Don Chisciotte della Mancia/Capitolo XXVII: differenze tra le versioni

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« Dico, dunque, — soggiunse Cardenio — che frattanto arrivò il curato della parrocchia, e prendendo la mano dei due fidanzati, disse: « Volete voi, signora Lucinda, prendere il signor don Fernando, qui presente, per vostro legittimo sposo, come comanda la santa madre Chiesa? » Io allungai il collo e misi la testa fuori della tenda, e con un vero spasimo di attenzione attesi a ciò che Lucinda avrebbe risposto, come avrei atteso la sentenza della mia morte o la conferma della mia vita. Ma perché non mi bastò l'animo di farmi vedere in quel momento e di esclamare: « Ah, Lucinda, Lucinda! guarda quello che fai, pensa che sei mia e che non puoi darti ad altri? Tu sai che il tuo sì, e la mia morte saranno la stessa cosa. E tu, don Fernando traditore, ladro della mia gloria, morte della mia vita! che desideri? che pretendi? Pensa che non puoi, da cristiano, raggiungere lo scopo de' tuoi desiderii, perché Lucinda è mia sposa, ed io sono suo consorte ». Ma folle che io sono! Ora, che mi trovo lontano dal pericolo, dico che avrei dovuto fare quel che non feci; e dopo essermi lasciato rubare un sì prezioso pegno, maledico il ladro che me lo ha tolto e di cui potevo far vendetta, se avessi avuto cuore di farlo, come l'ho adesso di accusarlo. Ma sì, allora, fui scimunito e codardo, ed ora mi sta bene questa vita da svergognato, da pentito e da pazzo per tutto il resto de' miei giorni! Il sacerdote attendeva la risposta di Lucinda, che stette a lungo silenziosa prima di darla: e poi, quando io credevo che traesse il pugnale per rimaner fedele a se stessa, o sciogliesse la lingua per proclamar la verità, sento che dice, con voce fioca e tremante: ''Sì, lo voglio''. Ripete don Fernando le stesse parole, e postole in dito l'anello, restano uniti con indissolubil nodo. Se non che, mentre lo sposo stava per abbracciare la sposa, questa, recandosi una mano al cuore, cadde svenuta fra le braccia della madre. Pensate come io rimanessi, vedendo in quel sì perdute tutte le mie speranze, faliaci le promesse e le parole di Lucinda, ed impossibile ricuperare mai un bene che in quel punto io avevo per sempre e interamente perduto! Senza aiuto, in ira al cielo, nemico alla terra che mi sosteneva, l'aria, direi quasi, negava l'alito ai miei sospiri, l'acqua l'umore alle lagrime; ed io ardevo tutto di sdegno e di gelosia.
 
"Lo svenimento di Lucinda mise il terrore in tutti. Sun madre le allentò un poco i vestiti sul seno, e comparve un biglietto che vi era nascosto, di cui subito si impossessò don Fernando, dandone lettura alla luce di uno dei doppieri. Appena lo ebbe letto si assise, appoggiando la guancia ad una mano, e mostrandosi assorto in gravi pensieri, senza darsi alcuna premura di soccorrere, come facevano gli altri, la sua sposa, affinchè rinvenisse. Nella confusione che seguì mi avventurai ad uscire, deciso, se mi avessero riconosciuto, ai peggiori eccessi, affinchè il mondo tutto avesse conosciuto lo sdegno che mi traeva fuor di me stesso contro il perfido don Fernando, e contro quella svenuta traditrice: ma la mia fatalità, che mi tiene in vita per opprimermi di maggiori mali, (se è pur possibile che di maggiori me ne possano accadere), fece sì che in quel momento mi assistesse tutto il discernimento, che ho poi perduto. E perciò, senza prendere vendetta de' miei maggiori nemici (e mi sarebbe facilmente riuscito, che nessuno pensava a me), risolvetti di prenderla con me stesso e di punirmi della pena dovuta agli altri. Volli essere più rigoroso nel castigar me stesso, di quanto lo sarei stato contro di loro, se anche li avessi uccisi, perché una morte repentina termina presto la pena; ma la pena che dura, uccide continuamente, senza liberar dalla vita. Mi allontanai finalmente da quella casa, mi recai presso colui che teneva in custodia la mia mula, la feci sellare, e senza dirgli addio, uscii dalla città, non osando, come un altro Lot, di volger la testa a guardarla. Quando mi vidi solo in campagna, sull'imbrunire, l'oscurità e il silenzio m'invitarono al pianto e alle querele, e senza timore di essere inteso, alzai la voce e sciolsi la lingua alle più alte maledizioni contro Lucinda e contro don Fernando come se in tal modo avessi potuto vendicarmi dell'offesa che mi avevano fatta.Fernando, come se in tal modo avessi potuto vendicarmi dell'offesa che mi avevano fatta. Chiamai Lucinda ingrata, menzognera, sconoscente, e soprattutto avara, poiché la ricchezza del mio nemico le avea tanto accecato l'intelletto, ch'ella non volle esser mia, per darsi invece all'uomo più di me favorito dalla fortuna. Pure in mezzo alle esecrazioni, andavo cercando qualche ragione che la scusasse, e dicevo a me stesso che non era da stupire se una giovane, cresciuta nella casa paterna, abituata ad esser sempre obbediente, si fosse lasciata piegare alle nozze con un personaggio tanto cospicuo, tanto ricco e di tanta nobiltà; mentre, rifiutandolo, poteva parere che le mancasse il discernimento o che amasse un altro, cosa che non fa generalmente onore alla buona opinione e alla fama delle fanciulle. D'altra parte, dicevo, a sostegno della tesi contraria, quand'ella avesse fatto sapere che il suo sposo ero io, si sarebbe detto che non avea poi scelto tanto male da meritarne castigo. Infatti, prima che le si fosse offerto don Fernando, i suoi genitori non potevano bramare certamente uno sposo più adatto di me alla loro figliuola. Aggiungevo ch'ella stessa, prima di avventurarsi all'estrema necessità di cedere la sua mano, avrebbe potuto dire che io le avevo già data la mia, e sarei allora volato a confermare la sua pietosa menzogna. Conclusi finalmente che il poco amore, la molta ambizione e il desiderio di grandeggiare fecero sì che Lucinda dimenticasse le promesse colle quali mi aveva ingannato, trattenuto e sostenuto nelle mie speranze e nelle oneste mie brame. Sfogandomi a questo modo, camminai tutto il resto della notte, e sull' apparire del giorno mi trovai all'ingresso di queste montagne, per le quali andai errando tre giorni senza direzione alcuna, finché giunsi non so in qual parte di queste solitudini, credo in un prato, e lì domandai ad alcuni pastori quale fosse il più aspro e più solitario recesso di queste balze. Mi diressero dove io desideravo, e mi v'incamminai, risoluto di farla finita con la vita. Penetrando tra queste solitudini mi morì la mula di stanchezza e di fame, o forse per non voler sostenere più oltre il peso inutile della mia persona. Restai a piedi, privo di forze, sfinito di fame, senza curarmi di trovare chi mi porgesse soccorso, e rimasi non so per quanto tempo disteso in terra, senza più sentire bisogno di cibo. Alcuni caprai mi avvicinarono e mi diedero subitoda mangiare.