui resterà lungamente il desiderio ne’ cuori degli onesti cittadini.
La popolazione di tutta l’isola non oltrepassa di molto le tremille anime, distribuite in poche parrocchie, alle quali con poca quantità di sacerdoti si può supplire. Per una mostruosità insopportabile e di gravosissime conseguenze, a questo picciolo numero d’abitanti è addossato il carico di tre conventi di frati e tre di monache, oltre al riflessibile aggravio di quasi sessanta preti malissimo provveduti. Questo clero è governato da monsignore Giannantonio dall’Ostia, ottimo e dotto ed umanissimo prelato, adorno di tutte le qualità necessarie al suo stato, e di tutte le virtù sociali che costituiscono il vero e rispettabile filosofo.
Il clima d’Arbe non è de’ più costantemente felici; la stagione invernale vi è orrida, e agitata da venti boreali violentissimi, i quali non di raro trasformano in verno anche le stagioni intermedie, e giungono talvolta a far disparire la state. Gravissimi danni apportano all’isola questi venti nella stagione rigida, e in primavera. Due anni sono, intorno a dodicimila animali da lana vi perirono di freddo in una sola notte, pei pascoli comunali della montagna, dove, secondo l’uso universale della Dalmazia, sono lasciati allo scoperto in ogni stagione. La nebbia salsa, sollevata dalla commozione orribile de’ flutti, che suole mugghiare fra la montagna d’Arbe e le opposte Alpi nell’angusto Canale della Morlacca, abbrucia tutti i germogli delle piante e de’ seminati, se portata dal vento venga a cadere sull’isola; ella è seguita da una crudele carestia d’ogni cosa. Di questa disgrazia risentonsi anche le carni degli animali abbandonati al pascolo, che riescono di cattivo sapore in conseguenza dell’amaro e poco nutritivo alimento. Prescindendo da queste anomalie, l’aria d’Arbe è salubre, né si può accusarla d’avere influenza costante nelle febbri estive degli abitanti campagnuoli che
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provengono, second’ogni probabilità, dai cibi poco bene scelti, e da un regime di vita quasi ottentotto.
Il materiale dell’isola è amenissimo; né di quelle ch’io conosco in Dalmazia, alcuna può esserle paragonata. Dalla parte orientale ha un’altissima montagna, della natura e impasto medesimo che la Morlacca, di cui fu anticamente una parte. Appié di essa prolungasi il resto dell’isola verso ponente, e si divide in bellissime e feconde valli piane, e di colline atte a portare i più ricchi prodotti. All’estremità che guarda tramontana, stendesi in mare un delizioso promontorio detto Loparo, coronato di colline che racchiudono quasi perfettamente una bella pianura coltivata. Da questo sono poco distanti le due isolette di S. Gregorio e di Goli, utilissime a’ pastori e a’ pescatori. La costa d’Arbe, che guarda la montagna Morlacca, è tutta ripida e inaccessibile; guai al naviglio che sia colto dal furore de’ venti in quel canale privo di porti da entrambi i lati! Il lungo e angusto isolotto di Dolin, prolungandosi parallelamente all’isola d’Arbe lungo il lido detto di Barbado, vi forma un canale meno pericoloso, ma non tanto sicuro quanto bello da vedersi. I porti sono moltiplicati ne’ contorni della città, e facilitano il commercio della parte migliore dell’isola girandone l’estremità, che guarda fra ponente e tramontana.
La città d’Arbe siede su d’una collina allungata fra due porti, che ne formano una penisola, e raccoglie intorno a mille abitanti, fra’ quali molte famiglie riguardevoli pella loro nobiltà, e poche notabili pelle loro finanze. Le principali sono i de Dominis, da’ quali uscì il celebre arcivescovo di Spalatro Marc’Antonio, i Galzigna, i Nemira, ch’ebbero nel XV secolo un Antonio, lodato da Palladio Fosco292 come dottissimo delle matematiche, imparate da lui senza maestro; gli Spalatini che ricevono adesso un nuovo lustro da monsignor Vescovo di Corzola, rispettabile pell’aureo costume non meno che pel suo sapere, e i Zudenighi.
Fra le cose loro più illustri vantano gli Arbegiani molte insigni reliquie, e nominatamente il capo di s. Cristofano, protettore dell’isola; ma gli amatori
292Autore di una pregevole descrizione geografica, dettagliata e vivace, De situ orae Illyrici libri duo, edita a Roma già nel 1540 e confluita poi negli Scriptores rerum Hungaricarum.
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dell’antichità sacra troveranno ben più singolari le tre teste de’ fanciulli Sidrach, Misach e Abdenago, che vi si venerano con molta divozione. Il Santuario è gelosamente custodito da quattro de’ principali gentiluomini, alla cura de’ quali sono anche raccomandati i preziosi antichi documenti della città. Fra questi è una transazione del 1018, con cui la città d’Arbe promette al doge di Venezia Ottone Orseolo un tributo d’alcune libbre de seta serica, e al caso di contravvenzione libbre de auro obrizo.
V’ebbe nella passata età un dotto vescovo d’Arbe che chiamavasi Ottavio Spaderi293, a cui venne in capo di non voler permettere che fossero esposte alla pubblica venerazione nella solenne giornata di s. Cristoforo queste reliquie, sopra l’autenticità delle quali egli aveva dei dubbi. fl popolo sollevato ebbe a precipitano in mare, dall’alto della collina su di cui sorge la cattedrale; né il tumulto s’acchetò passato il momento. Il Governo mandò un legno armato per trarre il prelato dal pericolo; e il Papa si credette in dovere di dargli una sposa più docile in Italia. L’indole del suolo d’Arbe non è la medesima in ogni situazione, che anzi difficilmente io saprei trovar un paese, dove in picciolo spazio tanta varietà si riunisse. V’è una differenza sensibiissima fra lo stato dell’estremità della montagna, bagnata dal canale di Barbado rimpetto a Dolin, e il dorso di essa, che dall’una parte guarda l’interno dell’isola d’Arbe, dall’altra le Alpi della Moriacca. La sommità della montagna medesima non è sempre della stessa costituzione, e talvolta stendesi in bella ed eguale pianura, parte selvosa e parte atta a seminagione, talvolta è tutta scogliosa e di nudi marmi composta. I fondi situati appié della montagna, laddove s’avanza verso il litorale opposto di Jabianaz, sono di vivo marmo; nella contrada di Barbado sono ghiaiuolosi, e di fondo attissimo a trattenere le radici delle viti fresche per lungo tempo. I sassolini vi sono angolosi perché poco fluitati dall’acque che gli hanno deposti; i loro più antichi strati vanno indurandosi sotterra pella filtrazione delle piovane. Il vino di Barbado è d’ottima qualità, e quindi riputatissimo; né quasi altro genere coltivasi
293Francescano, nato a Zara nel 1646, vescovo di Arbe dal 1695 al ‘99 e successivamente di Assisi, dove morì, scrisse opere filosofiche, teologiche ed agiografiche.
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lungo quel litorale, dove così bene riescono le vigne anche ad onta della negligente coltura. Appié delle pretese rovine di Colento, il terreno porta oltre le viti anche ulivi, mori, alberi da frutto, ed in qualche sito basso è opportuno alle seminagioni. Tutta la parte inferiore dell’isola, alternativamente composta di colline e valli, è d’un impasto per lo più differentissimo da quello della montagna, e delle aggiacenze di essa. Come l’ossatura della montagna è tutta marmorea, così l’ossatura de’ colli è pell’ordinario arenosa. La cote vi predomina e spesso contiene ostraciti e lenticolari; lo strato esteriore suoi esserne facilmente dissolvibile. Le valli,, che dovrebbono trovarvisi second’ogni apparenza piene d’arena, sono provvedute d’un terreno eccellente, che ha tanta porzione di minutissima sabbia, quanta n’è opportuna per tenerlo leggieri. Le acque sorgenti, assai ben distribuite dalla natura pell’isola, vi mantengono una ragionevole umidezza, quando la state non sia eccessivamente arida, per modo che la cupa verdura de’ coffi vestiti di bosco, la lussureggiante frondosità delle viti, e la freschezza de’ seminati formano uno spettacolo veramente consolante ed ameno. L’isola d’Arbe avrebbe tutto il necessario alla sussistenza della sua picciola popolazione, se l’agricoltura vi fosse esercitata da un popolo meno stupido e infingardo. Ad ogni modo però ella produce legna da bruciare, di cui si fanno molti carichi annualmente per Venezia, grani, oglio, vino eccellente, acquavite, e seta da tempi antichissimi, dando per cibo ai bachi le foglie del moro nero; manda fuori anche cuoi, lane, ed animali pecorini, porci, e cavalli di buona razza. Il mare incomincia ad esserle utile per le saline, che si lavorano sull’isola, e danno abbondanza di buoni sali minuti; la pescagione poi de’ tonni, degli sgomberi, de’ lanzardi, e delle sardelle, ad onta dell’esservi malissimo e poltronamente trattata, fa un importante articolo del commercio degli Arbegiani, i quali (come tutto il resto della Dalmazia) trovano il loro conto nel vendere questo genere a’ forastieri, piuttosto che a’ Veneziani. Con tutti questi suoi prodotti naturali l’isola è ben lungi dall’essere ricca, o in uno stato di sufficiente floridezza: perch’è troppo comune cosa il vedervi terreni incolti, e contadini oziosi.
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Facendo delle osservazioni intorno alla storia fossile dell’isola d’Arbe, mi sembrò di rinvenirvi qualche cosa d’assai curioso. La sommità della montagna è quasi piana, come vi ho accennato, ed in alcuni luoghi è depressa a foggia di catino. Esaminando con diligenza i massi di marmo che vi sono sparsi dipendentemente dagli strati, trovai, senza punto restarne meravigliato perché frequentemente incontrai cosa simile, che in buona parte erano breccie; e mi compiacqui della maggior forza che acquistava la mia opinione sopra l’antico stato delle montagne di quelle contrade. Ciò che mi riuscì nuovo si fu l’incontrare su di quelle altezze grandissimi tratti di minuta arena, mescolata con una terra ocracea ferruginosa, deposta a strati regolarissimi, come son quelli che si formano dalle alluvioni de’ nostri fiumi reali294, Volli esaminare sotto il microscopio quest’arena così stranamente situata su la cima d’una montagna in isola; e trovai ch’ella è quarzosa, e manifestamente prodotta dal trituramento di materie staccate da montagne minerali.
Voi non vi scandalezzerete certamente, dottissimo amico, ch’io pronunzi con asseveranza che l’arena quarzosa viene dal trituramento de’ sassi montani portati giù da’ torrenti, e sminuzzati dall’assidua confricazione in seguendo il corso de’ fiumi. Le nostre acque di Lombardia, e il Po particolarmente, non ci lasciano dubitare di questo fatto, a cui la ragione sola potrebbe condurre un uomo, che non avesse mai veduto le sponde de’ gran fiumi lontane dalle sorgenti. I naturalisti del Nord, e fra questi il Wallerio celebratissimo e degno certamente della celebrità sua, per non impegnarsi, cred’io, in ricerche, le conseguenze delle quali potessero avere un’apparenza di contraddizione colle opinioni rispettate intorno all’età del mondo, prese il partito di accordare all’arena una strana preesistenza, e far che da essa generalmente sieno state formate le pietre; il che appunto è un dire che la farina preesisté al frumentoa. Io ho trovato stranissimo
294Fiumi che ricevono affluenti e sfociano in mare mantenendo inalterato il proprio nome.
aArenae usum praestant aequalem ut aliae terrae in eo quod originem praebeant lapidibus, et montibus; onde et patet arenam esse saxo priorem», Wall., Syst. Mineral., 1772, p. 101 e alla p. 107. Obs.
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che il grand’uomo, dopo d’avere riferito sopra l’origine delle arene il parere d’Aristotele e d’altri Antichi, che la ripetevano dalle montagne e dalle pietre distrutte, e dopo d’aver per necessità accordato che ad una parte di esse altro nascimento non si può dare, siasi spaventato della gran quantità e della situazione delle arene, così sotterranee come subacquee, ed abbiala creduta un ostacolo allo stabilimento dell’antica ragionevole opinione. Egli è ben vero che le pietre aggregate (fra le quali io metto anche le coti della più fina grana) riconoscono immediatamente l’origine loro dall’accozzamento delle sabbie, o delle arene minute: ma questo non prova che le sabbie non sieno nate dal disgregamento delle pietre. Non sarebb’egli un inconseguentissimo ragionatore colui che, prendendo in mano della sabbia del Po, si voltasse alle montagne, d’onde questo gran fiume discende, e dicesse «oh, adesso sì, ch’io ho capito di che si formano le montagne!» invece di dire «ho capito d’onde si formino le sabbie»? L’opinione del Wallerio, intorno alla generazione delle arene, dee sembrare per lo meno singolare a chi sa ch’elleno corrispondono perfettamente nella sostanza, e nell’estensione agli strati di pietre calcaree e quarzose, da’ quali naturalmente si deggiono far derivare. Uditelo alla pag. 108, Osservazione 5. Egli c’insegna che «probabilmente le arene quarzose sono state sin dal principio generate da una materia viscosa, o vogliamo dire gelatinosa, generata dalle acque, e mescolata con esse, indi successivamente divisa in granellini, poi condensata, e indurata». Egli fa degli sforzi, perché servano di prove a questa genesi, le fessure che col microscopio si veggono ne’ piccioli atometti d’arena, e l’adesione a questi granellini medesimi delle particelle metalliche; come se non fosse da una facile sperienza dimostrato che un pezzo di quarzo tolto da qualche minera, ben polverizzato sotto il martello, indi lavato nell’acqua, dà granellini d’arena, ne’ quali si osservano tutte le crepature, e le particole metalliche, cui presentano all’occhio armato le arene quarzose subacquee, e le sotterranee da antiche acque
2: «Vetat tamen ingens quantitas, nec non situs arenae tam subterraneus, quam subacquosus, ut hoc de omni arena dici possit [...] Plurimos montes ab arena concretos facilius demonstrari potest quam arenam ab his destructis esse ortam»
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depositate. Dopo tutto questo, non è quasi da trovare strano ch’egli peni ad accordare alle sabbie calcaree l’origine dalle pietre spatose e calcaree detrite (p. 109), ed a fatica pronunzi che probabilmente vengono da esse. Se mettevasi a fare delle nuove teorie anche pella sabbia calcarea, il grand’uomo avrebbe poi messo un giorno o l’altro in questione l’origine delle più grosse ghiaie, e poi de’ massi che rotolano qualche volta dalla sommità sino alle radici de’ monti; e chi sa quante nuove cose ci avrebbe detto!
Nella minuta arena della sommità della montagna, in un luogo detto Crazzich trovansi de’ gruppi erranti, e qualche filone perpendicolare di geode, così compatta e pesante, che merita d’essere riposta fra le non povere miniere di ferro. Anticamente anche il dorso della montagna era coperto di lecci, e dal fianco di essa che guarda Loparo, scendeva al mare lavata dalle piovane l’arena minutissima quarzosa, conosciuta da’ marmorai e nelle officine vetrarie sotto il nome di saldame. E probabile che Plinioa abbia parlato di questo sito, laddove dice che per segare i marmi «era stata trovata una buona spezie d’arena in un fondo vadoso dell’Adriatico, che restava scoperto nel recedere della marea». La spiaggia che giace appié dell’aspro e sassoso monte, detto ancora Verch od mela, il Colle della sabbia, quantunque sabbia non vi sia più, è tutta di saldame, come lo sono vari altri siti dell’isola, dove il mare batte contro le radici de’ colli arenosi. Ecco il caso d’imbrogliare i futuri orittologi; caso che come vedrete più sotto accadde altre volte. L’arena che occupava la superficie della montagna, dove sopra strati di marmo ortoceratitico e di breccie d’antichissima origine fu deposta da mari, o da fiumi antichi (il che mi sembra più probabile, perché non ha vestigi di corpi marini), adesso è discesa colle piovane dalla sua residenza, e si mescola co’ testacei d’un nuovo mare, che naturalmente non produce arene simili, distruggendo i monti litorali calcarei. Chi sa dopo quanto tempo ella si petrificherà insieme co’ corpi marini, e dopo quanto altro ella si troverà nelle basi de’ monti nuovi! Sembra che questa spezie d’arena sia venuta ben di lontano,
aPlin,, 1. XXXVI, cap. VI.
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imperocché monti minerali non esistono lungo il nostro Adriatico, e che abbia poi anche subito delle rivoluzioni anteriori a quella che soffre presentemente. Nel colle su di cui sorge la città d’Arbe, la cote ha quest’arena per base, e racchiude sovente una quantità grandissima di lenticolari, che sono, come ognun sa, produzioni d’ancora ignoto mare, non accordandosi con esse il porpita, descritto dal Linneo pel loro originale nelle Amenità accademicheb. Ne’ colli di Loparo trovansi frequentemente le nummali lapidefatte erranti nella rena appena rassodata, di modo che le acque eventuali ne le staccano e traggono seco. In questi colli arenosi che tutti vanno a poco a poco disfabbricandosi pegli urti del mare contiguo, trovansi anche frequentemente degli echiniti petrificati di varie spezie e grandezze, esotici; come se ne trovano anche sulle rive del porto d’Arbe opposte alla città. Presso al porto di Campora e al porto Domich, la pietra arenario-quarzosa delle colline racchiude, in grandissima quantità, ostraciti e nummali petrificate. Egli è evidente che queste colline sono di formazione posteriore a quella della montagna: ma contuttociò deggiono essere ben antiche, se contengono petrificazioni straniere ai nostri mari e climi presenti! Nel colle dove hanno l’ameno loro passeggio gli Arbegiani, trovansi presi nella cote de’ pezzuoli irregolari di selce e diaspro, ne’ quali talora veggonsi de’ frammenti marini. Io non vorrei però trarne la conclusione del Wallerio (p. 305): «Quindi è evidente che si danno anche diaspri diluviani, generati dalla materia fluida che può ricevere in se, e racchiudere corpi stranieri». Le osservazioni replicatamente fatte su’ cangiamenti de’ quali sono suscettibili le pietre, m’hanno chiarito che per la maggior parte le selci e i diaspri non si sono mai trovati in istato di fluidità; e posseggo una picciola serie di produzioni fossili de’ monti Euganei, raccolta colle mie mani medesime, da cui si ponno trarre di molti lumi pella genesi di questa classe di pietre.
La breccia della montagna d’Arbe riceve bel pulimento, ella è pell’ordinario macchiata di bianco, e unita con un cemento rosso vivissimo; i pezzi che la
bCaroli Linnaei Amoen. Acad., t. I. p. 177. De Coralliis Balthicis. Fig. V a. b. tomo IV, p. 257. Chinesia Lagerstromiana. Fig. 7. 8, 9.
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compongono sono angolosi, e di marmo fino. Giacché vi ho detto audacemente qualche cosa contro le opinioni del Wallerio intorno alla generazione delle arene, non tralascierò di confessarvi che la sua teoria delle pietre aggregate mi pare ancora più strana ed opposta alle osservazioni di fatto fisico. Io non intendo d’erigermi in censore del sommo naturalista, ma desidero che Voi mi dispensiate dall’ammirarlo su di questo proposito, come lo ammiro su di tanti altri punti. Egli dicea che appena gli sembra possibile che i sassi, e le pietre componenti gli strati aggregati, avessero potuto vicendevolmente conglutinarsi, quando non fossero state di più molle consistenza, non avendo ingresso per modo alcuno ne’ sassi perfettamente duri la materia conglutinante. Quindi conclude: 1° Che la frattura delle pietre e de’ sassi sia stata operata nel momento della diseccazione, e indurazione, pell’attrazione rispettiva delle particole, pella compressione, per qualche precipitazione, o simile altra causa. 2° Che questi sassi aggregati si unirono a formare un corpo solo mentr’erano ancora cli pasta molle. 3° Che questa unione fu per lo meno incominciata in luoghi sotterranei, dove furono operate le fratture; non sembrando possibile che alcuna generazione, o con glutinazione petrosa, possa farsi all’aria aperta. 4° Che incominciata, o perfezionata la conglutinazione, questi sassi sieno stati cacciati alla superficie delle terre e de’ monti da qualche forza enorme [...] In una parola, che la frattura de’ materiali, e l’incominciamento della loro con glutinazione sia stato antediluviano; e diluviana poi la presenza delle pietre e sassi con glutinati alla superficie della terra e de’ monti. Io lascio per ora da parte l’improprietà delle voci ricordanti glutine, di cui certamente non si tratta negli aggregati calcarei, o vitrescenti, operati dalla cristallizzazione, o tartarizzazione, e dalla fusione ora più ora meno perfetta. Le quattro proposizioni del Wallerio sono contraddette dal fatto; e in quanto alla prima è costantissima verità che le pietruzze angolose, di cui sono formate le breccie, veggonsi confuse e rimescolate assieme, e varie nell’impasto per modo che non si può nemmeno sospettarle d’antica continuità.
aWall., Syst. Min., p. 431, Obs. 2, ed. cit.
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Le breccie poi, che noi veggiamo sotto gli occhi nostri formarsi appié delle montagne e lungo le sponde de’ torrenti, manifestamente ci mostrano il meccanismo di cui servesi la natura per accozzarle. Che sieno stati molli i sassi componenti le breccie, allorché furono congesti assieme, non è credibile. Basta rompere vari pezzi di breccia per vedere che ogni pietruzza vi sta da se; accade anche sovente che si possano separare ad una ad una, quando il cemento che le tiene unite non sia divenuto bastevolmente petroso. Se fossero state molli nel momento di coagmentarsi, l’una avrebbe compenetrato l’altra bene spesso, il che non si vede giammai. La terza asserzione è inconsideratissima per ogni riguardo; imperocché, dall’esame delle pietre aggregate dalle acque, risulta precisamente che non è possibile sieno state unite sotterra, come possono esserlo state quelle che si riconoscono per produzioni del fuoco vulcanico. E poi una solenne distrazione il dire che all’aria aperta non sembra possibile che si generino o indurino sostanze lapidose: mentre una quantità di stalagmie formansi ne’ luoghi più esposti all’aria, e le incrostazioni petrose delle acque termali crescono, di giorno in giorno, all’aperto sotto gli occhi dell’osservatore. La quarta è affatto lontana dal vero e dal buon senso orittologico, dacché le breccie trovansi disposte a strati vastissimi e regolari, sopra altri strati d’impasto meno vario, estesi ad eguale vastità; né può mai essere concepibile che una forza sotterranea gli abbia espulsi dalle viscere della terra, senza scombussolarli e sconnetterli in mille modi. La distinzione de’ due tempi, antediluviano e diluviano, relativamente a questo genere di pietre, non mi sembra poi soddisfacente. Stando nel suo sistema diluviano, d’onde ripeterebbe il Wallerio le molte petrificazioni di corpi marini esotici, chiuse ne’ ciottoli componenti le breccie?
Non è però la breccia il più interessante e pregevole marmo che diano l’isola d’Arbe, e le due isolette di S. Gregorio e di Goli, contigue al capo di Loparo. Vi si trova in grandissima abbondanza il marmo bianco statuario, perfettamente simile nella grana a quello di cui si servirono gli antichi Romani, che non sempre, come volgarmente credesi, era greco. Egli non ha quella candidezza di neve, che passa
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per una buona qualità nel marmo di Carrara, e che inganna pur troppo spesso lo statuario, non meno che i giudici de’ di lui lavori. La perfetta rassomiglianza del marmo bianco tolto dalle statue romane, e di quello che ritrovasi egualmente al pié della montagna d’Arbe verso Loparo e nelle due isolette soprannominate; il nome antico di Loparo, che per quanto mi fu detto rilevarsi da documenti esistenti in Arbe, era Neoparos; la probabilità che le barche da carico romane, andando a prendere della rena indicata da Plinio ne’ bassi fondi vicini, avessero anche scoperto questo marmo che in abbondanza vi si ritrova; la gran quantità di rottami di esso tuttora angolosi ed irregolari, benché dal tempo corrosi alla superfizie, che ritrovasi appié del Monte della Sabbia, sono ragioni che m’inducono a credere vi fossero delle lapicidine antiche in questo luogo, dalle quali una parte degli statuari romani traesse la materia de’ suoi lavori. L’impasto del marmo statuario d’Arbe è un aggregato d’ortocerati, e nummali della maggior mole, ma per avvedersene fa d’uopo esaminare di que’ rottami corrosi, ch’io v’ho indicato; allorché si guarda lisciato dallo scalpellino, ogni vestigio de’ corpi estranei sparisce: così egualmente si perfezionò la petrificazione loro tanto nella sostanza, quanto nel colore. Rompendo qualche pezzo di questo marmo statuario, si trova ch’è internamente cristallizzato come gli altri marmi compresi nella categoria de’ salmi. Io mi trovai contento di questa scoperta più che d’ogni altra mia osservazione, perché mi parve la più immediatamente utile alla nazione, e la più atta a liberarci da un annuo dispendio riflessibile, che si fa nell’acquisto di due gran carichi di marmo carrarese. E anche tanto più opportuna la scoperta, quanto che da Carrara non ce ne viene oggimai portato di buona qualità, dopo che gl’Inglesi hanno stabilito a Massa un agente, che acquista per conto loro i pezzi più netti, e lascia pegl’Italiani il venato, e macchiato di cenerognolo, che riesce malissimo nelle statue e in ogni altro lavoro nobile.
Nelle acque d’Arbe e di Pago io ho fatto parecchie osservazioni sulla luce fosforica marina, delle quali prendo impegno di rendervi informato allora che le averò ridotte a qualche grado di perfezione. Intanto aggradite, valorosissimo amico, il
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poco ch’io vi posso donare; e guardate questa lettera come una prova della mia amicizia e venerazione per Voi, che occupate un sì eminente luogo fra i naturalisti, ed insegnate agli oltramontani che anche nell’età presente vive fra noi il genio de’ Vallisnieri, e dei Redi295, pe’ quali crebbe l’Italia nostra in tanto onore altrevolte.
295Letterato, accademico della Crusca e del Cimento, Francesco Redi (1626-98) fu anche medico, naturalista, studioso di varie e diverse discipline: come osservatore e sperimentatore le sue ricerche, condotte secondo i principi del metodo sperimentale, risultano di fondamentale importanza: in particolare i suoi studi di parassitologia e di biologia. Dimostrò l’infondatezza della teoria della generazione spontanea. Proseguì tale indagine, giungendo a definitive conclusioni Antonio Vallisnieri (1661-1730): naturalista e letterato, tra i più acuti e aggiornati illuministi italiani, e forse il più illustre rappresentante della cultura scientifica elaborata tra Padova e Bologna. Svolse tra l’altro determinanti ricerche sulla generazione degli insetti, sull’anatomia umana e sulla natura e struttura dei fossili.
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SOMMARIO
Introduzione .................................................................................................................................... I
1. Il «Viaggio in Dalmazia» ............................................................................................... I
2. Vita e opere di Alberto Fortis ............................................................................. XIX
INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE ............................................................................................ XXIX
NOTA AL TESTO .................................................................................................................... XXXI
VIAGGIO IN DALMAZIA ........................................................................................................ 1
VOLUME SECONDO. .......................................................................................................... 157
Sommario ................................................................................................................................... 325