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{{ct|f=100%|v=.5|Fondatore PIERO GOBETTI 1924-1926}}
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MENSILE||EDIZIONI DEL BARETTI: Via Prati, 5||TORINO
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Critici e poeti: {{AutoreCitato|Ugo Foscolo|Foscolo}} e {{Wl|Q1067|Dante}}.<section end="1" />
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<section begin="2" />{{Centrato|<big><big><big>MANZONIANISMO</big></big></big>}}
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{{ct|f=170%|t=1|v=1|MANZONIANISMO}}

Consideriamo il manzonianismo come un problema ancor vivo e presente: esso è tuttavia caratteristico della letteratura e della cultura italiana del primo quarto del Novecento come fu proprio della seconda metà dell’Ottocento. Solo che oggi non si usa più prender partito pro o contro il {{Wl|Q1064|Manzoni}}, ma si constata e si accetta la presenza dei manzoniani come un dato di fatto: e insieme si accoglie con una specie di devota benevolenza la rinnovata diffusione dello spirito manzoniano in Italia, come una giusta rivendicazione di quei principi e di quei valori che vent’anni fa per un verso o por l’altro l’idealismo e il futurismo, l’imperialismo e il realismo avevano ricacciato indietro, molto indietro, fino a un ristretto periodo storico che solo poteva essere stato il loro legittimo dominio. Per rifarsi, i manzoniani ora si accampano in buone posizioni della critica e dell’arte narrativa; e tutti ci sentiamo volentieri un po’ manzoniani. Svanito il tribunizio impeto di Enotrio, pacatasi la febbre del superuomo, siamo arrivati ad una tranquilla agnizione che ci rende nipoti in primo grado del creatore di Renzo e Lucia.
Consideriamo il manzonianismo come un problema ancor vivo e presente: esso è tuttavia caratteristico della letteratura e della cultura italiana del primo quarto del Novecento come fu proprio della seconda metà dell’Ottocento. Solo che oggi non si usa più prender partito pro o contro il {{Wl|Q1064|Manzoni}}, ma si constata e si accetta la presenza dei manzoniani come un dato di fatto: e insieme si accoglie con una specie di devota benevolenza la rinnovata diffusione dello spirito manzoniano in Italia, come una giusta rivendicazione di quei principi e di quei valori che vent’anni fa per un verso o por l’altro l’idealismo e il futurismo, l’imperialismo e il realismo avevano ricacciato indietro, molto indietro, fino a un ristretto periodo storico che solo poteva essere stato il loro legittimo dominio. Per rifarsi, i manzoniani ora si accampano in buone posizioni della critica e dell’arte narrativa; e tutti ci sentiamo volentieri un po’ manzoniani. Svanito il tribunizio impeto di Enotrio, pacatasi la febbre del superuomo, siamo arrivati ad una tranquilla agnizione che ci rende nipoti in primo grado del creatore di Renzo e Lucia.


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Manzonianismo, in secondo luogo, come stile Sereno e delicato possesso della parola, accorto dominio dell’espressione e più ancora delle suo pieghe, delle sue pause. Placido svolgimento del discorso, come in riposata conversazione, con rattenuta enfasi, con significanti respiri; le frasi e i tratti più salienti sempre incorniciati in modo da smorzare le tinte troppo vive, da arrotondarne gli angoli, e da sostituire all’effetto che viene dal distacco l’effetto del riverbero, che fa meno chiasso ma resta più durevole o sierro. Dietro ogni più semplice elemento espressivo, tutto un lavorio di penosa e sottile ricerca stilistica sedato in una gran calma, in una omerica bonaccia e in fronte, una continua richiesta di collaborazione all’intelligenza del lettore, non per un arduo o oscuro cammino, ma per un esercizio di finezza che lascia come una pacifica coscienza della penetrazione in seno alla vita. Tutti i manzoniani d’oggi, dal Linati al Bacchelli, hanno sentito la profonda seduzione di questo regno della signorilità letteraria: e non pochi al punto che si sono convertiti senza sforzo a questa moderata e nobile eleganza da una primitiva condizioni di cultori della pura forma. Ora, bisogna stare in guardia contro il pericolo di questo stile estraniato dal mondo poetico di cui esso propriamente fa parte e con cui si trova consustanziato. Tradotto in tecnica esso rappresenta un pericolo grave di virtuosismo e di ricerca del meraviglioso nella semplicità, che certamente non giova alla fortificazione della nostra prosa. Il suo solo impiego legittimo sarebbe per ripetere dal più al meno ciò che ha già detto il Manzoni: ed è evidente che il ripetere non conta. Usato, come viene usato, per rinfrescare o atteggiare più opportunamente un’inspirazione realistica o impressionistica, esso dà luogo a curiose e abili combinazioni, non vere e proprio opere d’arte. E, in fondo, i manzoniani migliori se ne liberano ai possibile, paghi di conservare un certo arieggiamento e una certa risonanza dell’arte del maestro che corrisponde a tenui legami di consanguineità spirituale. Nei nostri tempi, da chi sente fortemente i problemi dell'arte, si ricerca una prosa robusta, asciutta e nervosa, piena di pensiero, attillata sopra i movimenti della riflessione e del dubbio e dell’affermazione, lampeggiante di idee incise e di visioni scolpite: più che modellare e plasmare, occorre costruire.
Manzonianismo, in secondo luogo, come stile Sereno e delicato possesso della parola, accorto dominio dell’espressione e più ancora delle suo pieghe, delle sue pause. Placido svolgimento del discorso, come in riposata conversazione, con rattenuta enfasi, con significanti respiri; le frasi e i tratti più salienti sempre incorniciati in modo da smorzare le tinte troppo vive, da arrotondarne gli angoli, e da sostituire all’effetto che viene dal distacco l’effetto del riverbero, che fa meno chiasso ma resta più durevole o sierro. Dietro ogni più semplice elemento espressivo, tutto un lavorio di penosa e sottile ricerca stilistica sedato in una gran calma, in una omerica bonaccia e in fronte, una continua richiesta di collaborazione all’intelligenza del lettore, non per un arduo o oscuro cammino, ma per un esercizio di finezza che lascia come una pacifica coscienza della penetrazione in seno alla vita. Tutti i manzoniani d’oggi, dal Linati al Bacchelli, hanno sentito la profonda seduzione di questo regno della signorilità letteraria: e non pochi al punto che si sono convertiti senza sforzo a questa moderata e nobile eleganza da una primitiva condizioni di cultori della pura forma. Ora, bisogna stare in guardia contro il pericolo di questo stile estraniato dal mondo poetico di cui esso propriamente fa parte e con cui si trova consustanziato. Tradotto in tecnica esso rappresenta un pericolo grave di virtuosismo e di ricerca del meraviglioso nella semplicità, che certamente non giova alla fortificazione della nostra prosa. Il suo solo impiego legittimo sarebbe per ripetere dal più al meno ciò che ha già detto il Manzoni: ed è evidente che il ripetere non conta. Usato, come viene usato, per rinfrescare o atteggiare più opportunamente un’inspirazione realistica o impressionistica, esso dà luogo a curiose e abili combinazioni, non vere e proprio opere d’arte. E, in fondo, i manzoniani migliori se ne liberano ai possibile, paghi di conservare un certo arieggiamento e una certa risonanza dell’arte del maestro che corrisponde a tenui legami di consanguineità spirituale. Nei nostri tempi, da chi sente fortemente i problemi dell'arte, si ricerca una prosa robusta, asciutta e nervosa, piena di pensiero, attillata sopra i movimenti della riflessione e del dubbio e dell’affermazione, lampeggiante di idee incise e di visioni scolpite: più che modellare e plasmare, occorre costruire.


Se veniamo, infine, a guardare un po’ contro luce il manzonianismo come sistema d’idee e il mondo fantastica in cui queste idee si presentano rielaborate e incarnate o da cui esse prendono le mosse: siamo qui meno che mai proclivi ad essere manzoniani. Pochi altri argomenti possiamo trovare così aperti a largo e ricco svolgimento di opera critica, quale ad esempio ci ha dato ora il Galletti in due densi e suggestivi volumi; ma pochi campi così insidiosi per una buona fermentazione di coscienza pratica della vita e dei suoi problemi. Il {{Wl|Q1287|giansenismo}} che insiste sulla debolezza umana, sull’impotenza della volontà, sull’inevitabile rovina delle nostre opere se non sono assistite e guidate da una mano divina: una valutazione morale che coltiva la speranza dei rassegnati che mantiene continuamente tesa — e perciò indulgente — l’aspettazione del bene che può uscire in ogni momento dal male; una pacata e bonaria vena di scetticismo che vuol mitigati gli ardori e le passioni generose, perdonati agevolmente i convertiti, temperate le rigide esigenze della legge che parta in noi: tutti questi indirizzi non sono per questo mondo in cui viviamo e in cui vogliamo operare trasformandolo secondo noi stessi. Preferiamo la volontà eroica dell'Alfieri o la disperazione profondi di Leopardi a codesta acquiescenza velata di saggezza e di intelligenza, e anche alla sottile e celebrale casiatica con cui essa riesce a trasformarsi in sistema. Non sarà, questo, il pericolo di Manzoni, ma certo è il pericolo del manzonianismo. {{A destra|SANTINO CARAMELLA.
Se veniamo, infine, a guardare un po’ contro luce il manzonianismo come sistema d’idee e il mondo fantastica in cui queste idee si presentano rielaborate e incarnate o da cui esse prendono le mosse: siamo qui meno che mai proclivi ad essere manzoniani. Pochi altri argomenti possiamo trovare così aperti a largo e ricco svolgimento di opera critica, quale ad esempio ci ha dato ora il Galletti in due densi e suggestivi volumi; ma pochi campi così insidiosi per una buona fermentazione di coscienza pratica della vita e dei suoi problemi. Il {{Wl|Q1287|giansenismo}} che insiste sulla debolezza umana, sull’impotenza della volontà, sull’inevitabile rovina delle nostre opere se non sono assistite e guidate da una mano divina: una valutazione morale che coltiva la speranza dei rassegnati che mantiene continuamente tesa — e perciò indulgente — l’aspettazione del bene che può uscire in ogni momento dal male; una pacata e bonaria vena di scetticismo che vuol mitigati gli ardori e le passioni generose, perdonati agevolmente i convertiti, temperate le rigide esigenze della legge che parta in noi: tutti questi indirizzi non sono per questo mondo in cui viviamo e in cui vogliamo operare trasformandolo secondo noi stessi. Preferiamo la volontà eroica dell'Alfieri o la disperazione profondi di Leopardi a codesta acquiescenza velata di saggezza e di intelligenza, e anche alla sottile e celebrale casiatica con cui essa riesce a trasformarsi in sistema. Non sarà, questo, il pericolo di Manzoni, ma certo è il pericolo del manzonianismo. {{A destra|SANTINO CARAMELLA.}}<section end="2" />
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<section begin="3" />{{Centrato|<big><big>'''Aspetti della novissima poesia russa'''</big></big>}}


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{{ct|f=140%|t=1|v=1|'''Aspetti della novissima poesia russa'''}}
Si racconta che, durante la Rivoluzione, il popolo parigino, ammesso a visitare la casa del {{Wl|Q70326|Beaumarchais}}, si sia comportato col rispetto e con l’educazione più irreprensibili. Chi torna dalla Russia adesso, riferisce con compiacimento come in tutt'i musei si possan vedere comitive di operai e di contadini, che girano silenziosi per le sale prendendo appunti. Questo però non vuol dire che l’arte si avvicini maggiormente al popolo nei periodi di rivoluzione: ma soltanto che, siccome allora i partiti se ne servono come mezzo di propaganda, è più facile che alle manifestazioni artistiche partecipi un pubblico più vasto di quello dei periodi normali. Onde anche i poeti così detti bolscevichi non sono più vicini di altri agli operai e ai contadini che formano la maggioranza del pubblico alle loro letture di versi, se non perchè portano lo stesso loro vestito. Giacche studiatissimo è il fare popolareggiante di quelle poesie. L’Esénin, che era un contadino e la sapeva lunga, raccontava agli amici con un sorriso malizioso e furbesco che non aveva mai portato vestiti così miseri al suo paese come ne portava per andare a far visita ai critici cittadineschi; e nei suoi versi cominciò a proclamarsi teppista - ''chuligan'' - («sputa, o vento, a bracciate di foglie, - io sono un teppista come te») soltanto quando glielo suggerirono i giornali, e il pubblico lo pretese.
Si racconta che, durante la Rivoluzione, il popolo parigino, ammesso a visitare la casa del {{Wl|Q70326|Beaumarchais}}, si sia comportato col rispetto e con l’educazione più irreprensibili. Chi torna dalla Russia adesso, riferisce con compiacimento come in tutt'i musei si possan vedere comitive di operai e di contadini, che girano silenziosi per le sale prendendo appunti. Questo però non vuol dire che l’arte si avvicini maggiormente al popolo nei periodi di rivoluzione: ma soltanto che, siccome allora i partiti se ne servono come mezzo di propaganda, è più facile che alle manifestazioni artistiche partecipi un pubblico più vasto di quello dei periodi normali. Onde anche i poeti così detti bolscevichi non sono più vicini di altri agli operai e ai contadini che formano la maggioranza del pubblico alle loro letture di versi, se non perchè portano lo stesso loro vestito. Giacche studiatissimo è il fare popolareggiante di quelle poesie. L’Esénin, che era un contadino e la sapeva lunga, raccontava agli amici con un sorriso malizioso e furbesco che non aveva mai portato vestiti così miseri al suo paese come ne portava per andare a far visita ai critici cittadineschi; e nei suoi versi cominciò a proclamarsi teppista - ''chuligan'' - («sputa, o vento, a bracciate di foglie, - io sono un teppista come te») soltanto quando glielo suggerirono i giornali, e il pubblico lo pretese.


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{{A destra|LEONE GINZBURG.}}<section end="3" />
{{A destra|LEONE GINZBURG.}}<section end="3" />


<section begin="4" /><big><big><big>{{Centrato|'''<big>Sciocchezzaio</big>'''}}</big></big></big>
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{{ct|f=140%|t=1|v=1|'''Sciocchezzaio'''}}

<big>{{Centrato|'''Papini, i monasteri e altri edifici cittadini'''}}</big>
{{ct|f=120%|t=1|v=1|'''Papini, i monasteri e altri edifici cittadini'''}}

«I maggiori edifici, che fanno d’una città una città, appaiono aggregazioni di carceri. Non solo la carcere degli espianti, ma tutto è prigione: la reggia, prigione dei principi; il ministero, prigione degli scribi; la fabbrica, prigione dei salariati; la scuola, prigione degli adolescenti; la caserma, prigione dei giovani; l’ospedale, prigione dei feriti; il manicomio, prigione dei posseduti; l’ospizio, prigione degli abbandonati; il bordello, prigione delle Vendute; il monastero, prigione dei penitenti».
«I maggiori edifici, che fanno d’una città una città, appaiono aggregazioni di carceri. Non solo la carcere degli espianti, ma tutto è prigione: la reggia, prigione dei principi; il ministero, prigione degli scribi; la fabbrica, prigione dei salariati; la scuola, prigione degli adolescenti; la caserma, prigione dei giovani; l’ospedale, prigione dei feriti; il manicomio, prigione dei posseduti; l’ospizio, prigione degli abbandonati; il bordello, prigione delle Vendute; il monastero, prigione dei penitenti».


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