Pagina:Il Baretti - Anno I, n. 1, Torino, 1924.djvu/2: differenze tra le versioni

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Sarebbe segno di una molto illusoria saggezza mettersi ora a rimpiangere un’educazione sciupata, e siano forse tratti ormai a sopravalutare, per rancore, la coltura, gl’interessi che ci mancano. Certo il nostro tipo dello scolaro di licèo, che ci rimane in cuore come l’unico tipo che si sia giunti finora a vivere, come una dolce e ilare parte che s’è rappresentata consumandovi tutta il nostro fervore, stacca di molto dai precedenti e dai seguenti. S’era assunta, e per sentimento intimo, non per istigazione dei pedagoghi riformatori di cui non leggevamo le pagine, un’aria da autodidatti, ci si faceva critici e concorrenti dei nostri professori. E’ raro il caso che le loro lezioni trovassero in noi un animo vergine; ci si armava di mille pregiudizi, si sfoggiavano decise opinioni su le materie che non si conoscevano ancóra. Può darsi che qualche volta si riuscisse così a collaborare, che certi argomenti, per un nostro disordinato interesse preventivo, si riuscisse a possederli un po’ meglio che a fil di logica, o di cronologia; ma come spesso si pigliavan le cose sotto gamba, e non si stava nemmeno a ascoltare, perchè ci si sentiva «superiori»! Questa era la fine dei latino, non parliamo di Cicerone, che a ammirarlo ci sarebbe sembrato una colpa morale, ma di Tacito e di Virgilio, e, ahimè, anche del greco — ché le nostre passioni letterarie stavano confinate in una certa «modernità» dove entravano Dante o Leopardi, Michelangiolo e Campanella; ma ne erano banditi Petrarca, Ariosto e Foscolo; non che li considerassimo maestri cattivi e pericolosi, ci parevan soltanto inutili, incapaci di darci un fremito, di rispondere ai nostri bisogni d’espressione.
Sarebbe segno di una molto illusoria saggezza mettersi ora a rimpiangere un’educazione sciupata, e siano forse tratti ormai a sopravalutare, per rancore, la coltura, gl’interessi che ci mancano. Certo il nostro tipo dello scolaro di licèo, che ci rimane in cuore come l’unico tipo che si sia giunti finora a vivere, come una dolce e ilare parte che s’è rappresentata consumandovi tutta il nostro fervore, stacca di molto dai precedenti e dai seguenti. S’era assunta, e per sentimento intimo, non per istigazione dei pedagoghi riformatori di cui non leggevamo le pagine, un’aria da autodidatti, ci si faceva critici e concorrenti dei nostri professori. E’ raro il caso che le loro lezioni trovassero in noi un animo vergine; ci si armava di mille pregiudizi, si sfoggiavano decise opinioni su le materie che non si conoscevano ancóra. Può darsi che qualche volta si riuscisse così a collaborare, che certi argomenti, per un nostro disordinato interesse preventivo, si riuscisse a possederli un po’ meglio che a fil di logica, o di cronologia; ma come spesso si pigliavan le cose sotto gamba, e non si stava nemmeno a ascoltare, perchè ci si sentiva «superiori»! Questa era la fine dei latino, non parliamo di Cicerone, che a ammirarlo ci sarebbe sembrato una colpa morale, ma di Tacito e di Virgilio, e, ahimè, anche del greco — ché le nostre passioni letterarie stavano confinate in una certa «modernità» dove entravano Dante o Leopardi, Michelangiolo e Campanella; ma ne erano banditi Petrarca, Ariosto e Foscolo; non che li considerassimo maestri cattivi e pericolosi, ci parevan soltanto inutili, incapaci di darci un fremito, di rispondere ai nostri bisogni d’espressione.


Eppure, si faceva figura d'essere e ci si stimava buoni scolari. S’era anzi convinti che la vera scuola cominciasse con noi, e che i metodi, la pazienza, la dottrina dei maestri fossero roba superflua e noi non degna, quasi un impiccio alla nostra voglia e al nostro ardore. Si aveva quindi bisogno di testi differenti da quelli ufficiali, d’un dopo-scuola che fosse un contro-scuola. Anche per questo ufficio la ''Voce'' era perfetta. C’insegnava a odiare la gente meticolosa e studiosa, a diventar arroganti con quei, diciamo, scienziati che incuton terrore e stizza ai ragazzi perchè hanno descritta sulla faccia una vita di stenti senza successi e senza nemmeno orgoglio. C’erano davvero già a quell’ora in noi i germi d’un avvenire disastroso; capaci di sognare a occhi aperti e di immaginarci d’esser grandi, soltanto fra di noi si manteneva un tono equilibrato e da bravi figliuoli; di fronte agli altri s’era sempre con l’animo in battaglia, col desiderio della prepotenza. Sdegnavamo i rapporti soliti: non ci si contentava più delle beffe ai professori, degl’immaturi disordini e delle momentanee pazzie; ogni cosa portavamo su un piano tragico, da ogni infantile prodezza volevamo trarre ragione d’orgoglio e di dignità. Alle suggestioni più semplici e più naturali si voleva restar sordi, chissà quale miracolo ci pareva di sentirci inappagati, di, a poco a poco, escludere e svalutare razione, come cosa inutile, o quasi a noi ostile. S’era spostato il campo delle difficoltà e degli stimoli per quell’ebbrezza che ci toglieva di vedere le cose rettamente; ci si pasceva di questioni teoriche che quasi non si capivano, o la vita pratica ci affliggeva con fantastiche imaginarie ombre paurose. Di qui anche nasceva il desiderio delle riforme, sebbene in questo si andasse un po’ cauti; e uno fede tutta astratta nell’avvenire, come un’attesa di cosa straordinarie.
Eppure, si faceva figura d'essere e ci si stimava buoni scolari. S’era anzi convinti che la vera scuola cominciasse con noi, e che i metodi, la pazienza, la dottrina dei maestri fossero roba superflua e di noi non degna, quasi un impiccio alla nostra voglia e al nostro ardore. Si aveva quindi bisogno di testi differenti da quelli ufficiali, d’un dopo-scuola che fosse un contro-scuola. Anche per questo ufficio la ''Voce'' era perfetta. C’insegnava a odiare la gente meticolosa e studiosa, a diventar arroganti con quei, diciamo, scienziati che incuton terrore e stizza ai ragazzi perchè hanno descritta sulla faccia una vita di stenti senza successi e senza nemmeno orgoglio. C’erano davvero già a quell’ora in noi i germi d’un avvenire disastroso; capaci di sognare a occhi aperti e di immaginarci d’esser grandi, soltanto fra di noi si manteneva un tono equilibrato e da bravi figliuoli; di fronte agli altri s’era sempre con l’animo in battaglia, col desiderio della prepotenza. Sdegnavamo i rapporti soliti: non ci si contentava più delle beffe ai professori, degl’immaturi disordini e delle momentanee pazzie; ogni cosa portavamo su un piano tragico, da ogni infantile prodezza volevamo trarre ragione d’orgoglio e di dignità. Alle suggestioni più semplici e più naturali si voleva restar sordi, chissà quale miracolo ci pareva di sentirci inappagati, di, a poco a poco, escludere e svalutare l’azione, come cosa inutile, o quasi a noi ostile. S’era spostato il campo delle difficoltà e degli stimoli per quell’ebbrezza che ci toglieva di vedere le cose rettamente; ci si pasceva di questioni teoriche che quasi non si capivano, o la vita pratica ci affliggeva con fantastiche imaginarie ombre paurose. Di qui anche nasceva il desiderio delle riforme, sebbene in questo si andasse un po’ cauti; e uno fede tutta astratta nell’avvenire, come un’attesa di cosa straordinarie.


Nè la nostra giovinezza, nè l’esperienza dei vociani — due belle cose perdute che avevan tante ragioni comuni — sarebbero potute durare su quel tono. La vendetta della nostra generazione su quella dei padri, sul mondo borghese da cui in buona fede ci si credeva diversi, era già consumata; col risultato, per i vociani d'essere saliti di fama e d'aver ottenuto un riconoscimento proprio dai loro supposti nemici, per noi d'esserci in fin dei conti angustati senza profitto avanti l'ora.
Nè la nostra giovinezza, nè l’esperienza dei vociani — due belle cose perdute che avevan tante ragioni comuni — sarebbero potute durare su quel tono. La vendetta della nostra generazione su quella dei padri, sul mondo borghese da cui in buona fede ci si credeva diversi, era già consumata; col risultato, per i vociani d'essere saliti di fama e d'aver ottenuto un riconoscimento proprio dai loro supposti nemici, per noi d'esserci in fin dei conti angustati senza profitto avanti l'ora.


In tanto s'era arrivati al 1914: è proprio in quell'anno che la ''Voce'' tenta di pigliare un indirizzo esclusivo e s’intitola «Rivista d’idealismo militante» cerca un’unità nel nome non potendola ottenere nello spirito. A rileggere ora quell’ annata, ci si accorge che ottenne solo di esagerare i suoi difetti, d’instaurare una specie di dogmatismo fortemente riformistico che avrebbe allontanato le persone desiderose d’aria libera e aliene dall’impegnarsi nella creazione di nuovi decaloghi. In buon punto dunque avvenne il portento.
In tanto s'era arrivati al 1914: è proprio in quell'anno che la ''Voce'' tenta di pigliare un indirizzo esclusivo e s’intitola «Rivista d’idealismo militante» - cerca un’unità nel nome non potendola ottenere nello spirito. A rileggere ora quell’annata, ci si accorge che ottenne solo di esagerare i suoi difetti, d’instaurare una specie di dogmatismo fortemente riformistico che avrebbe allontanato le persone desiderose d’aria libera e aliene dall’impegnarsi nella creazione di nuovi decaloghi. In buon punto dunque avvenne il portento.


Senza la guerra non avrebbero avuto ragione; se la vita doveva continuare pacifica e anche a noi si addiceva un avvenite modesto, che avrebbe poco per volta logorato i nostri sogni, se non c’era la possibilità d’arrivare, o di credersi maturi, appena usciti di puerizia, i bei ragionamenti, gli audaci pensieri, le vivide affermazioni ci sarebbero poi pesati come un gran frullare a vuoto. La guerra non doveva mutar nulla — ce l’aveva detto anche Serra ch’era uno al quale di solito si credeva; ma noi non ci si poteva più contentare dei giudizi, non si poteva più star quieti. Per noi la guerra mutava tutto; e se no l’interventismo non si spiega.
Senza la guerra non avrebbero avuto ragione; se la vita doveva continuare pacifica e anche a noi si addiceva un avvenite modesto, che avrebbe poco per volta logorato i nostri sogni, se non c’era la possibilità d’arrivare, o di credersi maturi, appena usciti di puerizia, i bei ragionamenti, gli audaci pensieri, le vivide affermazioni ci sarebbero poi pesati come un gran frullare a vuoto. La guerra non doveva mutar nulla — ce l’aveva detto anche Serra ch’era uno al quale di solito si credeva; ma noi non ci si poteva più contentare dei giudizi, non si poteva più star quieti. Per noi la guerra mutava tutto; e se no l’interventismo non si spiega.
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Mutava tutto secondo una variazione che credevamo fosse già nel nostro spirito; secondo un presentimento di cui s’era stati gli assertori, seguendo con amore le battaglie, infiammandoci per le ideali conquiste dei nostri maestri confessati. S’era imparato a metter tutto in scompiglio, e già lo scompiglio ci si faceva nell’intimo tragedia; ma con quella nostra esaltazione si dava uno spettacolo molto buffo e forse non ci sarebbe stata via di salvarsi se non pigliando tutto in ridere, diventando improvvisamente funamboli e fumisti.
Mutava tutto secondo una variazione che credevamo fosse già nel nostro spirito; secondo un presentimento di cui s’era stati gli assertori, seguendo con amore le battaglie, infiammandoci per le ideali conquiste dei nostri maestri confessati. S’era imparato a metter tutto in scompiglio, e già lo scompiglio ci si faceva nell’intimo tragedia; ma con quella nostra esaltazione si dava uno spettacolo molto buffo e forse non ci sarebbe stata via di salvarsi se non pigliando tutto in ridere, diventando improvvisamente funamboli e fumisti.


In vece, la tragedia pregustata e tutta aerea veniva a toccarci da vicino, a esser pane per tutti i denti e sciagura comune. Non son certo da ricordarsi le commozioni retoriche; ma se negli sproloqui d’allora si cercavano argomenti «realistici» e si faceva perfino a gara a nascondere le ragioni sentimentali che ci movevano, spesso era per pudore. I cortei vocianti, gli entusiasmi popolari, erano per noi un modo di tornare tra la gente, di rifare un posso a rovescio di quei tanti a cui ci aveva indotti la nostra impudente albagia. I pochissimi fortunati (che poi erano di molti), stanchi del loro Eliso, ritrovavano il contatto coi loro simili; e pareva che l’allontanamento e l’assidua cura li avesse fatti capaci di guidarne le schiere e d’additargli il futuro.
In vece, la tragedia pregustata e tutta aerea veniva a toccarci da vicino, a esser pane per tutti i denti e sciagura comune. Non son certo da ricordarsi le commozioni retoriche; ma se negli sproloqui d’allora si cercavano argomenti «realistici» e si faceva perfino a gara a nascondere le ragioni sentimentali che ci movevano, spesso era per pudore. I cortei vocianti, gli entusiasmi popolari, erano per noi un modo di tornare tra la gente, di rifare un passo a rovescio di quei tanti a cui ci aveva indotti la nostra impudente albagia. I pochissimi fortunati (che poi erano di molti), stanchi del loro Eliso, ritrovavano il contatto coi loro simili; e pareva che l’allontanamento e l’assidua cura li avesse fatti capaci di guidarne le schiere e d’additargli il futuro.


Oltre questo punto, quando si trattò di fare per davvero, ci fu qualche cosa che ruppe. Per tutti venne un momento di distacco, come se l’attiva ansia non fosse più opportuna e ci si fosse troppo persi ai preparativi; si sentiva che per cominciar le cose serie bisognava trovar un’altra ispirazione. Prezzolini, il 28 novembre 1914, si congeda dalla ''Voce'' con un documento patetico; da una simile ondata di stanchezza, prima o dopo, secondo i nervi e l’intelligenza, tutti furono presi. Non si era soli a questo mondo; non si era destinati, quasi per privilegio, a dirigere e ad ammaestrare.
Oltre questo punto, quando si trattò di fare per davvero, ci fu qualche cosa che si ruppe. Per tutti venne un momento di distacco, come se l’attiva ansia non fosse più opportuna e ci si fosse troppo persi ai preparativi; si sentiva che per cominciar le cose serie bisognava trovar un’altra ispirazione. Prezzolini, il 28 novembre 1914, si congeda dalla ''Voce'' con un documento patetico; da una simile ondata di stanchezza, prima o dopo, secondo i nervi e l’intelligenza, tutti furono presi. Non si era soli a questo mondo; non si era destinati, quasi per privilegio, a dirigere e ad ammaestrare.


Se, prese le cose all’ingrosso, si può anche dire che l'educazione vociana fu quella degli ufficiali di complemento, o dei migliori tra essi, si capisce che un mancamento generale, un fallimento, che appunto i migliori avevano già da sé previsto e scontato, era necessario. Non è davvero da far maraviglia che il disastro di Caporetto sia accaduto, ma piuttosto come noi, gente cosi fantasiosa e avvezza ai facili orgogli e al giuoco delle imagini lusingatrici si sia retto fino a quel giorno.
Se, prese le cose all’ingrosso, si può anche dire che l'educazione vociana fu quella degli ufficiali di complemento, o dei migliori tra essi, si capisce che un mancamento generale, un fallimento, che appunto i migliori avevano già da sé previsto e scontato, era necessario. Non è davvero da far maraviglia che il disastro di Caporetto sia accaduto, ma piuttosto come noi, gente cosi fantasiosa e avvezza ai facili orgogli e al giuoco delle imagini lusingatrici si sia retto fino a quel giorno.