I rossi e i neri/Secondo volume/XXXIII: differenze tra le versioni

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- Qui, Aloise, qui; presso di me, che io vi veda in volto, che io non vi perda un istante!
 
- Eccomi, ai vostri piedi, mio secondo padre! - Così dicendo, Aloise si lasciò cadere su di uno sgabello presso il canapè, su cui il duca di Feira era venuto a sedersi spossato. Su quel canapè usava sedersi, su quello sgabello posare i piedi sua madre. E la madre era là, presente in tutte quelle cose che aveva toccate, presente in quell’aria che aveva respirata; ed il suo spirito congiungeva quei due, il vecchio seduto, e il giovane che gli posava daccanto, con le braccia appoggiate sulle sue ginocchia, lo sguardo fisso nel suo.
 
- Questo colloquio è triste, assai triste; - ripigliò poco stante il vecchio gentiluomo; - ma in esso è tuttavia il primo lampo di gioia che illumini un tratto le tenebre della mia sconsolata esistenza. Non fate che mi sparisca sì tosto; consentite che questo po’ di luce rischiari i miei ultimi giorni. È vostra madre che ve lo chiede per le mie labbra. ella che mi ha comandato di vivere per voi. Non sentite l’anima sua immortale che ci aleggia dintorno? Non pensate che ella ci ascolta, librata su noi, in atto di aspettare da suo figlio una parola che la raffidi? Io ne ho fede, io la sento, in questo punto la vedo. Vi racconterò una cosa strana, incredibile, ma vera. Un giorno, or fanno a mala pena quattro anni, io varcavo la catena delle Ande, eccelsa, paurosa sede di vulcani e di nevi. Perchè? non lo so; andavo innanzi come l’Assuero della leggenda, sospinto qua là senza posa dal suo fato, pur sempre tentando di sfuggirgli, ma invano. Così son vissuto io, Aloise, e gli anni, lungi dal mitigare l’angoscia, l’accrebbero. E così travagliato da un aspro desiderio, da una operosità febbrile, che a volte mi diè la stanchezza, senza mai lasciarmi gustare la calma, io viaggiavo quel giorno. Gli uomini della mia scorta, affranti da molte ore di cammino, avevano fatto una sosta; io non posavo, io avevo bisogno di muovermi, io correvo speditamente innanzi, procacciandomi la voluttà di sentir rompere sul mio volto i buffi dell’aria gelata che scendeva dalle gole dei monti. E fu allora, in mezzo a quella rigidezza dell’aria, che un alito soave, tiepido, sommesso, venne a sfiorarmi la guancia. - «Ah! ella è morta!» gridai, e caddi privo di sensi. Un’ora dopo, i miei uomini mi raggiungevano, e mi richiamavano, malamente pietosi, alla vita. Oh foss’io morto in quel giorno! Era il 20 novembre del 1853....
 
- Mia madre è morta quel giorno! - esclamò esterrefatto Aloise.
 
- Sì, l’ho saputo più tardi, molto più tardi, al mio ritorno in Europa; e bene ebbi a convincermi che non era stata un’illusione la mia, che l’anima della vostra santa madre era venuta a salutare chi aveva tanto patito per essa. Quel giorno rimasi istupidito, e molt’altri ancora; a Valparaiso, per dove ero avviato, giunsi tre settimane dopo, senza aver coscienza alcuna di me, delle ragioni del mio viaggio, di ciò che avrei fatto colà, della nuova via che avrei presa. Più tardi mi risovvenni; ascrissi il fatto ad un inganno dei sensi turbati, alla impressione del freddo, alla fatica soverchia; cionondimeno io non ero tranquillo, un dubbio atroce mi stava fitto nell’anima. M’ero proposto di toccare l’Australia e di tornare nell’India dove già avevo passati due anni; ma non mi diè l’animo di mettermi in mare; rifeci la strada, rividi il Brasile; il solo mio ricapito che fosse noto ad un vecchio amico di Genova, confidente de’ miei giovanili dolori, il solo paese dove io potessi ripromettermi di ricever sue lettere. Vana speranza! Egli non mi aveva più scritto da oltre due anni, o le sue lettere erano andate smarrite; quella volta ancora, non c’era nulla per me. Lo credetti immemore, accusai i mutamenti del cuore; ero ingiusto; il mio povero amico da due anni era morto. Anche questo seppi solamente più tardi, al mio ritorno in patria. Allora, ignaro di tutto, io mi struggevo di ansietà, di timore, di rabbia impossente. Aspettai tre mesi, ma invano; indi ripartii pel viaggio disegnato dell’India. Perchè non venni in Italia, a cercar le novelle che mi erano da tanto tempo mancate? Perchè avevo giurato, giurato a vostra madre, Aloise, di non riporre più mai il piede in Europa.
 
- A mia madre?
 
- A lei. Ma io debbo narrarvi ordinatamente ogni cosa. Il cuore mi sanguina, ma non importa; il figlio di Eugenia Vitali udrà la mia confessione, e mi compiangerà; il figlio di Alessandro Montalto vedrà se io meriti il dolce nome che egli m’ha dato pur dianzi. Oh, non mi dite nulla; già so quel che vorreste rispondermi; voi siete di quella eletta di nobili cuori, i quali, o non si dànno, o si dànno intieri; in voi vostra madre non ha solo lasciato l’impronta del suo volto. Ma uditemi; io ho pur bisogno di raccontarvi tutto me stesso. Il mio vecchio nome importerebbe poco: la mia terra natale, dov’io ero già solo, lo ha da molti anni dimenticato; qui non è più anima viva che sotto il nome sonante del duca di Feira, degnamente acquistato, ardisco dirlo, e degnamente portato, possa ricercare Cosimo Donati, e annettere a questo nome una ricordanza di tempi lontani. Cosimo era giovine, assai più giovane che voi ora non siate, allorquando lasciò la sua cara Liguria, per andare lontano, a cercare alle fonti istesse del traffico genovese una ricchezza che gli era necessaria, per ottener la mano della donna del suo cuore. Il Vitali non era allora il ricchissimo banchiere che egli diventò in processo di tempo; ma era già tale da poter negare la mano di sua figlia ad un giovane di modeste sostanze qual era il Donati. Perchè, debbo dirlo, questi ardì chiederla, e gli fu risposto: siate così ricco da poterle profferire del vostro quanto io le darò in dote del mio, e se altri non l’abbia chiesta ed io non l’abbia accordata, non sarò uomo da negarvela un’altra volta, come oggi mi costringe di fare il mio debito di padre. Era un cortese rifiuto; ma io amavo, ero giovane, credevo d’essere amato, e non disperai. Partito da Genova, confinato dall’ansia febbrile del lavoro sul lembo estremo della Bessarabia, ebbi cosiffattamente amica la fortuna, che ad arricchire, siccome avevo promesso, non mi bisognarono i cinque anni che avevo accennati al Vitali e a sua figlia, come il termine assegnato alla mia operosità affannosa, allo adempimento delle mie alte promesse. Tornai, dopo un’assenza di tre anni; Eugenia Vitali era moglie ad un altro, era già vostra madre.... -
 
L’amarezza delle ricordanze soffocò in questo punto la voce del vecchio, a cui fu mestieri d’un po’ di sosta, per ricomporsi e proseguire il racconto. Nè ruppe il silenzio Aloise, che, rispettando quell’alto dolore, stava colla fronte china e le palpebre chiuse, in atto di profonda meditazione.
 
- Scherno atroce della fortuna! - ripigliò il duca di - Feira. - Ella non m’aveva sorriso se non per farmi sentire più forte il disinganno. Come io rimanessi allora, solo il mio povero cuore lo sa. Non vi dirò in qual modo mi presentassi a vostra madre, Aloise, che bene nol rammento più ora, tanto ero fuor di me pel soverchio dolore. Ella certamente si avvide del mio misero stato, poichè, sebbene i suoi atti non m’accennassero di rimanere, non mi dissero nemmeno di uscire. Fu severa, non sdegnata, e le sue parole, che in quel punto mi parvero crudeli, ebbi a riconoscere di poi santamente pietose. Ben vi dirò come io partissi da lei. Ero stato un leale amante; non potevo ridurmi ad essere un volgar tentatore. Non avevo posto il piede in quella casa per turbare la sua pace; ero andato colà come un forsennato, sapendo la mia sentenza, non volendo credervi ancora, desideroso di udirla dalle sue labbra. Perchè? Lo so io il perchè? La mia ferita sanguinava; sentivo forse il bisogno che la sua mano vi ripiantasse il coltello. Udite le sue parole; esse mi sono rimaste scolpite nell’anima. «Cosimo, mio padre l’ha voluto, io non potevo resistere ai voleri di mio padre. Non mi compiangete come una vittima; io sono contenta; io amo mio marito; amo il padre del mio Aloise. Volete voi entrare in quella camera? È là dentro, il mio angioletto, che dorme». Ricusai. Ella parve non intender bene il mio gesto; io lessi ne’ suoi occhi il sospetto, la tema d’insidie future. E allora giurai; giurai sulla mia fede di gentiluomo, giurai sul suo capo, giurai per la memoria dei miei cari estinti, che sarei partito, che, lui vivo, non sarei più tornato in Europa. - «Il voto è indegno di voi e della donna che vi ascolta, interruppe ella, scrutandomi co’ suoi grandi occhi il profondo dell’anima; me viva, dovete dire, me viva. Siete gentiluomo, mostratevi tale. Io amo un uomo solo in terra; potrò, mercè vostra, stimarne due, senza fallire al mio debito di moglie e di madre». - Oh, se voi l’aveste veduta in quel punto, Aloise, com’era tutta radiante di quella interna bellezza che accresce e fa risplendere a mille doppi la bellezza esteriore! Giurai, commosso, soggiogato, tremante, tutto ciò che ella volle; voi viva, lo giuro per quanto è caro e sacro in terra, non riporrò il piede in Europa. «Grazie, mi rispose ella con un angelico sorriso; eccovi ora la mia mano, in segno di schietta amicizia; andate, Cosimo, voi meritate ogni bene; amate, e siate felice, come son io, nelle gioie serene della famiglia». -
 
- Oh madre mia; madre mia! - proruppe lagrimando Aloise.
 
- Venerate la sua memoria; per essa il vostro petto sia un tempio, il vostro cuore un altare; ella era cosa di cielo; - soggiunse il duca, con quella sua immaginosa breviloquenza. - Ed io, vedete, avrei pur potuto risponderle: «no, è impossibile; perduta voi, il mio cuore si spezza;» lo avrei potuto, perchè lo pensavo allora, e così fu veramente. Ma non lo feci; una frase come quella sarebbe stata una inutile crudeltà, una codarda vendetta, la frecciata del Parto fuggente. Non lo feci, dico; tacqui e partii; quel giorno io l’avevo veduta per l’ultima volta, quella luce dell’anima mia. Salutai nuovi cieli; le tenebre mi seguirono dappertutto.
 
- Nobile cuore! - esclamò Aloise, stringendogli affettuosamente le mani. - E mio pa.... (voleva dire mio padre, ma si rattenne) e il marchese di Montalto non seppe di quel dialogo?
 
- Lo seppe da vostra madre, che non aveva segreti per lui. Egli cercò sdegnato di me. Non conoscendomi, egli aveva ragione; io m’ero introdotto, straniero, non chiesto, in sua casa. Il prode gentiluomo volle lavar l’ingiuria nel sangue, e mi seguì in Isvizzera, dove tranquillamente fu meditata e condotta tra noi due una sciocca contesa, che ci offrisse un ragionevole pretesto di scendere sul terreno. Io finsi, per non dar sospetti ai testimoni, di aggiustar la mira su lui; ma il colpo, come volevo, andò in alto. Egli a sua volta appuntò la pistola; io gli offrivo il petto scoperto; la palla mi penetrò qui - (ed accennava il sommo del petto) - ed uscì fuori dall’omero. Caddi, nè più lo vidi, o seppi di lui. Stetti un mese tra morte e vita, ma risanai; la morte non mi voleva.... Morire allora per le mie mani?... Il pensiero m’era balenato alla mente, ma non mi diè l’animo di mandarlo ad effetto. Come avrei io potuto dipartirmi al tutto da lei, abbandonare la terra che l’accoglieva vivente? Che avrebbe fatto il mio spirito, lontano da lei? C’era egli, non pure allegrezza di beati, ma riposo, ma sonno, dove ella non fosse? Queste parranno sottigliezze a voi, ma non sono, e certo non mi parvero tali. Parlavate d’amore disperato, Aloise!... Eccovi il mio. Soffrir mille morti e non morire, nutrirmi d’ira, di gelosia, com’altri di felicità, e vivere in apparenza tranquillo, coll’inferno nell’anima; avermi fatte, in mezzo alla moltitudine, le usanze, le consuetudini del deserto; sentirmi il cuore riboccante d’affetti, e condannarmi ad una eterna vedovanza; desiderare ardentemente una vana immagine di donna, e rifuggire infastidito da quante, vive e palpitanti, si profferivano a me; sospirare il cielo e struggermi alla sua vista come la Peri sulla soglia vietata del paradiso; questa fu la mia vita. E sono venticinque anni oramai, m’intendete voi. Aloise? ch’io vivo di questa agonìa. Questo amore, che io ho chiuso, suggellato qui dentro, è oggi così gagliardo come il dì che io partii alla volta di Russia per tentare la sorte, così disperato come il giorno che io, risanato a mala pena della ferita, mi avviai alla volta del Portogallo, donde più tardi avevo ad imbarcarmi per l’America. Ero ricco, già ve lo dissi; cercai di soffocare l’affanno nella operosità irrequieta. Audace come il giuocatore che raddoppia ad ogni trar di carte la posta, e vede, come per incanto, ammonticchiarsi l’oro davanti a sè, io guadagnavo senza desiderio, guadagnavo sempre, qualunque cosa tentassi. L’avete voi mai notato? L’uomo ottiene sempre tutto ciò che meno desidera. Pare che un mal genio presieda alle nostre pugne, e consapevole dei voti del cuore, pigli diletto a contrastarceli, e sia largo con noi di tutto quanto ci è inutile, o molesto, mentre ci nega inesorabilmente le gioie con più ardore agognate. -
 
Aloise crollò mestamente il capo. Egli vedeva in quelle parole sè stesso.
 
- Vincevo, - continuò, con accento d’amarezza, il duca di Feira, - superavo sempre, senza volerlo, senza pure averne coscienza, ogni ostacolo. Quante intraprese io tentassi, tutte mi volgevano a seconda. Pari al re Mida, qualunque cosa io toccassi, mi si mutava in oro tra le dita. Fui in breve ora straricco, e l’opulenza mi fruttò facilmente rinomanza e potere. Mi diedi alla guerra, nel cuore dell’India, ed ebbi trionfi, non da altro interrotti fuorchè dal proposito di non vincolarmi a donna veruna, foss’anco stata sul trono e me l’avesse profferto. Ma lasciamo di ciò; anch’io apparvi ingrato, anch’io crudele a mia volta. Tentai le arti della diplomazia, ed ogni mio detto fu scaltrezza, ogni mio atto vittoria. Resi servigi, che parvero di grande rilievo, a paesi che non m’erano nulla, e il mio titolo di nobiltà, vecchia ciarpa che dà sempre negli occhi, in una società la quale risente ancora del Medio Evo, può farvene testimonianza. Ben presto mi venne a noia la ragion degli Stati; mi diedi a correre per diporto da un capo all’altro della terra, ed ebbi fama di viaggiatore arditissimo. Passavo, passavo, veloce e splendido come il baleno, segno di invidia ad ogni maniera di volgo; e mentre le genti ammirate dicevano: «quegli è il duca di Feira, il più ricco signore del Brasile, il gran diplomatico, il nababbo indiano, l’uomo che poteva nella porpora squarciata di Aureng-Zeb tagliarsi ancor tanto da farne un manto reale» qui dentro, Aloise, era una solitudine paurosa, qui dentro l’anacoreta si struggeva in silenzio, qui dentro il povero Cosimo divorava le sue lagrime, qui dentro il leone imbelle ruggiva disperato. E fu la mia vita; e più venni innanzi negli anni, più crebbe la mia angoscia. Ora argomentate qual cuore fosse il mio, allorquando, privo da due anni di lettere, aspettai vanamente quella che doveva recarmi una orrenda certezza, o tranquillarmi lo spirito, così fieramente turbato dal doloroso presagio. L’amico aveva sempre usato scrivermi rarissimo e breve; nelle sue lettere non era mai cenno della madre vostra. Ma egli sapeva il passato; però il suo silenzio mi accennava: ella vive, ella è felice con lui. Vi ho detto che queste lettere giungevano a Rio Janeiro. Dovunque io fossi, un mio fidato partiva a quella volta, varcava terre e mari per andare in cerca d’un foglio di carta, che di sovente non c’era. Sindi, il mio fedele indiano, ha di questa guisa viaggiato più volte. Il silenzio dell’amico, che da tre anni durava, e voi già sapete il perchè, mi tolse di sapere ciò che avvenne nel 1850, vo’ dire la morte del padre vostro. Il destino volle così, e forse fu provvidenza; perchè, io ve lo giuro, Aloise, avrei fallito alla mia promessa, sarei corso, volato in Italia. Ma tutto congiurò a mio danno, perfino la morte del pietoso amico, quando più mi sarebbe tornato necessario il sapere. Pensate voi che ella non mi avrebbe perdonato il ritorno? Qual colpa sarebbe stata in noi di rivederci, se il lutto avvenuto in sua casa, e che non era dato nè a me nè a lei di far che non fosse, giungeva tristamente inaspettato a lei, non chiesto, non desiderato da me? Ah, io ne ho fede, ella mi avrebbe perdonato, ella che, morta appena, venne a susurrarmi un saluto, ella che innanzi di morire mi aveva invocato, a custodia, a tutela del suo diletto Aloise.
 
- Ah! - interruppe il giovane. - Ben ravviso la mia santa madre, memore del vostro sacrifizio, certa di avere in voi un amico.
 
- Sì; - disse sospirando il duca di Feira, - e quella lettera che mi fu tanto dolorosa, mi ricompensò pur largamente di tante amarezze patite. Ma uditemi. Dopo avere aspettato senza frutto una lettera del lontano amico e, ingiustamente accusandolo, avevo rifatta la strada e valicate di bel nuovo le Ande, ero andato a imbarcarmi per l’Australia. Rimasi assai poco laggiù; visitai la Cina, ricorsi l’India, viaggiai, senza quasi far sosta, la Persia e l’Asia Minore, donde scesi in Egitto. Un’aspra cura mi stimolava; volevo andare, volevo esser più vicino che mi venisse fatto alle regioni vietate dov’ella era. Di là il mio Sindi partì un’altra volta, già indovinate per dove. Avevo sei mesi da attendere; li passai nell’interno dell’Africa, risalendo verso le fonti inesplorate del Nilo, ridiscendendo in Egitto, viaggiando alle rovine di Cartagine, sempre con quell’acerbo dubbio nell’anima, inquieto, iracondo, fastidioso a me stesso. Sindi tornò finalmente. Egli non aveva trovato lettere per Cosimo Donati, ma bensì pel duca di Feira. Il solo aspetto di quella lettera, la cui soprascritta recava i fini caratteri di una mano di donna, mi turbò fortemente. Era sua, la prima ch’io ricevessi da lei. Come aveva ella saputo il mio nome? Eccovi quella lettera; essa da quel giorno ha sempre posato sul mio cuore; è essa che mi ha tenuto vivo fin qui. -
 
Così dicendo, il vecchio gentiluomo porse ad Aloise un foglio che aveva tolto dal seno. Il giovine lo afferrò sollecito, lo aperse con mano tremante, lo baciò divotamente e lesse:
 
 
 
«13 novembre, 1853.
 
«Vivete voi, Cosimo? Io mi sento morire. Appena questa lettera vi giunga (e ne ho certezza, poichè Dio vorrà appagare il voto d’una madre) venite a Genova, chiedete della vedova di Alessandro Montalto. Vi diranno che è morta e sepolta nel suo castello, lontano dalla città, dai congiunti, dal consorzio in cui ella ha vissuto. Antonio, un vecchio gastaldo, l’unico servitore del quale io possa fidarmi, vi consegnerà alcune carte che io non ardisco distruggere. In esse è la mia vita di questi ultimi anni, scritta giorno per giorno, ora per ora: esse vi parleranno di una donna che ebbe la triste ventura di esservi cara un giorno e di costarvi immeritati dolori; vi diranno quali fossero i suoi pensieri, com’ella amasse la sua casa e suo figlio.
 
«Lo amerete voi, il mio Aloise? Il cuore, che non inganna, mi dice di sì. Ricusaste di vederlo bambino, e fu una gran pena per me. Speravo quel giorno che l’aspetto della madre cancellasse nell’animo vostro l’aspetto della fanciulla, e che voi poteste uscire come un amico dalla mia casa. Non intenderete forse mai più quanto mi accorasse il vostro rifiuto, e quale io vi giudicassi in quel punto. Vi ho meglio conosciuto poi, e amando il padre di mio figlio, ho potuto stimar voi, lasciarvi, senza offesa per lui, un posto onorato nelle mie ricordanze. Sia caso, o pietoso disegno del cielo, ho potuto molti anni più tardi ravvisar Cosimo Donati sotto il nome del duca di Feira, seguire da lontano il famoso uomo di Stato, l’audace viaggiatore d’inesplorate regioni, il liberale dispensatore di benefizi, e vedere ed intendere come si vendicasse nobilmente della fortuna. E non avete data la vostra mano ad una donna; nessuno del vostro sangue erediterà il vostro gran nome! Fu male, assai male; io m’aspettavo ben altro da voi. Ma così avete voluto, e sia; la vedova di Alessandro Montalto può perdonarvelo; la madre d’Aloise può esserne quasi lieta, oggi ch’ella sta per morire, lasciando suo figlio solo, in balìa di sè stesso.
 
«Il mio Aloise, quanto è bello, altrettanto è savio e costumato, e così d’alto sentire, da parere financo orgoglioso; che non è, ve lo giuro. Per la sua anima, nobilmente temprata, io dunque non temo, bensì pel suo cuore, che è debole, non preparato alle battaglie della vita. Che ciò non gli torni a sciagura! La mia mente è piena di tristi presagi. Tornate, Cosimo; udite la voce d’una morente; accorrete, fate sì che il mio spirito, nel dipartirsi da questa terra, vi possa scorgere pietosamente inteso al ritorno....»
 
 
 
Qui Aloise si fermò; che gli si annebbiarono gli occhi; ripose lo scritto prezioso tra le mani del duca, e gridò tra i singhiozzi: - mia madre! mia povera madre! -
 
Il duca di Feira non si provò a confortarlo, non disse parola; anch’egli era commosso, e due grosse lagrime gli rigavano le guance.
 
- Questa lettera giunse troppo tardi al ricapito; - proseguì egli, dopo alcuni istanti di pausa; - si era smarrita, non so come, e pervenne a Rio Janeiro quando io ero già partito d’America. L’ebbi, in quel modo che v’ho detto, due anni dopo; ma l’avessi pur ricevuta a tempo, io non avrei più veduta vostra madre vivente. Ella aveva con arcana previsione noverato i suoi giorni.
 
- Sì, lo ricordo; - soggiunse Aloise. - Otto giorni innanzi che ella morisse, i medici avevano notato un miglioramento. Fu il miglioramento della morte. Ella se ne giovò per scendere dal letto, e passò due ore a scrivere; indi, poichè la giornata era tiepidissima come di primo autunno, uscì a respirare un po’ d’aria sana in giardino. Io ed Antonio le eravamo a’ fianchi per aiutarla a scender le scale. Ma ella, come fu al pian terreno, si sciolse dolcemente da noi, e volle da sola innoltrarsi all’aperto. - «Non temete, diceva sorridendo, io sono forte oggi, posso correre un tratto da me.... potrei anche volare». Ella aveva veduto in quel punto passar roteando dinanzi a’ suoi occhi una famiglia di rondini, tarde ospiti della Montalda, che ancora non avevano saputo risolversi a mutare di clima. - «Poverine! continuò; voleranno anche esse a dilungo, valicheranno i mari tra poco, in cerca d’un cielo più clemente del nostro». Io stavo silenzioso a guardarla. Era bianca in volto, disfatta, quasi diafana, e in quel punto mi parve davvero che ella avesse a sollevarsi da terra e librarsi a volo, come gli angioli, di cui possedeva la bellezza delicata e soave. Si avvide che la guardavo malinconicamente, e un lieve color di rosa le tinse le guance. - «Qui, Aloise; disse ella; siedi daccanto a me; guarda l’orizzonte, come è bello, fiammante di vivi colori! È lo spettacolo più grato, più attraente che io mi conosca. Io l’ho sempre contemplato con piacere ineffabile, anche da bambina, quel velo misterioso, tutto soavi splendori, tutto arcane promesse, che ci nasconde, lasciandole indovinare, le terre lontane, e, dovunque noi siamo, ci mostra esser noi abbracciati dal cielo.»
 
- Oh, come io la ravviso! - gridò Cosimo in un impeto di adorazione che lo trasfigurò agli occhi del giovine. - Come ella si mostra a me nelle vostre parole, qual era fanciulla, quale rimase mai sempre, quale la dipingono alla mia mente le pagine ch’ella mi ha lasciate a testimonianza de’ suoi pensamenti! Voi leggerete il suo diario, Aloise, e vedrete specchiarsi in esso, come sereno di cielo in un terso cristallo, la sua anima pura. In quelle pagine non si parla d’altro che di voi; ogni giorno ella si dava pensiero del suo diletto Aloise, del quale ella voleva fare un uomo superiore a’ suoi simili, utile alla sua patria, degno in tutto del suo nome, e della impresa gentilizia della sua casa. Altius! Non lo ricordate voi il motto, Aloise? Non udrete voi la voce di lei, che vi dice di salire, di salir sempre più in alto, e non prostrarvi a mezzo il cammino? Non darete a me, povero pellegrino, diseredato di tutte le gioie umane, il conforto di avere ottenuto ciò che ella aspettava da me?
 
- Oh padre mio! - proruppe soggiogato Aloise. E s’abbandonò sul petto di lui, che lo strinse amorosamente tra le sue braccia.
 
- Vivrete, non è egli vero? vivrete per lei?
 
- E per voi! - ; gridò! il giovine, con accento di tenerezza sublime.
 
L’alba, che imbiancava allora le vette dei monti vide quei due generosi abbracciati. E li vide ed esultò un’anima innamorata, che per essi dimenticava il suo cielo.