In morte di Carlo Imbonati (1881): differenze tra le versioni

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{{Qualità|avz=75%|data=18 aprile 2008|arg=Da definire}}{{Intestazione letteratura
{{opera
|NomeCognome Nome e cognome dell'autore = Alessandro Manzoni
|TitoloOpera Titolo = In morte di Carlo Imbonati
| Iniziale del titolo = I
|NomePaginaOpera Nome della pagina principale = In morte di Carlo Imbonati
|AnnoPubblicazione=1806
| Eventuale titolo della sezione o del capitolo =
|TitoloSezione=
| Anno di pubblicazione = 1806
| Eventuale secondo anno di pubblicazione =
| Secolo di pubblicazione = XIX secolo
| Il testo è una traduzione? = no
| Lingua originale del testo =
| Nome e cognome del traduttore =
| Anno di traduzione =
| Secolo di traduzione =
| Abbiamo la versione cartacea a fronte? = no
| URL della versione cartacea a fronte =
}}
 
 
''Versi di Alessandro Manzoni a Giulia Beccaria sua madre''
<div align="right">''Ch'ambo i vestigi tuoi cerchiam piangendo.''<br />
''Casa, Gennaio 1806''</div>
 
<poem>
Se mai più che d'Euterpe il furor santo
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L'amaro ghigno di Talia mi piacque
Non è consiglio di maligno petto.
{{R|5}}Né del mio secol sozzo io già vorrei
Rimescolar la fetida belletta,
Se un raggio in terra di virtù vedessi,
Cui sacrar la mia rima. A te sovente
Così diss'io: ma poi che sospirando,
{{R|10}}Come si fa di cosa amata e tolta,
Narrar t'udia di che virtù fu tempio
Il casto petto di colui che piangi;
Sarà, dicea, che di tal merto pera
Ogni memoria? E da cotanto esemplo
{{R|15}}Nullo conforto il giusto tragga, e nulla
Vergogna il tristo? Era la notte; e questo
Pensiero i sensi m'avea presi; quando,
Le ciglia aprendo, mi parea vederlo
Dentro limpida luce a me venire,
{{R|20}}A tacit'orma. Qual mentita in tela,
Per far con gli occhi a l'egra mente inganno,
Quasi a culto, la miri, era la faccia.
Come d'infermo, cui feroce e lungo
Malor discarna, se dal sonno è vinto,
{{R|25}}Che sotto i solchi del dolor, nel volto
Mostra la calma, era l'aspetto. Aperta
La fronte, e quale anco gl'ignoti affida:
Ma ricetto parea d'alti pensieri.
Sereno il ciglio e mite, ed al sorriso
{{R|30}}Non difficile il labbro. A me dappresso
Poi ch'e' fu fatto, placido del letto
Su la sponda si pose. Io d'abbracciarlo,
Di favellare ardea; ma irrigidita
Da timor da stupor da reverenza
{{R|35}}Stette la lingua; e mi tremò la palma,
Che a l'amplesso correva. Ei dolcemente
Incominciò: Quella virtù, che crea
Di due boni l'amor, che sian tra loro
Conosciuti di cor, se non di volto,
{{R|40}}A vederti mi tragge. E sai se, quando
Il mio cor ne le membra ancor battea,
Di te fu pieno; e quanta parte avesti
De gli estremi suoi moti. Or poi che dato
Non m'è, com'io bramava, a passo a passo
{{R|45}}Per man guidarti su la via scoscesa,
Che anelando ho fornita, e tu cominci,
Volli almeno una volta confortarti
Di mia presenza. Io, con sommessa voce,
Com'uom, che parla al suo maggiore, e pensa
{{R|50}}Ciò che dir debba, e pur dubbiando dice,
Risposi: Allor ch'io l'amorose e vere
Note leggea, che a me dettasti prime,
E novissime furo; e la dolcezza
De l'esser teco presentia, chi detto
{{R|55}}M'avria che tolto m'eri! E quando in caldo
Scritto gli affetti del mio cor t'apersi,
Che non saria da gli occhi tuoi veduto,
Chiusi per sempre! Or quanto, e come acerbo
Di te nutrissi desiderio, il pensa.
{{R|60}}E come il pellegrin, che d'amor preso
Di non vista città, ver quella move;
E quando spera che la meta il paghi
Del cammin duro e lungo, e fiso osserva
Se le torri bramate apparir veggia;
{{R|65}}E mira più da presso i fondamenti
Per crollo di tremuoto in su rivolti,
E le porte abbattute, e fòri e case
Tutto in ruina inospital converso;
E i meschini rimasti interrogando,
{{R|70}}Con pianto ascolta raccontar dei pregi
E disegnar dei siti; a questo modo
Io sentia le tue lodi; e qual tu fosti
Di retto acuto senno, d'incolpato
Costume, e d'alte voglie, ugual, sincero,
{{R|75}}Non vantator di probità, ma probo:
Com'oggi al mondo al par di te nessuno
Gusti il sapor del beneficio, e senta
Dolor de l'altrui danno. Egli ascoltava
Con volto né superbo né modesto.
{{R|80}}Io rincorato proseguia: Se cura,
Se pensier di quaggiù vince l'avello
Certo so ben che il duol t'aggiunge e il pianto
Di lei che amasti ed ami ancor, che tutto,
Te perdendo, ha perduto. E se possanza
{{R|85}}Di pietoso desio t'avrà condotto
Fra i tuoi cari un istante, avrai veduto
Grondar la stilla del dolor sul primo
Bacio materno. Io favellava ancora,
Quand'ei l'umido ciglio e le man giunte
{{R|90}}Alzando inver lo loco onde a me venne,
Mestamente sorrise, e: Se non fosse
Ch'io t'amo tanto, io pregherei che ratto
Quell'anima gentil fuor de le membra
Prendesse il vol, per chiuder l'ali in grembo
{{R|95}}Di Quei, ch'eterna ciò che a Lui somiglia.
Ché finch'io non la veggo, e ch'io son certo
Di mai più non lasciarla, esser felice
Pienamente non posso. A questi accenti
Chinammo il volto, e taciti ristemmo:
{{R|100}}Ma per gli occhi d'entrambi il cor parlava.
Poi che il pianto e i singulti a le parole
Dieder la via, ripresi: A le sue piaghe
Sarà dittamo e latte il raccontarle
Che del tuo dolce aspetto io fui beato,
{{R|105}}E ridirle i tuoi detti. Ora, per lei
Ten prego, dammi che d'un dubbio fero
Toglierla io possa. Allor che de la vita
Fosti al fin presso, o spasimo, o difetto
Di possanza vital feceti a gli occhi
{{R|110}}Il dardo balenar che ti percosse?
O pur ti giunse impreveduto e mite?
Come da sonno, rispondea, si solve
Uom, che né brama né timor governa,
Dolcemente così dal mortal carco
{{R|115}}Mi sentii sviluppato; e volto indietro,
Per cercar lei, che al fianco mio mi stava,
Più non la vidi. E s'anco avessi innanzi
Saputo il mio morir, per lei soltanto
Avrei pianto, e per te: se ciò non era,
{{R|120}}Che dolermi dovea? Forse il partirmi
Da questa terra, ov'è il ben far portento,
E somma lode il non aver peccato?
Dove il pensier da la parola è sempre
Altro, e virtù per ogni labbro ad alta
{{R|125}}Voce lodata, ma nei cor derisa;
Dov'è spento il pudor; dove sagace
Usura è fatto il beneficio, e brutta
Lussuria amor; dove sol reo si stima
Chi non compie il delitto; ove il delitto
{{R|130}}Turpe non è, se fortunato; dove
Sempre in alto i ribaldi, e i buoni in fondo.
Dura è pel giusto solitario, il credi,
Dura, e pur troppo disegual, la guerra
Contra i perversi affratellati e molti.
{{R|135}}Tu, cui non piacque su la via più trita
La folla urtar che dietro al piacer corre
E a l'onor vano e al lucro; e de le sale
Al gracchiar voto, e del censito volgo
Al petulante cinquettio, d'amici
{{R|140}}Ceto preponi intemerati e pochi,
E la pacata compagnia di quelli
Che, spenti, al mondo anco son pregio e norma,
Segui tua strada; e dal viril proposto
Non ti partir, se sai. Questa, risposi,
{{R|145}}Qualsia favilla, che mia mente alluma,
Custodii, com'io valgo, e tenni viva
Finor. Né ti dirò com'io, nodrito
In sozzo ovil di mercenario armento,
Gli aridi bronchi fastidendo e il pasto
{{R|150}}De l'insipida stoppia, il viso torsi
Da la fetente mangiatoia; e franco
M'addussi al sorso de l'Ascrea fontana.
Come talor, discepolo di tale,
Cui mi saria vergogna esser maestro,
{{R|155}}Mi volsi ai prischi sommi; e ne fui preso
Di tanto amor, che mi parea vederli
Veracemente, e ragionar con loro.
Né l'orecchio tuo santo io vo' del nome
Macchiar de' vili, che oziosi sempre,
{{R|160}}Fuor che in mal far, contra il mio nome armaro
L'operosa calunnia. A le lor grida
Silenzio opposi, e a l'odio lor disprezzo.
Qual merti l'ira mia fra lor non veggio;
Ond'io lieve men vado a mia salita,
{{R|165}}Non li curando. Or dimmi, e non ti gravi,
Se di te vero udii che la divina
De le Muse armonia poco curasti.
Sorrise alquanto, e rispondea: Qualunque
Di chiaro esempio, o di veraci carte
{{R|170}}Giovasse altrui, fu da me sempre avuto
In onor sommo. E venerando il nome
Fummi di lui, che ne le reggie primo
l'orma stampò de l'italo coturno:
E l'aureo manto lacerato ai grandi,
{{R|175}}Mostrò lor piaghe, e vendicò gli umili;
E di quel, che sul plettro immacolato
Cantò per me: Torna a fiorir la rosa.
Cui, di maestro a me poi fatto amico,
Con reverente affetto ammirai sempre
{{R|180}}Scola e palestra di virtù. Ma sdegno
Mi fero i mille, che tu vedi un tanto
Nome usurparsi, e portar seco in Pindo
L'immondizia del trivio e l'arroganza
E i vizj lor; che di perduta fama
{{R|185}}Vedi, e di morto ingegno, un vergognoso
Far di lodi mercato e di strapazzi.
Stolti! Non ombra di possente amico,
Né lodator comprati avea quel sommo
D'occhi cieco, e divin raggio di mente,
{{R|190}}Che per la Grecia mendicò cantando.
Solo d'Ascra venian le fide amiche
Esulando con esso, e la mal certa
Con le destre vocali orma reggendo:
Cui poi, tolto a la terra, Argo ad Atene,
{{R|195}}E Rodi a Smirna cittadin contende:
E patria ei non conosce altra che il cielo.
Ma voi, gran tempo ai mal lordati fogli
Sopravissuti, oscura e disonesta
Canizie attende. E tacque; e scosso il capo,
{{R|200}}E sporto il labbro, amaramente il torse,
Com'uom cui cosa appare ond'egli ha schifo.
Gioja il suo dir mi porse, e non ignota
Bile destommi; e replicai: Deh! vogli
La via segnarmi, onde toccar la cima
{{R|205}}Io possa, o far che, s'io cadrò su l'erta,
Dicasi almen: su l'orma propria ei giace.
Sentir, riprese, e meditar: di poco
Esser contento: da la meta mai
Non torcer gli occhi: conservar la mano
{{R|210}}Pura e la mente: de le umane cose
Tanto sperimentar, quanto ti basti
Per non curarle: non ti far mai servo:
Non far tregua coi vili: il santo Vero
Mai non tradir: né proferir mai verbo,
{{R|215}}Che plauda al vizio, o la virtù derida.
O maestro, o, gridai, scorta amorosa,
Non mi lasciar; del tuo consiglio il raggio
Non mi sia spento; a governar rimani
Me, cui natura e gioventù fa cieco
{{R|220}}L'ingegno, e serva la ragion del core.
Così parlava e lagrimava: al mio
Pianto ei compianse, e: Non è questa, disse,
Quella città, dove sarem compagni
Eternamente. Ora colei, cui figlio
{{R|225}}Se' per natura, e per eletta amico,
Ama ed ascolta, e di filial dolcezza
L'intensa amaritudine le molci.
Dille ch'io so, ch'ella sol cerca il piede
Metter su l'orme mie; dille che i fiori,
{{R|230}}Che sul mio cener spande, io gli raccolgo
E gli rendo immortali; e tal ne tesso
Serto, che sol non temerà né bruma,
Ch'io stesso in fronte riporrolle, ancora
De le sue belle lagrime irrorato.
{{R|235}}Dolce tristezza, amor, d'affetti mille
Turba m'assalse; e da seder levato,
Ambo le braccia con voler tendea
A la cara cervice. A quella scossa,
Quasi al partir di sonno io mi rimasi;
{{R|240}}E con l'acume del veder tentando
E con la man, solo mi vidi; e calda
Mi ritrovai la lacrima sul ciglio.
</poem>
 
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