I rossi e i neri/Secondo volume/I: differenze tra le versioni

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Il cuore parla, ma la ragione giudica; quello si abbandona sovente agl’impeti generosi del sangue, questa non può sempre seguirlo ed è costretta a frenarlo, tal volta con un asciutto consiglio, tal altra con un gelido sarcasmo. Povera ragione! la chiamano fredda e severa, laddove essa non è che sincera. Se ella potesse! figuratevi se non farebbe anch’ella le sue brave pazzie!
 
Poco innanzi il suo colloquio con la dolce Maria, il nostro Lorenzo Salvani era triste, ma risoluto. Desideroso di finirla con una vita increscevole, già si vedeva il petto squarciato dal piombo di una mischia notturna; egli era il primo a correre innanzi e il primo a cadere. Ma innamorato di Maria, ma dopo di averle detto: «vi amo e non ho nessuna voglia di morire» che avrebb’egli fatto? Come si sarebb’egli sottratto a quel destino che si era, stiam per dire, foggiato colle sue mani medesime? Era egli uomo da ritrarsi dal fare, e, per diserzione o per fiacchezza d’opere, sacrificare all’utile suo la vita degli altri? No, certo; Lorenzo era uno di quegli uomini i quali, quando hanno detto a sè stessi: «farò la tal cosa» gli è come se l’avessero giurato davanti a centomila testimoni; così stando le cose, che sarebbe avvenuto? Il contrasto del nuovo desiderio coll’antico proposito, era evidente, irrimediabile.
 
Al turbamento che ciò doveva produrre nell’animo suo, si aggiunga la commozione destatagli in cuore dalla novità di quel dialogo. Egli non aveva mai veduto Maria sotto l’aspetto di una donna che potesse un giorno esser sua. Se nella riposata scioltezza di una disputazione estetica, gli avessero chiesto qual donna gli paresse meglio agguagliare il concetto della somma bellezza, egli avrebbe senza titubanza risposto: Maria; nè diversamente avrebbe pensato in quel tempo che il suo cuore cedeva a quella ebbrezza di sensi, che fu l’amor suo per la bionda Cisneri. Ma quella sua opinione era un sentimento ingenuo, che non andava ad alcuna conseguenza. Avvezzo a proteggere fraternamente quella fanciulla, venuta nella sua custodia per la sequela dei domestici eventi, egli non vedeva, non poteva onestamente vedere in lei che una sorella. E se i casi non fossero sopraggiunti imperiosi, urgenti, a strappare dalle vergini labbra di lei una di quelle parole che l’uomo, anco il più chiuso in se stesso, non può non intendere, una di quelle parole che gli rischiarano il cuor d’una donna ed il suo ad un tempo, egli sarebbe andato innanzi nella vita senza pensarvi mai, o senza ardire di pensarvi, chè in simili casi è tutt’uno. Ma la gran parola era detta, ed era stata una gran luce in due cuori. Egli amava Maria, come Maria amava lui. E non poterle dire: vivrò! e dover proseguire un vano disegno ch’egli aveva abbracciato nel fermo proponimento di cercarvi la morte!... La fatalità lo ravvolgeva, lo stritolava nelle sue innumeri spire.
 
Almeno, a breve conforto tra tanti affannosi pensieri, avesse avuto fede nella rivolta! Ma non l’aveva, e le ore che passò con Giorgio Assereto, innanzi di recarsi al suo posto di combattimento, non fecero altro che scorarlo di più. L’amico Assereto, come sanno i lettori, che lo conoscono un tratto pe’ suoi ragionamenti con Lorenzo sul terrazzo della salita di San Francesco d’Albaro, era un pessimista. Ora, i pessimisti, di cento ne indovinano novantanove. Un proverbio dice: «pensa la peggio e l’indovinerai» e i proverbi, ha detto un grand’uomo, sono la sapienza dei popoli.
 
Il nostro pessimista, adunque, non si riprometteva nulla di buono da quella rivolta, generosa ma pazza. Imperocchè, diceva egli, non ci avevano mano tutte le classi sociali, nè una intieramente; che pure sarebbe stata fortuna. La forma costituzionale appariva a troppi una guarentigia di libertà cittadine, una promessa d’indipendenza nazionale, segnatamente alla gran moltitudine degli svogliati e dei timidi. I pochi volenterosi erano poi tali ad opere, come apparivano a ciance? Chi ti assicura (incalzava l’Assereto) che tutti i tuoi uomini saranno al posto loro? Questa congiura che avete ordita, più la volto e la rivolto, meno la scorgo efficace. Hai giurato? Va; ma bada a’ piedi, che non incespichi. Trabocchelli ce ne saranno di molti per via, ma più ancora disinganni!
 
Così turbato dalla sua ragione e sconfortato dalle argomentazioni dell’amico, andava Lorenzo al suo posto di combattimento, in una viuzza del sestiere di Prè, alle otto di sera del 29 di giugno.
 
Qui verrebbe a taglio un po’ di storia dei casi del 29 di giugno, i quali, che noi sappiamo, non furono mai partitamente narrati. Ma oltre che ciò condurrebbe noi fuor de’ confini assegnati al genere del nostro racconto, quel tentativo, per metà venuto fuori, per metà rimasto nel limbo delle buone intenzioni, si mostra irto di grandi e diremmo quasi insuperabili difficoltà.
 
Agevolmente si racconta la storia degli eventi fortunati; qui i materiali abbondano, essendoci gloria per tutti, e lo storico non ha altra molestia che quella di variare in cento guise la forma delle lodi e di adagiarle in ordinati periodi. Meno agevole torna il narrare gli eventi sfortunati, laddove tutti gli attori del dramma mirano a scagionarsi di questo o di quel fatto che condusse a male il negozio, e non si sa sempre cui credere; ognuno volendo cavarsi d’impaccio col rovesciar la broda sugli altri, si riesce il più delle volte ingiusti. Difficilissimo poi, per non dire impossibile addirittura, narrar casi non interamente avvenuti, dove il fatto riescirebbe sovente a schiarimento del non fatto, e questo a sua volta di quello, e dove, mancando il sostegno delle autentiche relazioni, occorrerebbe inventare di pianta.
 
Non scriveremo adunque un capitolo di storia, chè tanto e tanto le nostre lettrici torcerebbero la bocca, e noi avremmo punizione, non premio, di una ingrata fatica. In quella vece, e per quel tanto che possa giovare alla chiarezza del nostro racconto, faremo di stringere molte cose in brevi parole.
 
Da chi venisse il disegno non è ben noto. I più, fidandosi alla consuetudine di siffatti rivolgimenti, lo ascrivono a Giuseppe Mazzini, padre dimostrato d’ogni moto rivoluzionario che dal 1833 al 1857 nascesse in Italia. Uomini che furono testimoni e parte nei casi del 29 giugno, ci asseriscono in quella vece che il disegno nacque tra le classi artigiane della nostra città, e l’illustre agitatore ne fu fatto consapevole solamente più tardi, quando non parve più tempo da indugi. Comunque ciò sia, certo si è che il Mazzini fu in Genova, e che soltanto dopo la sua prima venuta, la quale precedette di alcuni mesi il tentativo, fu posto mano alla costituzione d’un comitato segreto, mezzo di artigiani e mezzo di cittadini di altre classi, il quale raccogliesse denaro, armi ed uomini, e in ogni miglior modo provvedesse al buon esito dell’impresa.
 
Questa, poi, doveva esser cominciata simultaneamente in più luoghi della penisola, a Genova, a Livorno, a Napoli, e fors’anco altrove. In Genova aveva da venire il Mazzini in persona, e venne diffatti. In Livorno, i volenterosi di quella città dovevano pigliarsi il carico d’ogni cosa, e pareva bastassero. In Napoli dicevasi esser gli animi disposti ad ogni sbaraglio; tutto quel reame essere quasi una polveriera; ma occorrere una scintilla di fuori che andasse a mettervi il fuoco.
 
E la scintilla partì da Genova, il giorno 25 di giugno. Un drappello di animosi, la più parte fuorusciti napoletani, s’imbarcano sul Cagliari, vapore della società Rubattino che scioglie dal nostro porto alla volta di Cagliari e Tunisi. In alto mare s’impadroniscono del legno, e scambio di toccar la Sardegna, voltano la prua sull’isola di Ponza, nelle acque napoletane; liberano con audacissimo colpo i condannati politici che laggiù teneva custoditi il Borbone, e vanno quindi a sbarcare sul lido di Sapri, nel golfo di Policastro; dove non trovano quel che si ripromettevano nel generoso rapimento del loro amor patrio; dove la piccola falange è combattuta, dispersa, e il prode suo capitano Carlo Pisacane, suggella col proprio sangue una delle più belle pagine del martirologio italiano.
 
Diamo ora un’occhiata a Livorno. Anche colà aveva a cominciar la rivolta. E diffatti nel pomeriggio del 30 di giugno, cittadini armati la rompono in tre luoghi della città, cioè a dire sulla piazza del Voltone, alla Pina d’oro, e nelle vie San Giovanni e Reale. Lo sforzo maggiore è sulla piazza del Voltone, dove è la gran guardia del presidio; ma gli animosi non superano i duecento, e sono respinti. La zuffa è impegnata; si combatte per le vie, si fa fuoco dalle finestre delle case circonvicine. Miglior esito ha un assalto del popolo contro un altro corpo di guardia; intanto molti gendarmi che percorrono la città sono finiti a stilettate; ma il primo colpo, e il più rilevante è fallito; il presidio, rafforzato in tempo, mette gran nerbo di soldatesche sulla piazza del Voltone: gli sbocchi delle vie sono poderosamente occupati. Due colpi di cannone dànno il segnale di chiudere le porte e di impedire anche l’uscita dalla parte del mare. E la carneficina incomincia: quanti cittadini durano a combattere, quanti sono colti nelle case coll’armi alla mano o in atto di resistenza, tanti son trascinati sulla via e moschettati senza misericordia. La è giustizia sommaria, nè per condannare il prigione occorrono prove. A mezzanotte il governatore Bargagli può scrivere al ministro Landucci in Firenze che «l’ordine è ristabilito» e sette ore dopo, nella mattina del 1° luglio, il general Ferrari da Grado mandare all’eccellentissimo personaggio anzidetto un nuovo telegramma nel quale si dice: - Qui tutto è tranquillo; la popolazione va pei fatti suoi. - Tuttavia, la vittoria era costata cara al governo granducale, che non ardì contare i suoi morti.
 
A Genova, siccome abbiamo già detto più volte, l’impresa doveva esser tentata nella sera del 29 di giugno. Ora, perchè in parte fallisse e in parte non giungesse nemmeno alla prova dei fatti, non diremo noi contemporanei. Certo non può dirsi che fosse sventata dalla vigilanza del governo, il quale anzi fu colto alla sprovveduta, e poteva essere sopraffatto dalla novità di un assalto notturno. Vagamente, così in di grosso, sapeva: fors’anco nella mattina era stato avvertito, e gli erano stati additati alcuni depositi d’armi; ma di sicuro non conosceva i particolari del tentativo. Se li avesse conosciuti, avrebbe saputo che ad un assalto per le vie della città doveva rispondere un assalto dei forti principali che la signoreggiavano, nei quali altro non era che uno scarso numero di soldati, tolti da uno dei quattro, e molto assottigliati reggimenti che allora presidiavano la città, insieme con un battaglione di bersaglieri. E se questo disegno non gli fosse stato ignoto, certo si sarebbe adoperato in tempo a sgominarlo, e avrebbe cansato lo scorno, che gli derivò al cospetto dell’universale, di vedersi pigliare impunemente un forte, e tentar la scalata di un altro, sul culmine della cinta fortificata di Genova.
 
Se dobbiamo aggiustar fede alle testimonianze del processo che fu fatto dipoi per questa congiura, essa fallì principalmente per la scarsezza del numero. Molti a gridare dapprima; pochi ad operare nell’ora convenuta. Laonde, se nella parte alta della città, vogliam dire ai forti, fu tentata l’impresa, nella parte bassa si può asserire che v’ebbero apprestamenti, non cominciamento di lotta.
 
Fu detto poscia che il segnale della pugna dovesse esser dato da un colpo di cannone, il quale accennasse al popolo congiurato essere gli uomini suoi padroni del forte Sperone. Ma se da questo evento dipendeva il cominciar della lotta, perchè non raddoppiare, triplicare il numero degli assalitori, e assicurare l’esito di quel colpo di mano? Perchè nei pressi di San Pantaleo, dov’era il nerbo degli uomini a ciò destinati, ebbero a trovarsi in quaranta, o poco più, i quali, saliti fin sotto le mura del forte, dovettero al primo allarme sbandarsi?
 
Il forte Diamante, di assai minore rilievo, cadde in potere dei congiurati per un felicissimo stratagemma. Il guardarme che lo aveva in custodia, teneva fondaco di vino e amava la gente allegra. Da parecchie settimane avea preso la consuetudine di andar lassù una brigatella di buontemponi, i quali entravano nel cortile, bevevano, giuocavano alle pallottole, o ballavano al suon dell’armonica, insieme coi pochi soldati del presidio. La sera del 29 erano, o, per dire più veramente, fingevano d’essere alticci dal vino, e non avrebbero mai detto d’andarsene. Senonchè, era l’ora di chiudere, e il guardarme li condusse al cancello. Colà, fanno ressa intorno alla sentinella; intanto una mano di compagni che stavano appiattati di fuori, balzano dall’aperto ingresso nel cortile, disarmano la sentinella, intimano ai soldati la resa, in nome del governo provvisorio. Il drappello di presidio è disarmato e chiuso in un camerone; il sergente Pastrone che vuole opporsi alle forze soverchianti e gridare, è steso a terra da un colpo di pistola; i congiurati sono padroni del forte.
 
Ma dallo Sperone non giunge alcun segnale; dalla città sottoposta nemmeno. Uno di loro è mandato fuori a chieder novelle; ma, sia che egli ne porti di tristi, o non torni neppure, il fatto sta che le speranze svaniscono, e sul primo romper dell’alba i vincitori abbandonano la preda e si disperdono lungo i sentieri che conducono al basso.
 
Che era egli avvenuto in città? Pare che si aspettasse il segnale dallo Sperone: ma il segnale, per quelle ragioni che abbiamo già dette, non era venuto. Intanto l’autorità governativa, posta sull’avviso, aveva schierato i suoi battaglioni nelle vie principali, dintorno al palazzo Ducale, e nei pressi del Municipio. Anche la Darsena era validamente munita. Frattanto, numerosi drappelli di soldati percorrevano le strade, e carabinieri e guardie di pubblica sicurezza andavano frugando qua e là, e mettendo le ugne addosso a quanti avessero aria sospetta. Parecchi depositi d’armi e luoghi di ritrovo erano stati accennati all’autorità governativa, che fu sollecita, sebbene senza ordinatezza di concetto, a mettere i suoi segugi in moto, e per tal guisa le venne fatto di ghermire al varco moltissimi giovanotti, e poscia fucili, polvere, con altri arnesi di guerra.
 
Niente era più possibile. La rivolta era soffocata sul nascere; le sue membra divise avrebbero tentato invano di ricongiungersi. Il disegno del comandante del presidio (se pure può dirsi che un vero disegno ci fosse) infelicissimo, laddove il popolo avesse potuto ingaggiar la battaglia, riusciva ottimo a dividere le forze, a togliere l’unità di comando, a sbigottire i centri particolari della rivolta.
 
E ogni cosa ebbe fine. Gli uomini raccolti per menar le mani, abbandonarono i luoghi di ritrovo, e ognuno cercò di provvedere a se stesso. L’illustre agitatore, che, nel segreto di un quartierino presso la Nunziata, stava attendendo (argomentate con quale ardore febbrile) che la gente incominciasse, ebbe in quella vece il triste annunzio che tutto volgeva alla peggio. Sperò un tratto, ma invano, che le cose potessero ancora mutarsi; ma poco stante egli medesimo era costretto ad uscire dal suo nascondiglio, che poteva essere, che già forse era scoperto. E ne uscì infatti, con quella temerità tutta sua, che gli aveva già tante volte giovato nella sua vita fortunosa, andando a riparare oltre l’Acquasola, accanto al teatro Diurno, nella casa ospitale di un gentiluomo suo concittadino; dove i carabinieri andarono inutilmente due volte a cercarlo, due volte ponendo le mani sopra un letto tra le cui materasse egli era stato allogato; due volte rimovendo un monte di biancheria allora allora insaldata, mentre una giovine donna, impavida e sorridente (benedette Inglesine, non ci siete che voi per uscirne con tanta bravura), seguitava col suo ferro a stirare.
 
I casi del 29 giugno del 1857 misero in chiaro un doppio errore, della rivoluzione e del governo ad un tempo; della rivoluzione, che lasciò fuggirsi il quarto d’ora della vittoria, aspettando un segnale, e si vide in rotta senza pure aver combattuto; del governo, che fu còlto all’impensata, non ebbe vera notizia del tentativo se non tardi, ed anche questa manchevole.
 
Si disse dai lodatori ad ogni costo che l’autorità sapeva tutto, ma che non volle sgominare i disegni dei rivoltosi, poichè mirava a coglierli tutti quanti in una retata. Ciò non è punto da credersi, perchè la retata non diede alcun frutto. Altri (e furono di parte clericale, che allora osteggiava il governo piemontese, come quegli che non voleva essere nè carne nè pesce, nè soffocare ogni germe di rivoluzione a pro’ degli altri governi italiani, nè gittarsi alle imprese più arrisicate con suo danno gravissimo), altri accusarono il governo di sapere ogni cosa, ma di aver lasciato correre, perchè i tentativi di Livorno e di Napoli, dai quali avrebbe potuto cavare un costrutto, non andassero falliti. L’invenzione fece capolino su pei diarii della sètta; ma parve più acuta che verisimile.
 
Ed ora torniamo al nostro racconto. Abbiamo lasciato Lorenzo Salvani che si recava al suo posto di combattimento, sulle otto di sera, in una viottola del sentiero di Prè.