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Tramontando il sole

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La grande fiamma L'amante sciocca
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TRAMONTANDO IL SOLE.

A Enrico Nencioni.

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I.

— Chiarina, ti presento un amico, Giovanni Serra — disse la padrona di casa, mentre Serra faceva un grande inchino.

— Oh Anna, ma io lo conosco! — esclamò Clara Lieti, vivacemente, stendendogli la mano con un atto famigliare.

— Veramente? E come? — soggiunse Anna, con quel falso interesse mondano, che copre di amabilità la perfetta indifferenza.

— Da vari anni.... da moltissimi anni.... da un numero infinito di anni, lo conosco — e Clara finì con una risatina squillante.

— Non tanti, poi, signora Lieti — [p. 94 modifica] osservò Giovanni Serra, quasi facendo una correzione di pura cortesia.

— Allora, tutto va bene, vi lascio insieme — concluse la gentile e frettolosa padrona di casa, allontanandosi verso gli altri gruppi che popolavano il suo salone.

Serra restò in piedi, presso la signora Lieti: e taceva. Malgrado la luce bonaria dei suoi occhi azzurri, la sua fisonomia aveva qualche cosa di austero, che contrastava con la mondanità dell’ambiente.

— Non sedete? — chiese Clara, reprimendo un breve moto d’impazienza.

Egli ebbe una fugace esitazione; poi, si sedette in una poltroncina, accanto a lei. A poca distanza da loro, tre signorine chiacchieravano e ridevano con due giovanotti.

— Perchè vi siete fatto presentare? — domandò Clara a Serra, rompendo il silenzio, parlandogli con una intonazione più intima nella voce.

— Non sono stato io. Mi ha detto, la signora Anna: venite, vi presento a una donna di spirito. [p. 95 modifica]

— Sono io, disgraziatamente....

— Come, disgraziatamente?

— Lo spirito è una gran disgrazia, per una donna — ella sentenziò, con una di quelle tetraggini improvvise che le oscuravano la sorridente faccia.

— Perchè, signora? E un dono affascinante, un dono conquistatore....

— Per conquistare che?

— I cuori degli uomini.

— Bella conquista!

— Non l’apprezzate più?

— No, Serra — ella disse, profondamente.

Egli la guardò, ma senza stupore. Si vedeva che non le credeva. Ella abbassò le palpebre, per celare un lampo d’ira passeggiera nei suoi dolci, ma anche fieri occhi castani.

— Mi duole, che vi abbiano presentato.... — mormorò, poi, quasi parlando a sè stessa.

— Lo ripeto, non è colpa mia.

— ... come se foste un estraneo — ella soggiunse, vagamente — mentre io ho pensato a voi.... spesso.... [p. 96 modifica]

— Oh! — disse lui, con una incredulità modesta e cortese.

— ... molto spesso — ella terminò, senz’aver l’aria di accorgersi della sua negazione.

— E come mai? — domandò lui, con un po’ d’ironia, niente altro.

— Così — disse Clara tristemente e brevemente.

Giovanni Serra abbassò gli occhi, quasi celando una domanda che si potea forse leggere nel suo sguardo. Di lontano, mentre attraversava il salone per pregare una signora di cantare, Anna mandò loro un sorriso: li vedea discorrere, era contenta di aver bene collocati due suoi ospiti.

— Voi non credete alle voci interne dello spirito? — ella gli chiese, guardandolo fiso, con quei suoi occhi che il pensiero rendea più oscuri. — Voi non avete inteso che io pensava a voi?

— No, signora.

— Non credete a queste voci, o non ne avete inteso?

— Io ci credo, come credo purtroppo, [p. 97 modifica] a tutte le cose sentimentali: ma nulla mi ha detto nulla — e sorrise.

— Peccato! peccato! — ella soggiunse, a bassa voce.

Cantavano, adesso. Era una signora bionda e fine che, in giovinezza, si destinava al teatro e che un felice matrimonio aveva tolta al palcoscenico. Ma ella cantava dovunque, sempre, appena le domandavano di cantare, posando il suo manicotto o il suo ombrellino, levando la testolina dal colletto di pelliccia che ornava la sua mantellina, come un uccelletto canoro che vive del suo canto e morrebbe, se non cantasse. Tutti tacevano, nel salone: donna Clara Lieti ora guardava la cantatrice, quasi non volendo perdere una espressione di quel volto, sereno nella soddisfazione del canto. Poi, voltandosi verso Serra, pianissimo, gli disse, con un sorrisetto malizioso, tutta mutata nel viso:

— Non vi siete ammogliato, poi?

— Io? E perchè avrei dovuto ammogliarmi?

— Dicevano....

— Voi ci avete creduto? — egli le [p. 98 modifica] chiese, mostrando per la prima volta una ansietà nel viso.

— No, mai.

— Volevo dire — replicò lui, tranquillizzato.

— Mai creduto, mai — riprese Clara, sorridendo. — Poteano passar gli anni, potevate viaggiare, cambiar paese, cambiar viso, dimenticare la patria, ma ammogliarvi, no!

E le balenò il trionfo, nel viso. Egli si ritrasse: una espressione di austerità, di nuovo, gli chiuse il volto.

— Siete fedele, voi — esclamò lei, ridendo.

— Io, sì — replicò, a occhi bassi, duramente.

— Fedele, quand même — e rideva sempre più.

Quand même, no, signora Lieti.

— Vale a dire?

— Vale a dire che il fedele quand même, è l’uomo che seguita ad amare, anche se è schernito, o vilipeso, o abbandonato. A me non è accaduto nulla di questo.

— Come? — diss’ella, diventata grave. [p. 99 modifica]

— Io non ho amato nessuna donna frivola o perfida....

— Oh sì, Serra, voi avete amata la più frivola e la più perfida fra le donne! — ella esclamò, pianissimo, con un velo di lacrime negli occhi.

— Che importa quella? Io ne ho amata un’altra — egli dichiarò pianissimo, guardando innanzi a sè, come se vedesse la visione di una creatura incorporea.

— Ahimè, sono la medesima persona — Clara disse, pianissimo, con una mortale tristezza.

— Per me, no.

— È una illusione, Serra. Ella era cattiva, e voi avete gittato il vostro cuore.

— Il mio cuore serba un divino ricordo, un ricordo ideale a cui resta fedele: e giacchè tutto si riassume e si risolve in illusione, signora, io preferisco la mia.

— E la donna umana, la donna terrena, quella fatta di ossa, di carne e di nervi, quella che vi ha fatto soffrire e vi ha fatto piangere, l’avete dimenticata, Serra?

A questa domanda così diretta, così [p. 100 modifica] limpida, che Clara gli faceva, con voce pianissima, ma tremante, egli rispose subito, pianissimo, ma senza tremare:

— No, per molto tempo.

— Per quanto tempo?

— Per cinque o sei anni, credo, portai questo tormento. Dopo, ebbi una grave malattia. Quando guarii, ero guarito anche del mio segreto tormento.

— Guarito? Completamente?

— Sì, signora, completamente.

— Felice? Felice?

— Sono come un uomo liberato da una grave e crudele croce. Quando la depone, egli si sente mortalmente stanco: e, forse, si domanda, se quella croce non era la sua vita.

— Non so che farei, per vedervi felice, Serra — essa gli mormorò, pianissimo, con tenerezza.

— Quando volete, sapete anche esser buona.

— Non siate così amaro. È da un’ora, che vi parlo con la più grande dolcezza.

— È così strana, per me, la cosa, che non la capisco. [p. 101 modifica]

— Perchè siete così ironico? Non sentite che vi parlo a cuore aperto?

— Quale cuore, donna Clara?

— Il mio cuore.

— Quello di dieci anni fa?

— Quello di oggi, Serra.

— Io non lo conosco, donna Clara.

— È un cuore pieno di umiltà e di tenerezza.

— E perchè?

— Così. Perchè la gente si stanca di essere cattiva, si disgusta della propria perfìdia, ha la nausea di sè stessa!

— Pare impossibile, donna Clara.

— Non mi chiamate così!

— Non è il vostro nome? Il vostro bel nome luminoso e glorioso?

— È il duro nome di altri tempi; chiamatemi: Chiarina.

— Vi chiamerò: signora.

— Non siate così duro, Serra, ve ne prego.

— Io non sono che rispettoso.

— Il vostro rispetto è freddezza, è sarcasmo. Sapete che odio questa battaglia di freccie avvelenate. [p. 102 modifica]

— Signora Lieti, perdonatemi, se vi ho irritata.

— Non mi avete irritata, mi avete addolorata.

— E da quando in qua voi soffrite, signora?

— Ah il dolore è delle più trionfanti creature, sappiatelo! — ella disse, battendo le palpebre per diradare le sue lacrime.

Giovanni Serra tacque.

— Scusatemi, se vi ho detto qualche parola pungente — egli riprese, sottovoce. — Ma la vostra dolcezza, inaspettata, improvvisa, mi ha sconvolto. Perdonatemi. Nessun cuore vi è più devoto del mio, signora.

Ella lo guardò. Il pallore e la tristezza di quel bel volto di cui egli aveva adorato la gaiezza, lo colpirono. Anna si avanzava, tutta contenta, attraverso la gente che discorreva un po’ qua, un po’ là, ma riunita secondo le simpatie o gli interessi.

— Ebbene, sono rifioriti i ricordi? — chiese, mostrando i suoi bei denti bianchi di donna grassottella, elegante, fredda e felice. [p. 103 modifica]

— Rifioriti, certo — disse, levandosi, Clara.

— Viole mammole? Rose bianche?

— Crisantemi, crisantemi, Anna! — e sulla tetra parola fece una gran risata, si licenziò con un sorriso da Serra, con una stretta di mano da Anna, attraversò il salone, salutando ancora qualcuno ed escì.

Donna Clara Lieti, sotto l’atrio del gran portone magnatizio, in piazza Santi Apostoli, sentì un gran freddo. Erano gli ultimi di febbraio: ma sovra, nel salone, il caminetto era acceso, tanta gente vi si agitava, sotto le lampade coperte dai larghi paralumi rosei. Giù la via era fredda, nella prima ora della sera: nè via Santi Apostoli è molto frequentata. Ella affrettò il passo, chiudendosi meglio nella sua giacchetta di lontra, abbassando la faccia sotto la veletta, stringendo le mani nel manicotto. Tutto quello che era accaduto, sopra, da Anna, le appariva molto confusamente in questo primo momento di solitudine; ma a traverso il tumulto delle sue sensazioni, ella sentiva, nitidamente, [p. 104 modifica] tutta l’amarezza di una delusione. Come, perchè? Avrebbe forse preferito che Giovanni Serra le avesse parlato del passato, scherzando, come qualunque altro uomo avrebbe fatto, violando, nella realtà del presente e dell’oblio, tutta la sentimentalità di un grande e violento amore? No, lo scherzo l’avrebbe offesa intimamente, dandole una delusione. Avrebbe ella preferito che Giovanni Serra, l’uomo che ella avea ragione di stimare come il più leale che avesse incontrato mai, fingesse, innanzi a lei, un rimpianto che non sentiva? No, ella avrebbe inteso l’ipocrisia e ne sarebbe stata tristemente delusa. Avrebbe ella preferito che egli le facesse una scena violenta, come nei tempi in cui ella infliggeva a un amore giovane, onesto e ingenuo le torture di una glaciale civetteria e le perfidie di una fantasia muliebre mobilissima? Chi sa! Ella non sapeva bene che cosa avrebbe preferito, in quell’incontro con l’antica sua vittima, se l’oblìo assoluto, o la menzogna gentile, o il rinfocolarsi della passione: ma quello che era accaduto, non le [p. 105 modifica] piaceva. Era scontenta e triste. Sentiva di aver fatto troppi passi sovra un terreno infido, su cui aveva vacillato varie volte: e si pentiva della via intrapresa, così, obbedendo a non so quale segreto impulso del cuore. E dire che da tanto tempo, nel mistero della sua anima, ella si preparava a un incontro con Giovanni Serra; dire che aveva tanto desiderato, mitemente desiderato questo incontro e pensato con umiltà, con tenerezza, tutte le cose umili e tenere che gli avrebbe dette; dire che ella aveva tanto creduto all’effetto della bontà e della dolcezza, sovra un cuore che ella aveva abbeverato di fiele! L’incontro vi era stato, ma stupidamente combinato, senza poesia; ella aveva detto le cose umili e le cose tenere, ma le aveva dette male ed egli non le aveva credute; era stata buona e dolce, e non aveva fatto che tentarlo dolorosamente, rammentandogli i dolori passati. Ah come era triste, e scontenta, e affaticata, e infinitamente delusa, di tutto quello che era accaduto!

— Queste cose del passato, forse, [p. 106 modifica] bisogna lasciarle stare — pensò fra sè, e un sospiro le uscì dal petto.

Per andare al Corso ella non aveva osato, a quell’ora, prendere la via dell’Archetto che è deserta e male illuminata: così, aveva attraversato tutta la via Santi Apostoli, sul marciapiede, uscendo a piazza Venezia. Pensò se non fosse meglio, per rientrare in casa sua, in via Babuino, prendere una carrozza. Ma la folla, di quell’ora, al Corso, la rincorò: la sua vivace immaginazione ricevette una impressione, immediata, di distrazione.

— Non ci pensiamo — disse ancora fra sè, sentendo in fondo all’anima una delusione infinita.

Così, camminò lungo le botteghe fulgidamente illuminate, guardando con occhio distratto le vetrine. Quanto si pentiva di essere stata così affettuosa e così dolce, con Giovanni Serra! No, non avrebbe mai voluto apparirgli leggiera, frivola e schernitrice, come dieci anni prima; ma avrebbe dovuto trattarlo con disinvoltura, ecco, come se nulla fosse stato. Come un altro indifferente [p. 107 modifica] qualunque. Quasi quasi aveva tentato di farsi fare una dichiarazione d’amore, da lui! Quasi quasi gliene aveva fatta una, lei! E quello, intanto, glielo aveva detto così chiaramente, che non l’amava più! E tutto lo scetticismo naturale e giusto, che egli aveva alimentato nel cuore dieci anni, non era sgorgato, quando quasi quasi ella gli aveva detto di amarlo! Ora, nella via, Clara Lieti, soffriva atrocemente nell’orgoglio. Quasi aveva chiesto e non aveva ottenuto: quasi si era abbandonata ed era stata respinta. Un’ira si mescolava alla delusione; ella camminava più presto, internamente esaltata dalla ferita che aveva scoperto alla sua superbia. Poi, camminando, ad un tratto, l’ira cadde:

— Bene mi sta — pensò. — Raccolgo quel che ho seminato. Giovanni ha ragione.

Un uomo la raggiunse: erano in piazza San Marcello.

— Signora, buonasera.... — e si cavò il cappello, mettendosele accanto.

Era Giovanni Serra. Un po’ pallido, niente altro. [p. 108 modifica]

— Buonasera — ella rispose, con voce stanca. — Siete venuto via?

— Sì: avrei voluto scendere con voi di là.... ma siete fuggita, così.... e poi, si poteva notare....

— Oh, non importa! — diss’ella con un sorriso amaro.

— A me, importa.

La voce di Giovanni pareva meno breve, meno secca. Evitava di guardare Clara.

— Posso accompagnarvi, un poco? — le chiese, frenando il tremore di emozione che lo vinceva.

— Sì, sì, anche molto.

— Non seccherà nessuno?

— Chi, nessuno?

— Qualcuno che vi ami e che voi amiate.

— Io non amo nessuno e nessuno mi ama, Serra — ella rispose, freddamente.

— Non è possibile, signora.

— Oh è possibilissimo, credetelo.

— Voi mi parete una donna degna dell’amore di tutto il mondo — e la guardò con un impeto di ammirazione, in cui parve risorgesse l’uomo di dieci anni prima. [p. 109 modifica]

— Siete stato sempre molto esagerato, per me, Serra — continuò ella a dire, con un freddo e triste sorriso — e mi avete abituata male. Vi assicuro che la gente fa di meno di amarmi, senza nessuno sforzo.

— Non vi conoscono — egli disse, a bassa voce.

— Anche chi mi conosce. Specialmente chi mi conosce.

— Siete in un periodo di pessimismo, signora.

— In verità, Serra, niuno pensa di me tutto il male che io ne penso. E sì che tutti mi giudicano assai mediocremente.

— Non parlate così — egli mormorò.

— Voi stesso, Serra.

— Io ve ne domando perdono. Ero tanto turbato.... mi avete parlato in un modo così strano....

— Già: è la mia nuova maniera, quella di esser buona — disse Clara, con un sorrisetto amaro e gelido — ma mi riesce poco, come vedete.

— Fare il male, vi piaceva di più? — egli le chiese, chinandosi a guardarla [p. 110 modifica] attentamente, come quando gli parea intravvedere la verità di quell’anima femminile.

Ma ella schivò la confessione. Rispose, di scatto:

— Piaceva di più agli altri.

— La perfidia? A chi, dunque?

— A voi.

— A me?

— Proprio. Se io fossi stata una buona e affettuosa donnina e non una civetta infernale, se fossi stata un’anima pia e tenera e non una beffarda e arida creatura, mi avreste amata ben poco, credetemi — e le lampeggiarono gli occhi, come in quei tempi in cui egli delirava per quegli occhi.

— Se voi foste stata non buona, ma umana, semplicemente umana, Clara — egli disse, a voce bassa — allora, voi non avreste disfatta la mia vita.

— Veramente, disfatta? Mi sembra che stiate benissimo — e sogghignò.

— Io non mi lagno, signora — rispose Serra, semplicemente, ma senza durezza — e non vi rimprovero. [p. 111 modifica]

Ella lo guardò, in silenzio. Veramente, in quel momento, mentre attraversavano piazza Colonna tutta fulgida di lumi, Giovanni Serra le parve invecchiato. Su quegli occhi azzurri che ogni tanto aveano qualche cosa d’infantile, parea che veli e veli di lacrime fossero passati, nell’ombra e nella solitudine, quando l’uomo può lasciar erompere il suo dolore, oltre le dighe della fierezza. Su quelle labbra si era posata una stanchezza che ella soltanto ora scorgeva, la stanchezza di aver invano chiamato un nome, di aver invano invocato un bacio, di aver invano singhiozzato, nelle ore solinghe dell’abbandono. Per la prima volta, e con una intensità profonda, ella sentì che vi hanno ferite che non si chiudono mai, e sentì che il tempo può portare via una vita, ma non può portare via un dolore da un uomo vivente.

— Quanti anni avete, ora, Serra?

Ella lo chiedeva, così, vagamente, tristemente.

— Trentaquattro, signora.

— Un uomo è giovane, a questa età. [p. 112 modifica]

— Anche una donna — egli disse, cortesemente.

Clara ebbe un lieve moto della testa. E con una infinita tristezza, soggiunse:

— Io non ne ho più trentaquattro, amico mio.

— No? Non eravamo coetanei?

— Eravamo? Non siamo più. Io ho centotrentaquattro anni, credo. È incalcolabile quanto io sia vecchia, Serra.

E mentre ella si abbandonava a quest’asserzione, piena di un vero dolore — ella soffriva moltissimo d’invecchiare — tendeva l’orecchio, a raccogliere la contraddizione. Ma egli non contraddisse; disse, con un ritorno di candore ammirativo:

— Per me, non sarete mai vecchia.

— Vecchissima, vecchissima! — insistette lei, a denti stretti.

— Non dite questo, non lo credete: io non lo credo.

— Io ho dei capelli bianchi, fra i neri.

— Ma non si vedono: io non li vedo.

— Perchè li nascondo o li mostro con disinvoltura. Se mi guardate bene, di [p. 113 modifica] giorno, ho una quantità di piccole rughe, accanto agli occhi e accanto alle labbra.

— Non si vedono; io non le vedo.

— Perchè rido sempre. Ma se sono triste, non so come, i miei capelli bianchi appariscono subito e le mie rughe si vedono tutte, sottili, che tagliano leggermente la pelle, visibilissime. Che orrore!

Aveva detto questo in fretta, eccitata, come una persona che si confessa di un suo grave errore, piena di dolore, con una brutalità di particolari, che le rendean fischiante, quasi flagellante la voce.

— Io vi vedrò sempre come vi ho amata, Clara — egli le rispose, con la sua buona voce consolante.

— Ah io sono vecchia, Serra: nessuno mi ama più e nessuno mi amerà più! — gemette ella, levando il manicotto, sino alla bocca, a soffocare un singhiozzo.

Turbato sino al profondo del cuore, egli non trovò parole per esprimere il suo pensiero. Forse non ne aveva neppure uno preciso, in quell’agitazione di sentimenti. Delicatamente, con una tenerezza [p. 114 modifica] paterna, egli le prese una mano guantata e la carezzò fra le sue:

— Poveretta, poveretta!

— Se sapeste, se sapeste! — ella balbettò, al massimo dell’emozione.

— So.... so qualche cosa.... — e il calore della piccola mano che egli sentiva, dall’apertura del guanto, aumentava immensamente la sua confusione.

— Se potessi dirvi.... amico mio.... se potessi dirvi tutto — ed affannava, come se i più terribili segreti la soffocassero.

— Tacete.... non dite niente — egli le susurrò, all’orecchio.

— Che bene mi farebbe il parlare, amico mio! ah io mi sento affogare. Da anni e da giorni, io vorrei gridare, urlare, pur di gittar via la mia pena.

E lo guardava con occhi così dolorosi e così interrogativi, così invocanti un orecchio pietoso alle confidenze, che egli si arretrò. Era pallidissimo: ma Clara, nell’egoismo della sua angoscia, non se ne accorgeva.

— Non potrei ascoltarvi, Clara.

— E perchè, e perchè? [p. 115 modifica]

— Così: non potrei.

— Non mi siete amico, allora?

— Sì, vi sono amico — e parlava con un evidente sforzo.

— E non vorreste confortarmi?

— Vorrei, vi giuro che lo vorrei; ma così, non posso.

— Che crudele siete! Voi sapete che se io potessi dirvi la mia croce, essa sarebbe meno schiacciante, meno pesante; voi sapete che se io potessi piangere accanto a voi, a lungo, a lungo, piangere immensamente, infinitamente, queste lacrime mi laverebbero da ogni torbido proposito: e mi negate questo sollievo. Ah siete un crudele! Non eravate, crudele!

Si erano fermati all’angolo di via Babuino, dopo aver attraversata piazza di Spagna. Egli la guardava, immobile, con gli occhi pieni di dubbio.

— Ma che donna siete voi, Clara, che non dovete intendermi nè prima, nè poi? Io, vi debbo consolare, quando tutto il tempo della vostra gioia è stato dato ad altri? Io? Chi sono io? Niente, nessuno [p. 116 modifica] Così avete voluto che io fossi: niente e nessuno.

— Avete ragione — ella disse, domata a un tratto, caduta nella rassegnazione e nell’umiltà.

— Non vi rammentate che vi ho adorata come uno schiavo e che avete battuto sul mio cuore, come si batte sul dorso di uno schiavo? Non vi rimprovero, non mi lamento: ma voi mi domandate anche della pietà, voi che non ne avete avuta mai!

— Avete ragione — Clara ripetè, umilmente.

— Vi rammentate, Clara, che vi ho voluto bene così teneramente e che non me ne avete voluto mai? Vi ricordate che avete lasciato che io vi amassi, incoraggiandomi talvolta, talvolta avvilendomi, facendomi passare dalla gioia alla disperazione, in un giorno, e non volendomi bene mai, mai, nè prima, nè dopo, nè mai? È vero, o no?

— È vero, è vero — ella annuì, chinando il capo, fatta quasi più piccola dall’annichilimento, in cui la gittavano il rimorso e il rimpianto. [p. 117 modifica]

— Vi rammentate, Clara, che ne avete amato un altro, me presente, che avete voluto che io lo sapessi, che me lo avete detto, ridendo?

— Sì, sì, è vero.

— E ora, Clara, ora che sono passati dieci anni, ora che voi avete mutato il vostro cuore, come dite, ora voi siete come allora, voi volete che io vi conforti, perchè un altro vi ha lasciata. Voi siete crudele come in quel tempo, Clara: allora ridevate, adesso piangete, ecco la differenza!

— Scusatemi — ella mormorò, nel colmo dall’avvilimento.

— Ma io sono un uomo, Clara, e se posso avere spezzato il mio cuore, se posso aver vinto ogni desiderio e ogni speranza, sono sempre un uomo, e voi non mi potete raccontare i dolori, che vi ha dato l’amore di un altro!

— Perdonatemi!

E fece l’atto di volergli prendere la mano. Ma egli la ritrasse.

— Non mi avrete capito, mai, Clara. Morirò, ma non saprete nulla di me — [p. 118 modifica] concluse egli, più freddamente, essendo giunto quasi a vincere la sua emozione.

Così camminarono in silenzio verso la casa di Clara. Ella andava a capo basso, sentendo di avere errato ancora, di avere inutilmente violato la fierezza del proprio cuore, mostrandone il segreto dolore, a un uomo che non poteva avere pietà di lei: sentendo di avere nuovamente offeso quel cuore che era stato così intieramente suo e che ora non aveva più forza pel desiderio, avendone solo per la dignità. Più amaro crebbe in lei il rimpianto, comprendendo di essere passata accanto all’amore, alla devozione, alla dedizione più completa, senza accorgersene, abbandonando alla solitudine, all’angoscia questo cuore inutilmente devoto e inutilmente affezionato. Era troppo tardi, oramai, anche per far risorgere in questo cuore una mite affezione: troppo tardi, per ridare a questo cuore la bella luce della fiducia. Due volte, quasi fosse sola, ella fece un piccolo cenno definitivo, con la mano aperta che pendeva lungo la gonna e le cui dita pareva avessero lasciato andare un [p. 119 modifica] piccolo e prezioso tesoro. Camminavano accanto: ma ella che non aveva mai capito chi egli fosse, intendeva che le loro strade erano diverse. Quando furono innanzi al portone, si fermarono. Egli aveva l’aspetto più stanco che mai; ma niuna durezza vi fu nello sguardo con cui la fissò.

— Buonasera — ella disse, con un’intonazione monotona.

— Buonasera — egli rispose, cavando il cappello e facendole un grande saluto.

Ma non si lasciarono subito. Parea che si dovessero dire qualche altra cosa. Parea che ambedue sapessero di non doversi veder più e che una qualche cosa, più intima, più misteriosa, si dovessero dire. Ella gli stese la mano: egli la rattenne un poco fra le sue, ma senza stringerla. Ambedue sedavano a stento il tumulto delle loro anime. Poi, a un tratto, egli le domandò una cosa strana, impensata:

— Che fate ora, sopra?

— Io? Nulla.

— Qualcuno vi aspetterà? [p. 120 modifica]

— No. Nessuno.

Il tono era della più perfetta franchezza.

— E voi, che fate? — chiese ella con eguale incoscienza.

— Vado a casa.

— A casa! E che ci farete?

— Non so.

— Buona sera, Giovanni — ella mormorò, facendo per andarsene.

Ah, quale sussulto, lo scosse! Ella che aveva sempre trovato antipatico, brutto, volgare il suo nome di battesimo, tanto che egli aveva finito per odiarlo, ella lo pronunciava adesso, dopo dieci anni, con tanta soavità! Egli s’inchinò e le baciò la mano, leggermente. Si guardarono: ella volse le spalle; pian piano entrò nel portone, cominciò a salire le scale. Non era forse incerto il passo della donna, salendo per quelle scale, alla sua casa deserta? Il passo dell’uomo era incerto, andando alla sua casa deserta. [p. 121 modifica]

II.

Ella lo ricercò, dopo soli tre giorni: ed egli che l’aveva fuggita per quattro o cinque anni, da quando Clara, dopo un lungo viaggio, era ritornata in patria, egli si lasciò ricercare e tenne l’invito. Fatalmente, Clara era troppo sola e troppo libera, adesso. Gli aveva scritto un biglietto fra il malinconico e scherzoso, per dirgli che la sera istessa sarebbe andata al vecchio teatro Argentina, dove cantavano una vecchia musica, l'Armida, di Glück. Ella vi arrivò prima. Vi era un gran ballo, quella sera, all’Ambasciata d’Inghilterra, e tutta la grande società romana era colà: l’Argentina era quasi vuota, male illuminata, freddina: pochi amatori di musica antica stavano nelle poltrone, immobili, a pregustare le melodie incantatrici. Clara era vestita di nero: stava in un palco di terza fila, di [p. 122 modifica] fianco, scelto apposta: una veletta nera le scendeva dal cappellino molto semplice e molto carino. Così, sembrava più piccola e più giovane. Serra tardò. Due o tre volte, ella pensò che non sarebbe venuto e si pentì di avergli scritto. Aveva la più ferma volontà di essere umile e schietta, ma il suo amor proprio dava dei sobbalzi all’idea di un rifiuto sprezzante. Però, quando egli entrò, senza far rumore, ella chiuse gli occhi, a nascondere la gioia del suo sguardo. Ella si voltò, gli sorrise e gli stese la mano:

O ma belle ténébreuse.... — egli disse, con una certa disinvoltura.

Il tono disinvolto durò così, un pochino. Poi, a lui sfuggì una frase pericolosa:

— Io non voleva venire....

— E perchè?

— Mah.... per paura.

— Paura di chi?

— Di voi.

— Di me? Paura?

— Me ne avete sempre fatta un poco, Clara.

— Io sono una povera scema — [p. 123 modifica] diss’ella, con la più perfetta umiltà — io non faccio paura a nessuno.

Ed era umile e semplice, nello stesso tempo: e una gran bontà le si leggeva negli occhi, nel sorriso, trapelava nella sua voce. Gli parve piccolina, così giovane e sempre così cara! Pure, volle dire quest’altra cosa lui:

— Credevo che non sareste venuta....

— Io? E perchè?

— Per farmi soffrire....

— Io vorrei che foste l’uomo più felice della terra, amico mio — esclamò ella, con una sincera convinzione.

Giovanni ebbe un sorriso malinconico. Disse, di nuovo:

— Sì, sì, ho creduto che non sareste venuta....

— Come avete potuto credermi così cattiva?

— Il mio animo è così combattuto dai dubbi, Clara — e il volto gli si turbò.

— No, no, non parliamo di ciò — ella replicò, subito, interrompendolo. — Fa male ad ambedue.

— È vero — egli consentì. Un sospiro [p. 124 modifica] di sollievo gli uscì dalle labbra. Ma il pessimo demonio che si annida nelle anime buone e le fa tormentate e tormentatrici, gli fece soggiungere:

— Mancavate così spesso ai convegni, allora!

Ella guardò sul palcoscenico, un momento. Lo chiamò, poi:

— Giovanni?

— Che volete?

— Mi fate un piacere?

— Sì, subito.

— Vogliamo lasciare in pace il passato? Vogliamo non amareggiarci qualche ora graziosa, che possiamo passare insieme? Vogliamo essere anche per un mese, anche per una settimana, anche per una sera, due cari amici che si ritrovano, che non ricordano più i torti comuni, i torti di uno, è più giusto, e che si dànno, ingenuamente, alla serenità e alla letizia di un colloquio senza ira e senza malintesi? Vogliamo?

— Potremo noi far questo? — chiese Giovanni ansiosamente.

— Se voi lo volete, sì. [p. 125 modifica]

— Io lo voglio, Clara.

E quetamente, tirandosi un po’ indietro, i due si posero a discorrere sottovoce, guardandosi con dolcezza, l’uno prendendo la parola dall’altro, senza mai alterarsi, senza mai alzare il tono della voce, mentre la soave musica glückiana che culla l’incantesimo del cavalier Rinaldo, pareva cullasse quel dialogo così mite e così dolce. In verità, Clara fu perfetta, quella sera. Giustamente malinconica, ella seppe a tempo sorridere, perchè il loro colloquio non cadesse nella tetraggine, dove sarebbero risorti gli amarissimi ricordi del passato: e tutta una dolcezza fioriva dalla sua malinconia e dal suo sorriso, dalle sue parole come dal suo silenzio. Più, dal suo silenzio. Giacchè ella lasciò molto che parlasse lui, con le manine inguantate di nero congiunte sul suo ventaglietto a stelline d’argento, con il viso intento dietro il sottil velo nero, con gli occhi placidi e dolci, con la bocca tranquilla e dolce che approvava, con un gentil motto delle labbra. Sovra tutto, ella non rise mai. Si [p. 126 modifica] rammentava che egli, dieci anni prima, nei tempi dell’amore e del tormento, detestava quel suo riso squillante e clamoroso che le scopriva tutti i denti bianchi, che dava un non so che di feroce alle labbra rosee e che le riempiva gli occhi di scintille. Lo aveva tante volte visto fremere e impallidire, dieci anni prima, a quel mal riso beffardo e aveva sempre più riso, per ucciderlo a forza di risate, come in una leggenda! Non rise mai, quella sera, mentre Armida cantava le sue magiche canzoni, che davano le visioni ineffabili al sonno di Rinaldo. Lo ascoltò, serena, raccolta, con un’attenzione così dolce, che l’animo di Giovanni, restato in grande trepidanza sino all’entrata in teatro, si venne rassicurando, rianimando, rallegrando. Due o tre volte, involontariamente, egli alluse al passato, giacchè troppo il suo amore mancato aveva influito sulla sua esistenza, deviandola, torcendola ad altri ideali dello spirito, più alti, più inaccessibili e più tormentosi. Ma ella, dolcemente, non rispose alle allusioni che con un cenno di umiltà, [p. 127 modifica] abbassando il capo: ed egli si riprese subito, commosso da tanta dolcezza. Solo a vederla così, ascoltatrice intenta e cheta, tutta data alle parole che, egli le diceva, coi begli occhi limpidi nella loro nerezza, piccola, vestita di nero, senza gioielli, senza nulla che sfolgorasse, senza nulla che stridesse, egli si sentì invadere da una tale letizia dell’anima che giammai gli parve di averne provata una simile. Ella fu, in questo, perfettissima: giacchè lasciò svolgersi quell’alta consolazione spirituale, senza avere l’aria di sospingerla, di provocarla, di goderne come di un trionfo: e quando lo spettacolo finì, si levò in piedi, pian piano, prendendo il suo mantello. Egli fu più lesto di lei: ed ella sentì che mentre l’aiutava ad indossarlo, le sue mani tremavano. Allora, ella ebbe un pensiero orgoglioso, muliebre. Pensò:

— Ora mi dà un bacio.

Egli s’indugiò a metterle questo mantello ed ella sentì il suo respiro, sulla sua nuca: ma Giovanni non le dette il bacio. E come Clara aveva nascosto la sua [p. 128 modifica] subitanea ambiziosa idea, così nascose la sua pronta delusione. Nè fu una delusione fortissima. La dolcezza di quella serata, aveva ingannato anche lei. Ella sapeva bene di fare uno sforzo su sè stessa, per reprimere gli impeti del suo temperamento bizzarro e per essere assolutamente dolce: ma sperava di poter continuare così, sempre che lo volesse seriamente. E come lui credeva di aver innanzi una creatura trasfigurata, che gli avrebbe dato le fredde, tranquille e ultime tenerezze senz’amore, ma tenerezze sicure di un’amicizia muliebre, così ella si lusingava di poter essere questa amica gelida, affettuosa e quieta.

Però, ambedue, chiudendo gli occhi, si lasciarono andare a questa consolante fiducia. Egli cominciò a vederla più spesso. Ella era molto stanca, invincibilmente stanca della vita mondana che aveva fatta sempre: e si appartava volentieri. Se andava a una passeggiata, era in ore strane e in posti deserti: lo avvertiva, egli ci veniva. Se andava in un teatro era alle terze rappresentazioni, in serate vuote; [p. 129 modifica] e dieci minuti dopo il suo arrivo, entrava lui, nel palco, si sedeva in fondo, ella si tirava indietro, un poco. Vestiva di scuro, sempre; sapeva di piacergli così. Si può essere una semplice amica, ma si deve piacere all’amico. Parlavano con fredda tenerezza. Molto ella ascoltava: ma quando diceva qualche parola, era sempre sapiente, detta con la più squisita cautela sentimentale. Giammai un’allusione al proprio cuore, al proprio stato, nè diretta, nè indiretta: sempre la massima pietà per gli altri, la massima indulgenza per ogni peccato, come chi sa che è impossibile non peccare, quando si deve peccare. Egli si era mutato, però. Non poteva tenere il patto di non evocare il passato. Era la sua vita, il suo amore di dieci anni prima, e ricompariva sempre più spesso, fino a che divenne il solo soggetto dei suoi discorsi. Taceva da tanti anni e con tutti, che ora la verità di quella mortale passione sgorgava infrenabile. Ella ascoltava, stupefatta; ma non interrompeva mai. Veramente, egli aveva ragione: Clara non aveva mai capito quanto era stata amata: [p. 130 modifica] ora, lo capiva. Ogni tanto, quando egli le diceva una delle sue torture ineffabili di gelosia, di allora, ella faceva un atto come per chiedere perdono, un atto in cui ella si dichiarava colpevole, sì, ma incosciente, ma ignorante, ma degna di perdono. Egli la guardava con tanta tenerezza, che, senza parlare, le diceva di averle perdonato. Quando egli si meravigliava che ella avesse potuto essere così atroce, essa gli diceva di esserne stupita, di stupirsene, lei stessa: e ciò come se si parlasse di una donna assente, di cui si compatissero gli errori. E quando egli giungeva a narrare certe ore terribili in cui avrebbe voluto morire, pure di strapparsi dal petto questo amore, ella aveva una frase di pietà profonda, intima, raumiliata, la frase del carnefice pentito innanzi alla sua vittima:

— Voi siete buono.

Niente altro, diceva. Ella non si difendeva mai, nè si accusava: quando egli l’accusava, gli dava ragione, con un’occhiata, con un triste sorriso, con un cenno espressivo della bella bocca. Vi era un [p. 131 modifica] ritornello, che egli pronunziava sempre, nervosamente, a traverso i suoi racconti scuciti; un ritornello che rivelava l’attossicamento della sua vita, in tutte le sue più pure sorgenti, l’avvelenamento crudele di un sangue giovane e di un’anima, resa inetta a vivere e incapace di morire così. Il ritornello:

— Che veleno mi avete dato, che veleno!

Quando ella lo udiva, aveva un moto così pessimista della testa e della persona, sulla crudeltà muliebre, che egli si commoveva. Talvolta, tornava la frase:

— Quanto veleno, Clara, quanto veleno!

Ella diceva, allora, umilissimamente:

— Avete ragione.

Ma da questa sua umiltà voluta, e poi quasi fatta naturale, nei loro colloqui, da questo suo abbassarsi nella coscienza dei suoi gravi torti, da questo non difendersi giammai, da questo dargli ragione, sempre, da questo racconto triste e violento di un amore infelicissimo, ella trasse una nuova sensazione e un nuovo sentimento. [p. 132 modifica] Il senso della sua colpevolezza, verso Giovanni, giganteggiò ai suoi occhi: e il sentimento della riparazione divenne acuto e ardente, quanto era stata la colpa.

Così, mentre Giovanni risaliva tutta la piena della sua grande sciagura sentimentale e con la sua sensibilità fine e tenera ne approfondiva, narrandoli, tutti i dolorosi particolari, Clara che aveva un temperamento più fantastico che sensibile, esagerava, con una dura voluttà di abbassamento, contro sè stessa, la propria aridità passata e l’atroce perfidia. Tanto che, alla fine, secondandolo e sorpassandolo ella, ambedue sembrarono accanirsi contro una persona assente, lontana, morta, che ad ambedue avesse commesso i più gravi torti. Anzi quella lunga istoria intima, tenuta chiusa nel cuore per dieci anni di esistenza triste, priva di spirituali conforti, traboccando dalle labbra di Giovanni perdeva molta amarezza, nello sfogo: e la naturale indulgenza di quel cuore virile che non sapeva dimenticare, ma sapeva perdonare, trovava delle misteriose scuse alla donna [p. 133 modifica] che era stata con lui senz’amore, senza carità, senza pietà. Invece, quella medesima istoria, a Clara sembrava più lugubre e più ignobile che mai, quando ella pensava il come e il perchè della sua perfidia e della sua durezza. Internamente, ella si maltrattava, molto più che Giovanni l’avesse maltrattata mai, nei momenti di maggior furore. Ogni tanto, quando egli le aveva descritto una delle sue sere tragiche, di quel tempo, quando egli passeggiava le serate intiere sotto la sua casa, non per vederne le finestre illuminate, giacchè ella era fuori, a ridere, a divertirsi, ma per aspettarla quando tornava, per vedere con chi tornasse, per vedere il suo bianco volto nella oscurità, per udire quel riso alto e beffardo e per allontanarsi, non salutato, non riconosciuto, non visto, non rammentato, egli, col più tenero dei rimproveri, le prendeva le mani e le chiedeva:

— Come avete potuto essere così cattiva?

Ella non s’inteneriva, col viso chiuso, con le sopracciglia aggrottate, piena d’ira [p. 134 modifica] e di disprezzo contro questa Clara tanto colpevole, e rispondeva, duramente:

— Io sono stata sempre cattivissima.

— Chi sa.... — mormorava lui, nella semplice clemenza del suo animo — chi sa per quali strane ragioni....

— Non v’illudete, Giovanni: per nessuna misteriosa ragione. Non vi fate di me una figura romantica. Io ero civetta, volgare e cattiva come l’ultima delle donne, ecco tutto.

— No, no, cara donna, non vi avvilite così — soggiungeva lui, colpito dai più bizzarri sentimenti, in contraddizione — io non voglio che vi avviliate. Forse, io fui ingiusto: forse, sono ingiusto ancora adesso. Chi soffre, chi ama, è così facilmente ingiusto.

— Voi siete il più onesto e il più buono fra gli uomini — ella rispondeva, con gli occhi velati dalle lacrime.

Tacevano. Spesso, in quel periodo acuto di reminiscenze, mentre Giovanni si lasciava andare alla immensa consolazione di parlare del suo amore passato, egli intravedeva confusamente, in queste [p. 135 modifica] tenere e tristi confidenze, non so quale pericolo. L’intensa attenzione con la quale Clara lo ascoltava, la squisita furberia sentimentale con cui lo interrogava, i suoi silenzii pieni di una repressa emozione, a un tratto facevano risorgere tutti i suoi dubbii e la sua anima sofferente si rigettava indietro, sgomenta di essersi troppo abbandonata. Spesso, diffidente vagamente, egli tentava di togliere il discorso, dicendo che questi ricordi lo turbavano troppo: ma ella l’obbligava, prima con la dolcezza, poi con una certa energia di volontà coperta di dolcezza, a ritornare alla triste istoria. Una sera, in una passeggiata al chiaro di luna, gli disse:

— Ditemi tutto. Forse mai più ci potremo vedere così liberamente e così spesso: forse, fra una settimana, fra un giorno, non ci vedremo più. Dite, dite, che io sappia, che io non muoia senza aver saputo, che qualcuno mi ha veramente amata.

— Potremmo non vederci più, Clara?

— La vita è oscura — ella rispose, profondamente.

Forse, per questo, ella moltiplicava gli [p. 136 modifica] incontri, dandogli sempre dei nuovi convegni, ansiosa, affannosa, come se il tempo le fuggisse, come se ella avesse qualche misteriosa chiamata altrove e che la presentisse. Ella arrivava più presto, portando dei fiori nelle mani, come era il suo costume, un po’ pallida sempre, sotto le fini velette nere, vestita quasi sempre di nero, piccola, con un viso che si levava verso lui, esprimente una immensa ansietà negli occhi dolci che egli aveva adorato, nella bocca ancora fresca e vivida che era stata la sua adorazione. Si stringevano appena la mano e si mettevano accanto, passeggiando piano, non vedendo nessuno, andando per le vie più strane e più remote, perdendosi per ore intiere, parlando di quel passato che ella evocava, con un motto, con un gesto. E più il tempo trascorreva, più cresceva in lei, in duplice corrente spirituale, un infinito rimpianto per il passato e un acuto rimorso. Di lontano, questo amore di cui ella aveva riso, in pubblico, questo amore di cui ella si era burlata, come una pessima femminetta, questo amore per cui ella [p. 137 modifica] aveva avuto il più palese disprezzo, questo amore si faceva più alto, più puro, più spirituale, staccato dal tempo e dallo spazio, sciolto dalla realtà dei fatti. In certe sere, in cui lui la riaccompagnava a casa, sino al portone, non volendo mai salire sopra — non voleva salire, era inflessibile, non voleva metter piede in casa sua — dopo aver ancora chiacchierato a lungo, nell’ombra, ella saliva sopra, così smorta che pareva svenisse. Nella casa non vi era che un sol lume, nella sua stanza da letto; ed ella l’attraversava, questa muta e deserta casa, all’oscuro, a tentoni, guardando nell’ombra. Ma quando giungeva nella sua stanza da letto, ella si gittava sul letto, col capo nascosto nei cuscini, piangendo, singhiozzando, sull’irreparabile:

— Che ho fatto, che ho fatto! Che amore ho perduto, per sempre, per sempre!

Acuto rimpianto e acuto rimorso! Essa, forse, nel furore contro sè stessa, esagerava, dipingendosi come l’anima femminile più turpe comparsa nella gran falange muliebre; ma non era men vero che la [p. 138 modifica] esistenza di Giovanni Serra era stata infranta da quella passione infelice, tanto che egli non aveva raggiunto, come il suo cuore e il suo talento meritavano, nè la gloria, nè la felicità: non era men vero che egli era un essere senza molla interna che lo spingesse, senza desiderii e senza speranze: non era men vero che, per questo amore, egli aveva gittato la sua salute, la sua gioventù e la sua fortuna: non era men vero che egli possedeva la più preziosa qualità umana, che è l’onestà, e la sublime virtù che è la bontà. Come non doveva Clara piangere, nella solitudine della sua stanza, tutte le più ardenti e le più amare lacrime su questo amore perduto e su questo cuore infranto? Come non doveva sentire in sè, temperamento mobile e violento, assetato di amore, assetato di felicità, la ribellione contro l’irreparabile?

Invero, si trovava di fronte all’irreparabile: ed era quello che le faceva torcere le braccia, nella notte, quando per tutta una serata ella aveva udito il mormorio dell’amore, al suo orecchio, ma di [p. 139 modifica] un amore finito, morto. Giacchè ogni parola, ogni frase di Giovanni Serra, pur restando nella più fine gentilezza da uomo a donna, pur avendo la poesia della tenerezza, diceva a Clara, che egli non l’amava più. Invano ella, con l’animo ansioso — era questa, la sua ansietà — interrogava ogni tono di voce, scrutava il senso riposto di ogni motto, rifaceva, da sola, tutto il loro dialogo, per scoprirvi una sottil luce presente. No, non l’amava più, malgrado la commozione che egli aveva, sempre, nel lasciarla, nel rivederla, malgrado il fascino che subiva, malgrado la gran tenerezza che dominava ogni suo atto. Amore vissuto tanto tempo e così ardentemente e ora sepolto sotto un mucchio di gelida cenere che una mano andava smovendo, mano sapiente che conosceva la storia di quel fuoco e di quella vampa e che la rievocava, sulla fredda cenere. Giovanni non parlava quasi mai del presente, con un atto di finezza d’animo, quasi dolendogli di non poter ancora ardere come prima, quasi sembrandogli un’offesa al suo idolo, la fiamma [p. 140 modifica] spenta e le ceneri gelate. Non diceva nulla, ma si capiva così chiaramente, che nulla più, più nulla, non la più piccola scintilla ardeva innanzi alla cara donna, simulacro vano della passione, morto, come la passione era morta. Ed ella, sì, singhiozzava nelle sue notti senza sonno su quella grande fiamma spenta, sentiva di essere passata accanto alla felicità senza vederla, allontanandosene per sempre, ma esclamava, fra l’inutile pianto:

— Ha ragione, di non amarmi più, ha ragione: egli soltanto ha ragione, egli che ha amato!

Ma da queste nascoste battaglie dello spirito che Clara combatteva, con tutto l’impulso di una natura appassionata, sebbene fugace; da questa umiliazione in cui la sua anima era caduta, tanto che parea si prostrasse innanzi a Giovanni Serra; da questo indicibile rimpianto dell’amore, acutissimo in una donna che aveva amato l’amore sovra tutte le cose umane e a cui l’età non calmava l’anima; da questo tormentoso rimorso che si sollevava da tutti gli istinti di [p. 141 modifica] giustizia e di equità offesi, sorse dentro Clara una impetuosa volontà di correggere e di vincere il destino. Ella pensò, questo: che era suo dovere morale amare Giovanni Serra, di un amore profondo e devoto che fosse l’estremo della sua vita, e in cui ella prodigasse tutte le ultime e supreme dolcezze del suo cuore; che non solo era suo dovere, ma che era questo il suo desiderio sentimentale più forte, più immediato, più irresistibile; che non solo era un desiderio irresistibile, ma che era, questo amore, la più cara speranza del suo cuore che voleva lavarsi, che voleva purificarsi e diventar nuovo e candido come il cuore del Salmista; che non solo era la sua più cara speranza, ma che era la salvazione della sua dignità di donna, l’assoluzione dei suoi errori trascorsi, la vecchiaia percorsa senza più sentire rimorsi, aspettando serenamente la morte. Sorto dalle ire soffocate e dai profondi disprezzi di sè stessa, questo pensiero di amore l’avea in un baleno soggiogata e tutta l’anima ebbe il calore del metallo in fusione. Nessuna voce [p. 142 modifica] interna l’avvertì di non mettersi a questo periglioso passo, nelle sue condizioni, alla sua età, con un uomo come Giovanni Serra: e se talvolta, un nero presentimento la colpì, a traverso le esaltazioni del suo entusiasmo, se il negro presentimento le susurrò che ella si avviava a un errore anche più fatale e anche più irrimediabile degli altri, ella ebbe il cenno disperato di coloro che sono ebbri di sacrificio.

Giovanni non l’amava più: è vero. Che importava? Il suo cuore di donna che ella aveva sentito morto, duro come una pietra, per tanti anni, dentro il suo petto, ardeva di un sentimento dove tutto era elemento di ardore, il rimorso, il rimpianto, la pietà, la tenerezza, il bisogno di devozione, il bisogno di darsi, il bisogno di abbandonarsi. Che importava che Giovanni Serra non l’amasse più? Ella voleva amarlo così profondamente, così piamente, con tanto completo abbandono di ogni amor proprio e di ogni orgoglio, con tanto perfetto oblio di ogni vanità e di ogni altro istinto mediocre umano, che tutto il dolore [p. 143 modifica] passato sarebbe pagato da questa immensa abnegazione amorosa. Ella voleva espiare il suo passato, soffrendo come egli aveva sofferto, dando il suo cuore a un essere che non poteva più amarla; voleva espiare di non avere amato, amando senza speranza, solitaria anima che recitava un monologo appassionato e doloroso. In fondo, come per tutti i grandi penitenti, la sua espiazione sarebbe stata anche il pascolo della sua anima. Oramai, la sua esistenza di donna era deserta. Aveva trentaquattro anni: e nell’abbandono in cui era caduta, si sentiva assai più vecchia, incapace di tentare un’altra volta l’ignoto dell’amore. Era stata molto amata, due o tre volte: ma fatalmente, questi amori si erano dileguati, come se mai fossero esistiti: e due volte ella aveva dato il suo cuore, e due volte era stata abbandonata. Esistenza finita, dunque, giacchè le illusioni non risorgono mai dalla loro tomba: e le stanchezze morali sono più forti di quelle fisiche. Che restava a Clara, se non questa ultima speranza di potersi dare a un sentimento [p. 144 modifica] vivido e duraturo, a null’altro simile, senza fallacie e senza disfatte? La sua espiazione, quella di voler amare Giovanni Serra, era anche la sua salvazione, giacchè ella sapeva di non poter vivere senza l’amore, un amore qualunque, ma un amore, un amore! Meglio, meglio, se ciò non era un’avventura in un cuore sconosciuto, innanzi a un’anima misteriosa, un’avventura di incerto risultato, ma portante con sè, forse, una disperazione e un’onta novella: meglio, se era l’amare una creatura nota, stimata, ammirata per le sue nobilissime virtù, una creatura senza amore, è vero, ma che aveva saputo amare, ma che si sarebbe lasciata amare, dolcemente, teneramente. L’espiazione sarebbe stata la vita della sua anima ed ella vi si sarebbe buttata con ebbrezza, giacchè quello che più temeva, per sè e intorno a sè, non era il dolore, ma era l’aridità, non era la tortura, ma era il silenzio, non era la passione infelice, ma era l’indifferenza. Un mese prima, ella era immersa nel marasma più profondo, moralmente così misera che non osava [p. 145 modifica] neppur dire a nessuno la sua miseria: ella si vedeva già finita, senz’amore, senza amicizia, coi soli legami frivoli mondani, ritenuta per una donna senza cuore — giacchè questa, fatalmente, era la sua reputazione — e gemente intanto nel desiderio dell’amore. Ora, ora, da quel pomeriggio in casa di Anna, ella aveva dato una sublime ragione alla sua esistenza.

Dai grandi occhi spiranti uno strano turbamento, dai subitanei pallori che le coprivano il volto, quando egli appariva, dalle mani che si facevano fredde nelle sue, da certi più prolungati silenzii che regnavano fra loro, dall’imbarazzo crudele di certi momenti, dai sussulti che ella non sapeva reprimere, a certi atti, a certe parole, Giovanni intravide che accadeva qualche grave fatto nell’anima di Clara. Una o due volte, la interrogò:

— Che avete?

— Nulla — ella diceva, chinando gli occhi, mordendosi lievemente il labbro, come quando non pronunziava la parola che voleva pronunciare.

Egli credette che Clara gli nascondesse [p. 146 modifica] un fatto dispiacevole, forse una lettera dell’uomo che l’aveva abbandonata, o il suo ritorno, forse. Diventò più freddo, più riservato. Mancò a un appuntamento. Ella lo rimproverò assai, quando lo rivide.

— Io vi disturbo, Clara — diss’egli, malinconicamente.

— Che vi fa pensare ciò? — gli chiese ella, precipitosamente.

— Sono stato sempre così superfluo, nella vostra vita. È sempre l’ultimo venuto, che mi ha scacciato. Almeno, confessatemi la verità.

— Non ho nulla da confessarvi, Giovanni.

— Ma voi siete agitata, molto, da qualche tempo.

— Sì, è vero.

— E non volete dirmi perchè?

— No, non ve lo voglio dire.

— Non me lo merito?

— È inutile.

— Non vi posso metter rimedio?

— No — ed ella voltò la testa in là.

— Nè consolazione?

— Consolazione? Forse. [p. 147 modifica]

— Ditemi come e lo farò.

— Non qui, Giovanni.

— Dove, dunque?

— Nella mia casa — ella rispose, tendendo a sè stessa, e a lui, inconsciamente, il più terribile tranello.

— Sapete che non ci verrò mai — egli, disse, sgomento, sentendo il pericolo.

— Ebbene, io non vi narrerò le mie pene, Giovanni — diss’ella, tetramente.

— Scrivetemi....

— No.

— Parlate qui, altrove....

— Nella via, in teatro? No, no.

— Io non posso venirci, lo sapete, in casa vostra — egli mormorò, già più debole, già affascinato.

— Perchè?

— Non mi obbligate a dirlo.

— Ditelo.

— È la casa dove avete amato un altro.

— Che ve ne importa, se non mi amate più? — ella disse, levando le spalle, amaramente.

— Ah io soffro sempre, Clara, anche non amando! [p. 148 modifica]

— Quante volte, lo ripetete, che non amate, Giovanni! è troppo — e il suo tono fu così lamentoso che egli s’intenerì.

— Verrò.... forse.... una sera....

Ella sorrise, nel fondo dell’anima.

III.

Tre volte Giovanni Serra mancò alla sua promessa. Le diceva: verrò domani sera, alle nove. Clara lo aspettava in preda a una emozione nervosa, a cui la sua fantasia dava un carattere passionale. Ella dal pomeriggio dava ordine che nessun altro venisse introdotto e ripeteva le sue raccomandazioni, alla cameriera, con insistenza: quando l’ora si appressava, per frenare la sua torbida impazienza, ella si metteva a riordinare delle carte, prendeva un libro, forzandosi a intendere ciò che leggeva. Giovanni non veniva. Le fresche rose che ella aveva messe nei [p. 149 modifica] vaselli nitidi, rientrando a casa, parea che declinassero e languissero, quasi per morte; il fuoco si covriva di cenere, nel caminetto; ed ella, discesa dalle esaltazioni sentimentali, cadeva in uno snervamento profondo. Alla fine di queste serate d’inutile attesa, la parte più sincera di lei pensava che era meglio lasciar finire, senza finirla, questa singolare avventura, che le cose morte non si vivificano e che anche per lei, Clara, così innamorata dell’amore, era troppo tardi per tentare un ultimo fatto del cuore. Ma l’istinto della vanità muliebre, mediocre istinto, ma che non isbaglia mai, tanto è finemente esercitato, le diceva che quegli appuntamenti mancati erano tante vittorie negative, è vero, ma vittorie, sul cuore di Giovanni: che chi non va, ha paura di andare; e chi ha paura di andare, ha sempre il cuore debole e facile a essere trascinato, in un impeto dell’altrui energia. Così, ella, nelle immense prostrazioni di una vivacissima speranza delusa, trovava novelle forze per ritentare l’anima di Giovanni. Egli balbettava, inventava [p. 150 modifica] delle scuse magre, per colorire la sua assenza: ma ella lo vedeva molto confuso. Dietro il pretesto di un impegno dimenticato, di un ostacolo improvviso, il freddo istinto della vanità intravedeva il combattimento del cuore di Giovanni; ed ella se ne compiaceva, dimenticando il suo nobile divisamento di amare Giovanni, senza domandargli il ricambio. Alla terza sera, ella lo aspettò dietro i cristalli del balcone; più nervosa, più triste, più esaltata che mai, ella finì per aprire il balcone, malgrado il freddo della serata. Ebbene, all’ora indicata, ella lo vide giungere frettolosamente, a capo basso, fermarsi due minuti sotto il portone, ed uscire di nuovo, lentamente allontanandosi. Non aveva avuto la forza di salire. Era un gran freddo nell’aria, quella sera: ma ella rientrò con le guancie brucianti. E l’indomani non gli fece nessun rimprovero. Sentiva che Giovanni aveva subìto una tortura segreta.

Egli venne, al quarto appuntamento, quando ella non lo aspettava più, alle dieci e mezzo, invece che alle nove. Il [p. 151 modifica] suo orecchio fine udì il suono timido e debole del campanello, udì la voce bassa con cui egli domandava di lei, in anticamera, e il passo cheto con cui egli si avanzava, a traverso l’appartamento. Clara soffocava per il battito del suo cuore: e l’accoglienza che gli voleva fare, disinvolta e serena, come a un amico che venisse sempre, e le parole che gli voleva dire, tutto sparve, ed egli la trovò in mezzo alla stanza, aspettandolo con troppo palese ansietà e porgendogli una mano glaciale e tremante. Sedettero ambedue non accanto, ma dirimpetto: taciturni, imbarazzati. Clara non osava aprir bocca; intendeva che la sua voce l’avrebbe tradita. Egli guardava, come trasognato, i galloni rossi e azzurri che adornavano il vestito di lana bianca di Clara.

— Mi volevate: — eccomi — egli disse, con un sospiro, chinando gli occhi.

— Grazie — mormorò ella, semplicemente.

— Chiederete voi che io faccia qualche altro sacrifizio, al vostro fascino?

— Tanto vi è costato, questo? — [p. 152 modifica] Clara interrogò, ansiosamente, piegandosi verso lui.

Egli si arretrò, quasi temendo la vicinanza di quel volto. Disse:

— Mi è costato moltissimo.

— Ma perchè? — e aveva un tono così ingenuo, chiedendo ciò, ella!

— Proprio, non lo capite?

— No.

— Questa casa mi è odiosa.

E un riflesso di tetraggine gli si diffuse sul volto. Clara si guardò intorno.

— Non capisco — disse. — Siamo soli....

— Siamo soli?

— Dubitate di ciò? — ed ebbe, sulle belle labbra un riso forzato.

— Io credo che vi sia possibile fare tutto — egli soggiunse, guardandola con quel misterioso terrore, come quando gli parea veder sorgere un mostro nella donna.

— Tutto, che?

— Non mi domandate troppe cose, Clara: io sono molto turbato. Parlate voi, piuttosto.

— Sì — ella annuì, cercando di vincere, prima di tutto, sè stessa. — Lo [p. 153 modifica] vedete, siamo soli. Nessuno può venire e nessuno ha diritto di entrare. Qui vi è la vostra amica, che vi aspetta da tanto tempo, che è così felice di passare un’ora, con voi, in una stanza chiusa....

Egli guardò le porte, con una lieve ombra di diffidenza e di paura negli occhi.

— Anche a voi, fanno terrore le porte socchiuse? — ella soggiunse, infantilmente. E si levò, andò a chiudere le due porte, fra le tende.

— Voi temete di vedere entrare qualcuno, sempre, è vero, Clara?

— Sì, da bimba, l’ho sempre temuto. Se qualcuno saliva alle mie spalle, nelle scale, se qualcuno mi seguiva, in un appartamento, se una porta restava aperta, con un vano oscuro, io era assalita da uno sgomento folle, e, sentite, adesso — soggiunse, dandogli la mano — solo a parlarne, io tremo tutta....

Egli trattenne quella mano fra le sue, ma mollemente.

— Sono sempre così sola! — ella soggiunse, e gli occhi le si velarono di lacrime, mentre il volto, le si tramutava. [p. 154 modifica]

Giovanni guardò quello scoloramento e quei begli occhi velati: impallidì leggermente.

— Non sempre siete stata sola — mormorò, con un’intonazione ironica, ma non aspra.

— Oh! — e Clara fece un gesto largo, per dire che tutto era finito.

— Lo avete già dimenticato, Clara?

— Intieramente — ella rispose, con un cenno tagliente.

— Dimenticate presto, mi pare.

— Sì, tutto quello che non merita di esser ricordato.

— Ma che meritò di essere amato, però.

— Oh chi non ha errato, nelle cose del cuore? Chi ha mai preso la via giusta, amando?

— Nessuno, avete ragione — diss’egli, malinconicamente.

— Io ho sbagliato sempre, io — e il bel volto ebbe un fremito di dolore.

— Sempre?

— Sempre. Mi hanno amata poco: o male: o niente. Sarà una bella burla, alla fine della mia vita per me, che porto [p. 155 modifica] la reputazione di avere ispirato delle passioni folli, l’accorgermi che nessuno mi ha amata, mai.

E un doloroso, amarissimo ghigno le contrasse il viso. Clara era immensamente sincera, in quel momento. Aveva tenuto solo all’amore, nella vita e, probabilmente, non lo aveva, nè visto nè provato mai.

— Quanto siete ingiusta, Clara!

— Con chi?

— Con me.

— Ah già, è vero, voi pretendete di avermi adorata — ella soggiunse eccitata, ma schiettissima, sempre. — Chi ne sa nulla! È una leggenda: tante leggende sono false.

— Perchè dite questo? Perchè volete negare il passato?

— Bella istoria, il passato! Ognuno se ne inventa uno, a propria convenienza, quando il passato è passato. Chi conosce la verità? Voi intanto, no: e io, neppure. Forse non mi avete amata mai; e tutta la leggenda non è che una cosa buffa — e rise clamorosamente, offendendolo anche col suo riso. [p. 156 modifica]

— Clara, io non sarei qui, se non vi avessi amata — egli disse seriamente.

— Vale a dire?

— Che ci vuole una grande tenerezza, per dimenticare quello che mi avete fatto: e una grande tenerezza non viene che da un grande amore.

— Bella rovina, illuminata a chiaro di luna — ella disse, non ridendo, tetramente.

— Ognuno dà quello che può — Giovanni rispose, con una tristezza semplice.

Clara tacque. Scherzava con un tagliacarte giapponese e se ne pungeva le dita. A un tratto, si rivolse tutta mutata:

— Perdonatemi, Giovanni: ho avuto un accesso di cattiveria.

— Tanto, per non cambiare — ed egli ebbe un pallido sorriso.

— Sono cose che restano, a filoni, nell’anima. Ma l’anima è così cangiata!

— Così? — e la tenerezza velava l’incredulità.

— Tutta quanta. Non ve ne siete accorto? Vi sono sembrata la stessa, in questo tempo, la stessa di dieci anni, ditelo, in coscienza? [p. 157 modifica]

— No, non mi siete sembrata la stessa. Ma non vedo la causa del vostro cangiamento e non so lo scopo.

— Al solito, voi mi supponete qualche infernale progetto? No, Giovanni, disilludetevi. Nulla vi è di più complicato in me — e sorrise, con una mesta semplicità.

— Nulla?

— Nulla: a che? Per sedurre chi? Voi siete inseducibile.

— Vi piacerebbe sedurmi?

— Sì, moltissimo — ella esclamò, impetuosamente, con la verità sulle labbra e nel cuore.

Giovanni fu scosso, da questo colpo diretto.

— La cosa è già fatta — egli disse, piano, cercando una via obliqua, per ischermirsi.

— La seduzione passata, Giovanni, non conta — soggiunse subito, la terribile e infelice donna, riportandolo al duello. — Era una pessima seduzione, fatta da una donna perfida e fallace, una seduzione fondata sull’inganno, che partiva dalla malvagità e arrivava alla perversità. Non [p. 158 modifica] quella, non quella! Mi sarebbe piaciuto sedurvi, mi piacerebbe sedurvi, con una seduzione nobile e alta, quella della schietta anima femminile, che si dà in tutta la sua naturale bontà, con una seduzione fondata sull’amore, profondo, umile, segreto e pure sgorgante da ogni atto e da ogni parola!

Si era avvicinata a lui, chinata verso lui, parlandogli: e gli parlava con una voce tremante, roca, come egli non aveva mai inteso uscire da quelle labbra. Egli ebbe un atto di smarrimento:

— Tacete, Clara, tacete!

— No, amico mio, non mi fate tacere, non vi ho mai detto nulla, in questo tempo, e ora muoio, se non vi dico tutto....

— Io non posso udirvi.... — e cercava sciogliere le sue mani da quelle di lei che le tenevano, nell’affanno dell’emozione, strettissime.

— Sì, sì, potete udirmi, giacchè io nulla debbo dirvi che vi turbi, che vi offenda! Giacchè io non voglio niente da voi, Giovanni, niente! Voi mi avete amata, è vero, nel passato e io sono sacrilega, [p. 159 modifica] quando lo nego, ma anche il sacrilegio è una forma della passione, anche il calpestare è una voluttà dell’amore! E ora voi non mi amate più e avete ragione; io sono stata crudele, io sono stata infame, con voi, vengono dei momenti in cui mi faccio orrore, ve lo giuro....

Mentre parlava ella, così, singhiozzava e il suo petto si sollevava, nel singulto. Qualche rara lagrima le usciva dagli occhi e Clara l’asciugava rapidamente, col fazzoletto. Giovanni l’ascoltava, la guardava, stupefatto, incapace di difendersi più, e incapace di sottrarsi al pericolo estremo in cui si trovava.

— Ma, sentite, Giovanni, sentite con pazienza, poichè queste cose mi soffocano, sino a morirne, e le debbo dire, giacchè sono le ultime parole di passione che mi usciranno dalla bocca, in questa vita. Sì, sì, le ultime, poichè io ho trovato in questa mia anima, così maltrattata, così ingiustamente maltrattata da chi non doveva mai farlo, ho trovato una sublime speranza, Giovanni, quella di poter essere un’altra donna, quella di poter amare [p. 160 modifica] con un infinito entusiasmo e una infinita devozione, quella di poter essere in una estrema tenerezza, una donna leale, pia, umile, vivente solo per voler bene, così, come una povera creatura ammalata e convalescente si innamora della vita, di nuovo!

— Illusione, illusione — balbettò lui, tentando reagire contro quella esaltazione sentimentale, che gli si comunicava, fatalmente. — Voi non potrete mai far questo, Clara!

— Io posso fare tutto quello che voglio, io lo farò — ella rispose energicamente, altieramente. — Ah ho ben visto, io, in questo tempo, nella mia anima, io vi ho letto come in un libro aperto, io so tutto, io so che una sola cosa può farmi rivivere ed è un affetto schietto e saldo, senza altri interessi morali che l’affetto istesso, senza altro desiderio che dare uno slancio di purezza a quest’anima, senz’altro ideale che la redenzione di uno spirito malato e corrotto.

— Non vi riescirà, non vi riescirà — egli esclamò, in preda a tale [p. 161 modifica] un’agitazione e a una confusione, che gli pareva di non aver parlato lui, ma un altro.

— Se questo non mi riesce, io sono perduta, Giovanni — ella soggiunse, cupamente,

— Ma perchè, perduta?

— Perduta, perduta! Questo è l’ultimo anello che mi lega alla vita: se si spezza, cessa la ragione della mia esistenza. Ebbene, io non posso perdermi, Giovanni, io non posso morire, io sono vecchia, perchè ho vissuto troppo, è vero, ma non ho che trentaquattro anni, e sono troppo pochi per rinunziare, per morire! Io non voglio rinunziare, io mi abbranco a questa speranza, essa mi deve aiutare a vivere, io voglio amare così, se no, sono perduta e niuno, niuno può desiderare la perdita e la morte di una creatura come me!

— Ma chi, chi volete amare? — gridò lui, levandosi, volendo fuggire, ma non trovandone la forza.

— Voi — esclamò ella, guardandolo con gli occhi sfolgoranti, con le labbra schiuse che mostravano i bianchi denti minuti, che egli aveva adorato. [p. 162 modifica]

— Me? me? E perchè?

— Perchè voi solo ne siete degno — diss’ella, aprendo le braccia, chinando il capo, con un atto di umiltà.

— Clara, io sono uno sciocco, un malato, un infelice, io non merito questo — disse lui, turbatissimo, dando indietro, cercando fuggire.

— Voi siete l’anima più buona e più nobile che io abbia mai incontrata — ella disse, con un accento profondo di amore, che finì di sconvolgere Giovanni.

— Clara, voi avrete con me le maggiori delusioni. Io ho sofferto, io sono stanco, sono vecchio, oh quanto più di voi, così piena di vita, di vivacità! Clara, Clara, se sapeste quanto sono vecchio, e quanto sono stanco, non dareste al mio cuore questa tortura, questa nostalgia....

L’ultima parola era così imprudente! Superbamente, realizzando il suo invincibile bisogno di espiazione, ebbra di sacrificio, folle di sacrificio, ella gridò:

— Che importa? Fosse anche così, così mi piacete: fosse anche peggio, voglio amarvi così! [p. 163 modifica]

— È un inutile amore, Clara — egli replicò, tristissimamente.

— Perchè, inutile? L’amore non è mai inutile!

— Inutile, lo vedrete, Clara: io non debbo ingannarvi. Io non vi amo.

— Lo so: non importa — diss’ella, crollando orgogliosamente le spalle.

— Ciò che è fuggito, non ritorna più. Io non posso amarvi di nuovo.

— Non importa — replicò ancora lei, giunta al culmine della superbia e dell’umiltà sentimentale.

— Clara, Clara, questo è un romanzo: io non ho le forze morali per seguirvi in questo romanzo.

— Non importa: camminerò sola. Il mio cuore è saldo, quando l’amore lo regge.

— Oh Clara mia, mia amica buona, voi v’illudete, voi non mi amate punto, voi siete in preda a un accesso di infinita bontà, voi v’ingannate, sul vostro cuore!

— Io vi adoro — ella disse, semplicemente, sorridendo.

— Non è vero. [p. 164 modifica]

— Provate — ella soggiunse, subito, con una tal luce nello sguardo, con un tal sorriso di offerta sulle labbra, che il poveretto vacillò.

— Sentite, Clara, io sono il più saggio, fra i due, e invece vi sembro il più scortese e il più crudele. Clara, restiamo amici, non tentiamo la Provvidenza, non prepariamoci un avvenire di amarissime delusioni. Guai, se vi credessi!

— Mi crederete — e sorrise, fiduciosissima di sè e dell’amore.

— Io non vi vedrò più! — gridò lui, sentendo sfuggirgli l’estremo suo lembo di coraggio.

— Perchè, Giovanni? Non mi amate, è vero: ma non è una dolce consuetudine di vedermi, per voi?

— Sì, sì, purtroppo....

— Non mi amate, lo so: ma non sono io, la donna che più avete amata? Non sono io la donna con cui più avete desiderato di vivere, la sola con cui abbiate desiderato di vivere!

— La sola, la sola!

— Ebbene? perchè mi dovreste [p. 165 modifica] fuggire? Dite che siete stanco, ammalato, vecchio, e che non mi potete amare? Quale pericolo correte, dunque? Voi avete la gran sicurezza; che temete?

— Nulla.... infatti.... ma dovrò fuggirvi.

— No. Restiamo amici, voi volete così? Restiamoci. Solamente, solamente io non sarò amica, ma innamorata di voi.

— Clara, sarebbe una condizione insopportabile!

— Io sola, la debbo sopportare! Che fa, a voi? Vi amerò così quietamente, così segretamente, che quasi quasi non ve ne accorgerete neppure. Sarete buono con me, ecco tutto: mentre io fui così cattiva!

— Voi, non siete fatta per questo orribile stato di animo, che è l’amore non corrisposto. Voi siete stata sempre una vittoriosa....

— Lasciatemi provare la dolcezza di esser vinta — disse ella tenerissimamente.

— Voi finirete per odiarmi, Clara, io lo so! — e fece un atto di disperazione.

— Ma perchè combattete questa lotta inutile e inefficace, Giovanni, contro me, [p. 166 modifica] contro voi stesso? Perchè mi negate il permesso di volervi bene, quando ciò non vi costa nulla e quando ciò può anche piacervi? Perchè rinunziate, quando non vi si domanda altro che di lasciarvi amare, Giovanni? Che vi fa? Perchè dite di no, quando nessuno vi chiede di dir sì? Lasciatevi amare, lasciatevi amare, è una cosa tanto confortante, tanto consolante, credetelo!

Egli non le rispose nulla.

— Vedrete, amico mio, vedrete che questo mio amore, mentre sarà il segreto della mia esistenza, non turberà la vostra. Fidate in me. Io vi saprò amare così bene, che non ne avrete nè preoccupazione, nè noia. Verrete a vedermi, quando vorrete. Io non vi darò le mie ore: vi aspetterò, sempre. Sarò profondamente felice, quando vorrete darmi qualche ora del vostro tempo: e se non vi vedrò, ebbene, non uscirà un lamento dalla mia bocca. Vi scriverò. Mi permetterete di scrivervi, è vero? Le lettere sono uno sfogo così dolce a chi ama: e non turbano colui che non ama. [p. 167 modifica] Giovanni, Giovanni, lasciate che io vi ami, non mi togliete questo amore, se vi sono stata cara una volta.

E pian piano, dalla sedia in cui era seduta dirimpetto, gli scivolò inginocchiata, innanzi, levando il volto trasfigurato verso Giovanni Serra. Egli la sollevò, nelle sue braccia, dicendole forte, violentemente come se volesse convincerne sè stesso, mentre la stringeva a sè:

— Io non ti amo.... non ti amo!

— Ne sei certo? — ella chiese, misteriosamente, con la testa sul suo petto, col volto proteso a lui.

— Non lo so — balbettò il poveretto, in un impulso di luminosa verità.

E la baciò, sulle labbra. Tutta la virtù di quel cuore d’uomo, in quel bacio, cadde. [p. 168 modifica]

IV.

Infelicissimo amore! Immediatamente Giovanni Serra provò il confuso avvilimento della sua caduta e Clara la delusione della sua prepotenza sentimentale. Passata l’ebbrezza singolare e pur triste della grande serata, ella si trovò di fronte a Serra, nella condizione tormentosa e misera, di una donna che ama troppo, che vuole amar troppo e che, sovra tutto, pensa e dice di amar troppo, mentre non è riamata abbastanza. Infelicissimo amore! Giacchè nello speranzoso e baldanzoso animo di Clara, restituito ai consueti trionfi della sua beltà e della sua grazia, tolto dal fittizio ambiente di umiliazione morale, in cui ella si era collocata con amara voluttà di punizione, rimesso nella posizione solita ed orgogliosa di una donna che ha conquistato un uomo o che lo ha riconquistato, in questo animo [p. 169 modifica] in cui gli impeti della immaginazione erano il fondamento della passione e dove la vanità si nascondeva sotto le forme più semplici, in questo animo tramontò subito quel purissimo e inaccessibile ideale di un amore che volontariamente rinunzia alla corrispondenza, di un amore che volontariamente invoca di esser dolore e di essere espiazione. L’imperioso cuore che si voleva dare in un immenso sacrificio, privo di premio, ritirò subito la sua offerta, quando negli occhi smarriti di Giovanni Serra vide la follia dell’amore, quando egli si curvò a baciare quelle labbra col trasporto di un uomo che non ha mai finito di amare, che ricomincia ad amare, con la forza di dieci anni di ricordi, accumulata e repressa. Clara passò la notte seguente nella veglia deliziosa, e indescrivibilmente deliziosa di chi ha trovato, nell’amore, quello che cercava, il gran segreto che tutte le anime sentimentali e passionali cercano: un amore eguale al proprio, la corrispondenza perfetta e l’armonia sublime. La vita, infine, aveva dato, con dieci anni di ritardo, è [p. 170 modifica] vero, ma con più potenza di concentramento, alla donna innamorata dell’amore, ciò che ella non aveva mai provato, ciò che pochi uomini e poche donne provano sulla terra: un amore schietto e profondo, così sentito e così corrisposto. Immensa delusione: e infelicissimo amore!

Poichè, quando ella rivide Giovanni e guardò nei suoi occhi, ella vi scorse un imbarazzo mortale, una tristezza mortale, come ne nascono nelle pure coscienze di coloro che caddero per una inesplicabile debolezza della volontà. Clara credeva, era certa di vedersi apparire innanzi un uomo felice, ringiovanito, ridato alla forza vincitrice degli ostacoli e ridato agli entusiasmi dell’età più bella: e invece, Giovanni aveva l’aspetto di un uomo che ha errato e che sente amaramente tutto il peso del suo errore. Clara era lieta e dolce, aveva rialzato i suoi capelli in un grosso nodo attraversato dagli spilloni di tartaruga, come dieci anni prima, aveva un vestito chiaro e gaio: e Giovanni la guardava, con certi occhi distratti e stupiti, dove, ogni tanto, si abbassava [p. 171 modifica] il velo di una malinconia intensa, dove, ogni tanto, passava la nuvola dello sgomento.

— Come siete gioconda, questa sera! — le disse, come trasognato.

— Perchè ti voglio tanto bene — ella gli rispose, dolcissimamente, prendendogli le mani.

Egli si turbò sempre più.

— Non parliamo di questo, Clara.

— Perchè? Non mi credi? Non mi credi?

Egli tacque. Non le credeva, infatti. Ella intese perfettamente questa sfiducia.

— Che debbo fare, perchè tu creda?

— Nulla, Clara: non fare nulla. Io sono uno sventurato.

— E perchè? Non ti voglio bene, io, malgrado la tua incredulità? Non mi vuoi bene, tu?

— Io! — gridò lui. — No, no, non ti amo!

— E che mi hai detto ieri sera, allora? Hai mentito? Sei diventato bugiardo, ora? Non eri bugiardo, prima.

Giovanni Serra non rispose. Era così [p. 172 modifica] pallido, così disfatto ed evitava tanto di guardarla!

— Amore mio, amore mio — ella riprese, tenerissimamente, carezzandogli una mano — non tormentarti, te ne prego. Non ti dico nulla, non ti domando nulla: la mia voce e le mie parole ti agitano, lo vedo. Lascia ch’io stia vicino a te, così, in silenzio.

Era, difatti, seduta accanto a lui, sul divano, e gli aveva passato un braccio sotto il braccio; aveva appoggiata lievemente la testa sulla sua spalla. Un lungo silenzio: ma ella, a occhi bassi, sentiva che il respiro di Giovanni diventava affannoso. Allora, pian piano, levò gli occhi, lo guardò, gli mormorò:

— Mi vuoi bene?

Una così grande espressione di dolore, negli occhi di quell’uomo! Ella tacque, ancora un poco, legata a lui, cheta, respirando appena: poi le parve che egli le sfiorasse con le labbra i capelli:

— Mi vuoi bene, amore? — chiese, sorridendo nel fondo del cuore. [p. 173 modifica]

Giovanni sospirò profondamente e rispose:

— No.

Attraversata da un impeto d’ira, ella si staccò bruscamente da lui, si levò, esclamando:

— Sei cattivo e scortese.

Una scena dolorosa avvenne fra loro, dove tutta la violenza e tutta la natural tenerezza del cuore di Clara — tenerezza repressa nel periodo d’isolamento in cui era stata — sgorgarono in parole precipitose, ardenti, innamorate e pure ingiurianti: e dove tutta la mitezza e tutto il profondo scetticismo di Giovanni si manifestarono, più dolci e più freddi, pieni delle grandi timidità di chi, avendo amato invano per tanto tempo, ha oramai una paura invincibile di amare. Due o tre volte, durante questa penosissima scena, ella lo offese in un modo crudele, poichè era avvezza a calpestare i cuori che adorava, per poi adorarli più profondamente, dopo; ed egli sentì l’offesa, con un amaro piacere, giacchè essa lo autorizzava non a reagire, ma ad andarsene, per non [p. 174 modifica] ritornare mai più. Questo, questo, era il suo intimo desiderio, innanzi a quella donna che lo affascinava e che lo terrorizzava coi tumulti strani della sua fantasia, con le singolarità di un temperamento fuggevole e pericoloso, con l’impensato di un’anima, nella quale la inconscienza assumeva degli aspetti terribili e dolcissimi. Nel momento in cui ella più gravemente lo ingiuriò, egli pensò che era giunta la salvazione per lui, se partiva. Ma quando ella lo vide arrivato alla soglia, quando intese che lo perdeva, così, miseramente, irrimediabilmente, lo chiamò con una voce così spezzata dal pianto, che egli si volse, venne a lei. Clara piangeva. Piangeva! Mai l’aveva vista piangere. Credeva che non potesse piangere, tanto il gran riso clamoroso, e il riso breve, e il sorriso, e il sogghigno le eran particolari. Clara piangeva, soffocando dai singhiozzi, con un lamento che le usciva dalle labbra, continuo. Il cuore di quell’uomo buono s’infranse, ed egli intese sul suo petto quel povero corpo femminile scosso dai singulti, ed essa [p. 175 modifica] intese da quella voce tremante e fievole la parola d’amore, strappata dall’essenza di quell’anima, dolorosamente.

Tali furono, sempre, le amarissime vittorie di Clara; e procedendo oltre, il combattimento fu diversamente aspro, con forze maggiori o minori dall’una parte e dall’altra, ma concedenti sempre il più triste dei trionfi al soldato più energico e più ardente, più abituato alla guerra dell’amore, più multiplo nelle sue risorse di attacco e di difesa. Giacchè appena Giovanni Serra si allontanava da Clara, dalla sua casa, dal cerchio magico in cui ella lo rinserrava, rinasceva in lui il desiderio della fuga ultima, della liberazione. Quando ella non era presente ed egli non ne vedeva le grazie delicate, e la novissima incantatrice dolcezza, e tutta la seduzione muliebre potente, Clara gli appariva come l’aveva sempre considerata, da dieci anni: una donna attraente, perfida e fallace, a cui egli aveva gittato inutilmente il suo cuore e per la quale aveva perduto ogni fede in sè stesso e nella vita. La figura di una creatura quasi [p. 176 modifica] mostruosa, senza pietà femminile, senza alito di sentimento nell’anima, senza coscienza pel bene, come pel male, formatasi in dieci anni nel suo spirito, lo signoreggiava, di nuovo, con novello impulso di ribrezzo, di orrore. Mutata, forse? Forse. Ella era capace di tutto, anche di vestire l’aspetto della maggior tenerezza della maggiore nobiltà spirituale, e di essere, forse, tenera e nobile veramente, per un certo tempo per ordine della propria volontà, sino a che la natura sopita si risvegliasse, e l’onda della perfidia e della menzogna trasportasse via il bel sogno di bontà e di dolcezza. Mutata? E che, perciò? Anch’egli s’era mutato purtroppo, e dove la lava incandescente della passione aveva gorgogliato, schiumando, del fuoco, si stendeva il lapillo grigio e freddo delle devastazioni vulcaniche: dove aveva vissuto la fede nell’anima umana e nella sua purezza, vi era il gelo di un dubbio tranquillo e non più torturante: dove avevano balzato di gioia e di voluttà gli entusiasmi giovanili, vi era l’inazione e l’aridità. La lealtà, il [p. 177 modifica] rispetto, la bontà virile rimanevano intatte in quell’uomo che aveva avuto in dono, nella giovinezza, le qualità più nobili dello spirito: ma ciò che restava, non bastava all’amore. Una parte di quel cuore, era veramente finita. E tutta la sensibilità che ancor viveva in lui, fremeva di sgomento all’idea di essere stato ripreso da quel fascino; non si sentiva più la forza morale per quelle lotte e il risultato non gli sembrava più la sua grande ambizione. Così, di lontano, egli formava sempre il disegno di non vedere mai più Clara. Ella gli scriveva delle lettere lunghe e bizzarre, con un’incoerenza sentimentale che sarebbe stata molto interessante e molto seducente per un uomo più giovane e più vivace, meno provato dai dolori della vita, ma che gli produceva un senso di ripulsa, di maggior distacco: non rispondeva alle lettere. Ella gli mandava degli appuntamenti; Giovanni vi mancava, due o tre volte. Perchè, alla quarta volta, egli non resisteva più e vi andava, riluttante, pieno di tutte le incertezze? Egli non se lo spiegava: e [p. 178 modifica] nella sua timida immaginazione, il fascino di Clara assumeva un aspetto onnipossente; Giovanni aveva bisogno di credere a un potere ascoso, rarissimo, unico, per spiegare la mollezza della sua volontà. Perchè, tante volte, quando egli andava da lei, ben deciso, ben risoluto, a dichiararle che quell’amore così povero di gioie, così dubbio, così squilibrato non aveva ragione di essere e di durare, perchè Giovanni, innanzi al bel volto tranquillo e sorridente di Clara, a quelle mani che gli si tendevano affettuosamente, al suono di quella voce che ella rendeva così insinuante, per lui, perchè egli non diceva più niente, lasciandosi andare alla corrente di quel sentimento, illuso per un poco, credendo di essere amato, credendo di amare? Perchè, nelle loro grandi scene, scoppiate improvvisamente, egli aveva provato a proclamare la sua libertà, la sua indifferenza, sempre più duramente, meravigliandosi anzi talvolta della propria durezza, ed era riescito soltanto ad esasperare Clara; ma non aveva svincolato il proprio cuore? Perchè, mentre [p. 179 modifica] egli era dei due quello che meno pensava d’amare, che meno diceva d’amare, che non scriveva, che rinunziava ai convegni, perchè, poi, era lui quello che più cedeva, che più si dava, che più rientrava in servitù, con ritorni di affetto che costituivano le pochissime soavità di quell’amore? Perchè, una volta, quando stettero quindici giorni senza vedersi ed ella continuava a scrivergli, egli non ebbe la forza di non aprire, come aveva dichiarato, le sue lettere? E una sera, ella passava, sola, triste, pallida, per una via, rientrando nella sua casa deserta con aspetto di tale abbattimento ed infelicità, che Giovanni, vedendola innanzi a sè, non visto da lei, provò uno schianto indicibile. Ritornò a lei, subito, senza che lo avesse chiamato: e Clara stessa si stupì di questo ritorno inatteso, mentre il suo cuore si era immerso già nell’amarezza dell’abbandono. E ingenuamente, puerilmente, Giovanni non sapendo come spiegarsi la sua debolezza e la sua disfatta, pensava a qualche cosa d’insolitamente affascinante, e diceva, come un bimbo: [p. 180 modifica]

— È una strega.

Ma per colei che misteriosamente lo riconduceva a sè, ogni volta, questi trionfi erano un tossico. Fermentavano dentro il suo spirito indomito le ribellioni più profonde contro questo stato di lotta che avviliva l’idea ch’ella si era fatta di quell’amore e che la mortificava in tutte le sue vanità muliebri. Ella, infine, lo amava, è vero, come poteva e come sapeva, con un senso immensamente egoistico che aveva sempre dominato in quell’anima: lo amava, perchè le faceva piacere di amare, perchè il suo stato migliore era l’amore, perchè ella non sentiva la vita che quando era innamorata: l’amava perchè così aveva voluto ed ora la sua volontà era più forte di lei. Ciò che la sconvolgeva, era di non sentirsi amata abbastanza, mentre ella sapeva di dare a Giovanni il meglio che restava di lei: ciò che la esasperava, era questa battaglia quotidiana che ella sosteneva, per conservare, se non l’amore, la larva di amore che le portava quest’uomo: ciò che la faceva delirare di collera, segretamente, [p. 181 modifica] era di avere ancora sbagliato, anche in quest’ultima volta e di non potere in nessun modo metter rimedio al suo errore. Per il passato, coloro che l’avevano amata, erano stati tipi soliti, comuni, non più buoni e non più cattivi di qualunque altro uomo, in modo che il mondo psicologico di Clara non aveva avuto sviluppo che nelle ombre della sua anima, assai più grande e assai più complessa di quelle che ella aveva avuto ai suoi piedi. Ella aveva sofferto per loro, non già per le complicazioni sentimentali, ma perchè questi due o tre erano esseri limitati, non meschini, ma limitati, a cui ella aveva creato una luminosa e inesistente aureola. Aveva sofferto di non essere amata abbastanza, disprezzando coloro cui mancava la potenza spirituale, rimpiangendo sempre Giovanni, Giovanni, ch’ella aveva disdegnato e di cui si rammentava la violenza giovanile di passione: e lentamente, nella sua coscienza, si era formato il criterio che solo Giovanni l’avesse amata e che solo lui, così profondo, così intimo, così squisito, avrebbe potuto amarla come [p. 182 modifica] ella desiderava. Gli altri, erano, infine, poveri diavoli, ai quali ella aveva dato il manto di porpora della sua immaginazione e uno scettro d’oro, sotto cui ella medesima si era curvata; ma l’anima bella per sè, grande per sè, unica nella tenerezza come unica nella passione, era quella di Giovanni. Ella aveva creduto a una fatalità del destino quando, finendo la sua giovinezza, prima del tramonto, s’erano incontrati nuovamente ed egli le aveva parlato dell’amore passato. E in lei si erano dileguate le profonde stanchezze, mentre più vivo, più forte rinasceva il desiderio di amare eccezionalmente, di essere eccezionalmente amata. Ella si rammentava un Giovanni Serra tutto pieno di un ingenuo e vibrante ardor giovanile, che faceva dell’amore non un breve episodio, come tutti gli altri, ma il grande affare dei suoi giorni e delle sue notti, che dava all’amore un tesoro di intima mestizia e di gioie delicate, che portava l’immagine dell’amata come la sola visione degna della sua fantasia, e che ne pronunziava il nome con una emozione vivissima e [p. 183 modifica] candidamente mal repressa. Aveva creduto, quando egli le narrava i suoi dolori passati con sì grande senso di amarezza, che egli fosse sempre il medesimo: e che era giusto e umano l’amarlo; e che era una voluttà dolorosa l’amarlo senza conforto; e che, infine, infine, egli l’amasse ancora, malgrado i tentativi di fuga, malgrado i dinieghi, malgrado i terrori che gli si dipingevano sul volto, malgrado che egli restasse freddo e confuso, nelle ore più calde, in cui ella più si abbandonava a questa estrema passione. E dall’antico concetto e dal novissimo errore suo, ella traeva un veleno interno di delusione, un seguito di sconfitte inavvertite da lui, ma di cui ella provava il colpo nel fondo dell’anima, un ricadere continuamente sulle proprie speranze e un soffrire per tutte le parti, dall’amore all’amor proprio, dalla delicatezza all’orgoglio, dalla sensibilità femminile bonaria alla sensibilità femminile maligna. Come si torturava ella, per un ritardo di un’ora, per una parola detta con troppa disinvoltura, per un voi apparso [p. 184 modifica] improvvisamente nel più intimo discorso: e il suo umore si cangiava, per la sottile ferita ricevuta, ed egli, che non sapeva di aver ferito, si stupiva del cangiamento, e arretrandosi, pallido, come se avesse visto un fantasma, le diceva la tetra e monotona frase:

— Voi siete sempre la stessa.

Sì, Clara era sempre la stessa, con un carattere mobile e pure ostinato, con una energia breve e caduca, con un disprezzo intimo e cordiale di sè, con un egoismo a cui dava le forme nobili dell’amore, con un desiderio di vivere e di godere che non si saziava mai; e su tutto questo fondo stravagante, e spesso perfido, e spesso capace dei più alti sagrificii, il ricordo di una vita vissuta mediocremente, il ricordo di sciocchi errori e di delusioni meschine. Era sempre la stessa, lei, ma da tutti i pianti versati nella solitudine della sua casa, da tutte le angoscie soffocate sotto la sua maschera di donna mondana, da quell’abbandono in cui aveva passato un anno, le era venuta innanzi alla mente la grande verità, che tutti i [p. 185 modifica] calcoli dell’egoismo sono sempre sbagliati, e che bisogna vivere per gli altri, per poter essere felici. Non era fatta per questo, la sua natura capricciosa ed esaltata: ma la sua volontà le imponeva di assuefarsi alla più semplice verità umana, che è la felicità altrui: ed ella giungeva con uno sforzo supremo là dove altre creature arrivano naturalmente e la sua bontà calma, la sua dolcezza ragionata, la sua serenità esteriore avevano, forse, maggior merito, poichè ella affogava in esse tutto il clamore di un’anima ribelle. Soffriva profondamente, perchè non era amata abbastanza, perchè non era neppure certa di essere amata: dentro le vene ardeva il sangue per collere improvvise: cento volte ella sentiva la tentazione di scacciare Giovanni da sè, di non vederlo mai più. Ma il pensiero che egli, veramente, la credesse ancora una perfida femmina, capace del male per la voluttà del male, ma l’idea di desolare ancora Giovanni, con una catastrofe spirituale, tale che per sempre ne restasse violata la sua memoria, la rigettavano nell’amore e nel sacrificio. [p. 186 modifica]

E più il suo spirito spasimava per la battaglia che sosteneva, più ella prodigava a Giovanni Serra i tesori della più squisita affezione. Egli, talvolta, ne restava avvilito. Ora, non le diceva più di non crederle; nè, d’altra parte, la fiducia nasceva in lui, bensì uno stupore malinconico. Quando ella gli dava qualche novella pruova, non chiesta, di amore, egli restava confuso e rammaricato:

— Io non merito questo, Clara. Tu esageri sempre: e che sarà il nostro avvenire, così?

— Io ti amerò sempre egualmente — diceva ella, esaltata.

— Quante volte l’hai detta la parola sempre?

— Ah tu sei crudele! — esclamava lei, abbassando il capo per nascondere il suo pallore.

Sì, quell’onest’uomo, quell’uomo onesto e buono era spesso crudele, con lei. Non s’accorgeva di colpirla, così duramente: o non la credeva sensibile: o credeva che fosse necessario di colpirla, per guarirla da questo morbo spirituale che la teneva. [p. 187 modifica] Certi giorni, dopo un’assenza di una settimana, le appariva innanzi quietissimo, avendo l’aria di non vedere che ella era disfatta dall’attesa, non dando nessuna scusa alla sua mancanza. Un dialogo freddo si stabiliva fra loro due: le labbra di lei fremevano leggiermente, perchè reprimevano lo sdegno: egli non capiva ciò e dopo un’ora trascorsa, così, in uno strazio fine e pur terribile, egli si levava per andarsene:

— Vieni domani? — ella diceva, a occhi bassi, pallida come uno spettro,

— Non so.

— Dopodomani, allora?

— Non ti saprei dire: ho delle faccende noiose da sbrigare.

— Ah! — diceva lei, senz’altro, sentendosi morire.

— Ti scriverò, quando posso venire.

— Va bene.

E lentamente lo seguiva, mentre si avviava alla porta: gli porgeva una mano gelida ed immota. Talvolta, egli le chiedeva:

— Che hai? [p. 188 modifica]

— Nulla — ella rispondeva con voce così mutata che egli avrebbe dovuto capire. Ma, temendo una scena, egli se ne andava, senz’altro. Come ella correva nella sua stanza, gittandosi sul letto, mordendo i cuscini, ingiuriando la freddezza di Giovanni, imprecando alla propria viltà, esalando tutta l’ira della sua delusione, soffocando le grida del suo cuore che insorgeva contro un dolore così atroce! La crisi durava una notte intiera: ella si addormentava all’alba, con gli occhi rossi di lacrime, con il petto ancora esalante sospiri. Egli non sapeva nulla di ciò. Ella temeva che Giovanni la fuggisse per sempre, se diventava troppo insistente e troppo noiosa. L’altiera donna era giunta a credersi una seccatrice. Pure, qualche sera, quando più l’onesto e buon’uomo era stato crudele, ella sentiva cadere le forze della sua rassegnazione. Allora gli appariva infelice, così accasciata, così perduta in un abisso di delusioni, che l’oscuro mistero della sua tenerezza per Clara, si svelava. Una volta, egli era andato via. Appena fuori, sulle scale, egli [p. 189 modifica] intese, dietro la porta ancora chiusa, un tale scoppio di singhiozzi che tornò indietro, bussò e la trovò smarrita, incapace di affogare i suoi lamenti, incapace di dominarsi più. Qual notte! Egli le parlava ed ella, perduta in un oceano di amarezza, non gli rispondeva, mentre, come se fosse sola, si raccomandava alla Madonna ed ai santi, perchè la liberassero da quelle torture. Egli le prendeva le mani, ma ella le ritraeva, come inorridita, convulsa, per rivolgerle al cielo, per chiedere la pace, la pace, niente altro: egli cercava di abbracciarla, ma quel corpo fremente gli sfuggiva; essa passava da un divano all’altro, camminava al buio, per le altre stanze, parlando sola, gemendo tutto il suo male, gemendo di dover amare così, gemendo di essere così poco amata. Notte fatale, invero: giacchè fu allora soltanto ch’egli capì tutta la gravità del loro caso: giacchè fu in quella scena di lacrime, di convulsioni, in cui ella pareva avesse dimenticata persino la sua presenza, che egli le parlò, per una volta, come dieci anni prima, come un [p. 190 modifica] innamorato, come un amante. Egli s’inginocchiò innanzi a lei e le chiese perdono della sua condotta, e la pregò che avesse pietà di lui; la scongiurò di credergli, quando le diceva che nessun essere le era devoto come il suo, e di compatirlo se egli non sapeva amarla, se egli non sapeva ritrovare in un’anima stanca, malata, vecchia, gli accenti e gli entusiasmi dell’amore; che per quanto egli poteva amare, l’amava; che era poco, sì, era poco, per una donna appassionata come lei; che ella meritava un miglior innamorato, un miglior amante; ma che lui non poteva amar meglio, ma che egli le aveva dato tutto, dieci anni prima, e che quella devastazione era opera sua. Mentre ella, sfinita, esausta, si passava ancora sugli occhi aridi il fazzoletto bagnato di lacrime, Giovanni, ai suoi piedi, le narrava ancora la sua miseria sentimentale presente, la sua morbosa sensibilità che aveva paura dell’amore, la sua impotenza spirituale, tutta la rovina irreparabile che gli impediva di esser per lei il perfetto innamorato, il perfetto amante. [p. 191 modifica] Alle sue ginocchia, in una evocazione straziante, di quello che era stato il suo passato d’amore e nello strazio della presente realtà, egli versò poche, cocenti lacrime, le più dolorose che avesse versate mai. Smorta, con gli occhi spalancati su lui, reggendosi la testa con le mani, ella che aveva gridato tutta la sua desolazione, udiva ora le parole di una ben diversa miseria, di un disfacimento umano assai più tragico del suo; e mentre l’alba faceva il cielo di un freddissimo bianco-verdino, i due amanti si guardarono, presi da una pietà immensa, per sè stessi, e sentendo che nessuno dei due poteva consolare, giammai, giammai l’altro.

Ella, folle oramai di sacrificio, fu dimentica di sè, e si rassegnò a una forma qualsiasi dell’amore, purchè Giovanni non l’abbandonasse. Rinunziava alla passione, chiudendo gli occhi: ella che adorava solo la passione! L’amasse Giovanni, come voleva, come poteva, quando voleva: purchè quel residuo di tenerezza fosse suo! Oramai ella diventava simile ai malati che, giorno per giorno, vanno rinunziando alle [p. 192 modifica] dolcezze che godono i sani e fanno un ragionamento malinconico a ogni rinunzia. Diceva, ella:

— Tu, che non mi scrivi mai....

E se egli annuiva, ella frenava il suo spasimo. Giovanni, un tempo, le aveva troppo scritto: adesso non ne aveva più la forza. Altre volte diceva:

— Tu non vieni; è vero, domani sera?

Ed era perchè soffriva troppo, a udirlo dire da lui che non sarebbe venuto. Parlando dell’amore, ella soggiungeva, con un debole sorriso:

— Tu che mi vuoi bene così poco....

E lo sogguardava, ansiosamente, per osservare anche l’espressione più fugace. Egli sorrideva, acconsentendo al fatto di amarla poco: Clara indietreggiava, disperata internamente della pruova. Qualche volta, bonariamente, ella gli tendeva un tranello:

— Perchè mi ami così poco? Io ti voglio troppo bene.

— Perchè non posso di più.

— Non puoi, non puoi? Tenta. [p. 193 modifica]

— Oh no! — esclamava, con un tono di stanchezza, di sfiducia, di paura.

— Io ti amo troppo — ella diceva, affogando di dolore, ma non mostrandolo.

— È ciò che mi trafigge. Io sono un indegno, Clara.

— E se non ti amassi più?

Giovanni impallidiva e taceva. Quel pallore, la rincorava.

— Se non ti amassi più, di’?

— Mi rassegnerei malinconicamente. Sono stato un grande sventurato, sempre.

— Ti rassegneresti? — e fremeva, ella.

— Mi rassegnerei.

— Mi riesce impossibile di non amarti, Giovanni! — ella esclamava.

— Se tu volessi, ti sarebbe facile. Credimi, non ti ho meritata prima: non ti merito adesso. Era destino!

— Parliamo d’altro — diceva lei, brevemente, vinta.

Ma si rinnovava ogni giorno, ogni sera, il duello, sopra una ben semplice frase così cara a tutti gli amanti. Quando ella era di umore più lieto, gli diceva: [p. 194 modifica]

— Già, non ti domando se mi vuoi bene. Sarebbe inutile.

— Sarebbe inutile — mormorava lui, sorridendo, cercando di scherzare.

— Non mi ami affatto? — e la voce lievemente le tremava.

— Affatto.

Clara taceva, incapace di scherzare più.

— Che hai? — chiedeva Giovanni.

— Nulla.

— Nulla? Ti ho rattristata?

— Un poco.

— Sono un infelice — diceva Giovanni, così schiettamente addolorato, che Clara non osava proseguire la discussione.

Ma, talvolta, la domanda era diretta:

— Mi vuoi bene?

E se lui era tranquillo, senza fremiti nella sua sensibilità, le rispondeva:

— Tu lo sai.

— Non so nulla. Ripeti un poco,

— Quante volte lo vuoi sentire, Clara!

— Gli è che non lo dici mai, mai, mai!

— A che serve?

— Mi serve: mi serve immensamente. [p. 195 modifica] Te ne prego, Giovanni, Giovanni mio, mio amore, dimmi se mi vuoi bene!

— Ti voglio bene — diceva lui, a occhi bassi, quasi per forza.

— Quanto?

— Quanto posso.

— E poco, è vero, è poco?

— Perchè mi ricordi che sono un poverello, in fatto di amore? Perchè mi rinfacci la mia miseria? Perchè mi rimproveri se non ho più lena, se non ho più una scintilla di entusiasmo? Clara, Clara, tu mi uccidi, così!

— Perdonami — diceva lei, scivolandogli inginocchiata innanzi, con un moto che le era familiare.

— Io non debbo vederti più — diceva lui, come se parlasse a sè stesso.

Oppure, la frase cara agli amanti riappariva in altri modi tormentosi. Talvolta, dopo un lungo silenzio, vagamente, distrattamente, come per un moto delle labbra, ella chiedeva:

— Mi vuoi bene?

Giovanni non rispondeva. Immediatamente, ella diventava trepida e ansante: [p. 196 modifica]

— Giovanni, mi vuoi bene?

Allora egli usciva dalle sue riflessioni e vagamente, distrattamente, diceva:

— No.

— Giovanni?

— Clara!

— Hai detto che non mi ami?

— L’ho detto.

— Ed è vero?

— È vero.

Silenziosamente, ella curvava il capo, e le lacrime le discendevano sulle guancie. Giovanni la guardava, desolato: poi, le andava vicino, le carezzava una mano, le baciava le guancie bagnate di lacrime.

— Ho scherzato — diceva.

— Tu non ischerzi mai.

— Ho scherzato.

Tutto finiva, così: ma le lacrime erano state versate. E infine, sulla frase cara agli amanti, avveniva ancora questo:

— Tu non mi chiedi mai, Giovanni, se ti voglio bene!

— Perchè chiedertelo?

— Non ti piace saperlo?

— No, non mi piace. [p. 197 modifica]

— Ti tormenta, il mio amore?

— Sì, mi tormenta tanto.

— Ma perchè, ma perchè?

— Perchè mi hai amato troppo tardi — esclamava lui, per la centesima volta; — perchè io non sono più il giovanotto appassionato di dieci anni fa, ma un uomo arido e stanco, senza speranze e senza desiderii! È tardi, è tardi, Clara.

— Mai tardi, per l’amore.

— Siamo vecchi, Clara: il nostro sole tramonta.

— Dio mi salvi dalla notte — ella mormorava, avvilita, senza più energia.

Vi fu un giorno, però, in cui tutte le ombre malinconiche, e le incertezze, e i timori parvero dileguati. Era nella calda estate ed ella era andata ad Albano, sui colli, per fuggire l’aria soffocante di Roma. Colà, lo aspettava pazientemente, per giornate intiere, ma egli, pur promettendo di venire a trovarla, pur scrivendole, non veniva mai. Per tre o quattro volte ella era andata alla stazione, inutilmente. Una grandissima tristezza adesso opprimeva la donna superba; giacchè le pesava sulle [p. 198 modifica] spalle tutto l’irreparabile del suo errore sentimentale. Volontariamente ella si era ingolfata in questo amore; con ostinazione di passione ella ne aveva abbracciata la croce; la sua fantasia l’aveva spinta ai più duri sacrificii; e adesso erano impegnati il suo cuore e il suo onore. Stando sola, nella freschezza dei colli albani, ella approfondiva l’immensità del suo ultimo fallo e quel verde riposato tutt’intorno, e quella serenità la crucciavano. Infine, un giorno egli giunse, quasi inaspettato. Era così lieto! Le disse, subito, che non era venuto, ma che aveva sofferto molto, a non venire: che l’aveva molto amata, nella sua assenza: e le domandò, se ella lo amasse ancora. Così lieto! Ella diventò lietissima. Andarono, insieme, sotto l’ombrellino di Clara, a una lunga passeggiata, a braccetto, a traverso i sentieri di campagna, fra i prati fioriti. Clara aveva un vestito di seta leggiera, di un bianco avorio: e un gran cappello di merletto avorio, come una cuffia. Pareva molto più giovane e così delicata che egli la chiamò, ridendo: Madame la marquise. [p. 199 modifica] Ella era raggiante. Si sedettero sull’erba, all’ombra di un elce secolare, famoso in quelle campagne, e le loro anime furono così assolutamente e perfettamente armoniose, in quella solinga e serena campagna, che essi si guardavano e indovinavano l’un l’altro i pensieri. Si dispersero, due volte, per la via, ridendo, scherzando, baciandosi, dietro l’ombrello abbassato di Clara: e Madame la marquise arrossiva finemente di gioia, sotto l’ombra bianca del suo grande cappello. Non un motto del passato: non un pensiero del domani: non un velo di amarezza, mai. Egli aveva l’aria di un fanciullo; strappò dei fiori di campo, odorosissimi, ne fece un gran fascio, lo portarono all’albergo in trionfo. Là pranzarono soli, soli, in un angolo della stanza da pranzo, guardandosi negli occhi, sorridendosi, toccandosi le mani nel porgersi un bicchiere, un piatto, ebbri di una gioia di vivere che li faceva impallidire di piacere. Andarono sulla terrazza dell’albergo, soli sempre, tenendosi per mano, tacendo, dicendosi nello sguardo innamorato quelle cose profonde e intime, [p. 200 modifica] che l’amore pensa e non dice. Ogni tanto, ella chiedeva:

— Mi vuoi bene?

— Sì — rispondeva lui, semplicemente, senza reticenze.

— Quanto?

— Molto.

— Io ti adoro — ella concludeva, arrossendo.

Alla sera, ella lo ricondusse alla stazione, attaccata al suo braccio, innamoratissima di lui, mentre lui non sapeva staccare lo sguardo da quei cari occhi: si baciarono nella penombra della stazione, senza pensare a chi li guardava. Il treno si mosse, ella restava a guardare e lui si sporgeva dallo sportello, salutando.

Ella gli scrisse, nei giorni successivi, otto o dieci lettere, folli: egli non rispose. Aveva giurato di ritornare: non ritornò. Ella ripartì per Roma, prima che la villeggiatura finisse. [p. 201 modifica]

V.

Vestita di bianco, con un leggiero scialletto di crespo bianco sulle spalle, Clara, in quelle ultime lunghe sere di estate, aspettava Giovanni al balcone. Prima, la solinga donna leggeva un poco, si aggirava come un fantasma per la casa deserta; poi, verso le nove, approssimandosi l’ora dell’arrivo, ella esciva sul balcone, interrogando le penombre di via del Babuino. Malgrado che l’afa di quella fine d’agosto togliesse la gente alle case soffocanti e la spingesse per le vie, in cerca di un fantastico fresco, via del Babuino era spopolata. È lontana dal centro: ed è via di forestieri, che la popolano solo nell’inverno. Pochissima gente l’attraversava; avanzandosi la sera, non più un viandante. Clara guardava l’alto della strada, verso piazza di Spagna, donde giungeva sempre Giovanni, quando [p. 202 modifica] giungeva: e appena una persona svoltava l’angolo, essa si piegava sui ferri, cercando distinguere l’alta figura e il passo un po’ lento, a lei così noti. L’ora serotina si svolgeva, calda, spesso attraversata da un molle soffio sciroccale; Giovanni non compariva. Affaticata dallo stare in piedi, ella si sedeva sovra uno sgabello di legno, che era fuori sul balcone; appoggiava la testa ai ferri, in atto di pazienza e di riposo; talvolta, un lieve sonno la coglieva; alle undici e mezzo, che ella sentiva suonare a Santa Maria del Popolo, si levava, rientrava, poichè Giovanni non sarebbe venuto più. Un brivido di freddo la coglieva, in casa: e si accostava alla sua scrivania, per scrivergli un biglietto, una lettera, lagnandosi che egli avesse ancora mancato alla promessa. Ma, sedutasi, si rialzava subito: a che lagnarsi? Su sette sere della settimana, egli mancava cinque: e la lasciava, così, in una interminabile aspettativa, fuori su quel balcone, in una solitudine e in una malinconia grande, sapendo benissimo che ella lo aspettava ogni sera e che era sola, [p. 203 modifica] solissima. Adesso, ella non si lagnava più, giacchè le scene la stancavano e la impaurivano, perduta di energia, precipitata e giacente nella inazione spirituale di chi ha troppo amato inutilmente: e non lamentandosi lei, egli non si scusava neppure e aveva l’aria di non rammentarsi che ella non esciva, non vedeva nessuno, per lui soltanto. Oramai, Clara non aveva più quelle crisi di violenza, in cui malediceva l’aridità del cuore di Giovanni e la viltà del proprio cuore che non sapeva infrangere un legame così fittizio e così torturante: ella era in preda a quelle sonnolenti rassegnazioni, che abbattono tutte le persone di carattere impetuoso, dopo un periodo di passione. Sul viso altiero di Clara, dove sempre aveva brillato il sorriso trionfale della donna padrona del proprio destino, ora sedeva l’espressione stanca e paziente della vittima. Quando Giovanni le riappariva innanzi, ella sorrideva tenuemente, gli si sedeva accanto, ma non troppo vicino, non gli faceva un rimprovero, gli parlava a voce bassa, senza ridere mai. Egli la guardava [p. 204 modifica] curiosamente: scrutava tutte le impressioni di quel volto mobile, di quegli occhi vivacissimi, e scorgendovi come disteso un velo d’inesorabile e quieta tristezza, crollava il capo, senza dire nulla. Egli stesso era profondamente triste. Forse, s’imponeva di non andare da Clara, più spesso. Forse, per una singolare contraddizione del suo spirito, quell’aspetto di vittima, quel silenzio, quella mancanza di sorriso, lo tormentavano più di una scena furiosa. Nel settembre, egli partì per Napoli, senz’avvertirla neanche; ella gli scrisse, tre o quattro volte, delle lettere pacate, ma senza rampogna; delle lettere dove tutto il fuoco dell’anima di Clara parea fosse stato smorzato dalle lacrime. Ritornò, Giovanni, dopo dieci giorni: ed ella non gli fece nessuna interrogazione, fredda e tenera, fredda e triste, fredda e oppressa da una fatica morale che le traluceva, torbidamente, dagli occhi.

— Che hai? Che hai? — le chiese lui, quel giorno, con ansietà, andando volontariamente incontro a una spiegazione. [p. 205 modifica]

— Sono stanca — ella disse, chinando gli occhi.

— Di me?

Ella esitò, un minuto. Disse:

— No.

— Finirai per odiarmi, io lo aveva preveduto — egli soggiunse, desolatamente.

— E perchè, Giovanni? Tu non hai nessuna colpa.

— E tu neanche, poveretta! — replicò lui, prendendole le mani.

Ella si svincolò, dolcemente e freddamente.

— Oh io, sì! — e un vero accento di convinzione, la dichiarava colpevole di quel malinconico ultimo peccato, pieno di tante delusioni.

— La colpa è delle cose, è degli anni, è della fatalità — egli spiegò.

— La fatalità è la scusa dei deboli e degli sciocchi — diss’ella brevemente. — Io ho voluto che questo fosse; la colpa è mia.

— Poveretta, poveretta! — mormorò lui, con voce di pianto. [p. 206 modifica]

— Mi sono ingannata, anche questa volta — ella replicò, con una freddezza di ghiaccio.

L’accenno agli amori passati, il primo che ella facesse durante un anno e mezzo di relazione con lui, la comunanza del suo amore con gli altri, nella mente di Clara, gli fece una impressione pessima.

— Io non ti ho ingannata — esclamò lui offeso, contristatissimo.

— Chi sa! — ella disse. — Hai creduto di dirmi la verità: ma quando è che l’hai detta?

— Mai, mai ti ho ingannata!

— Eppure un giorno mi dicevi d’amarmi e un giorno lo negavi. Quando è che mentivi?

— Mai, mai, Clara!

— Vedi bene che tu stesso ignori la verità. Tu non sai niente!

— So che soffro, ecco tutto.

— Anche io, molto, Giovanni, molto.

— Non più di me!

— Più di te, più di te, in un modo diverso, con una intensità maggiore e diversa. Niuno ha mai espiato un peccato [p. 207 modifica] più immediatamente e più rigorosamente di me, credilo.

— Povera Clara, io ti ho portato sfortuna! — e la più grande tenerezza vibrava in lui.

Ma queste gelide consolazioni non arrivavano a riscaldare il cuore della donna.

— La fortuna o la sfortuna è in noi — rispose ella, recisamente.

— In me, in me! Sono un essere malaugurato e sventurato.

— E perchè? Non hai amato?

— Troppo presto e troppo male, Clara!

— Non sei stato amato?

— Troppo tardi, troppo tardi.

— I tuoi ricordi saranno dolci, nella vecchiaia — ella soggiunse, con una glaciale tenerezza.

— Io non giungerò alla vecchiaia degli anni, lo so.

— Fortunato te!

Fu l’unica parola profondamente disperata che le uscì di bocca, in quello strano duetto. Ma, adesso, i loro scarsi e rari colloqui diventavano penosi; vi aleggiava una tristezza infinita, i loro [p. 208 modifica] volti erano distratti e assorbiti, un soffio di gelo chiudeva la coppia amorosa. Amorosa? Niuna parola d’amore, più. Ella, a poco a poco, gli scriveva meno. Egli se ne lagnò:

— Perchè mi scrivi così poco?

— Ti affliggerei, scrivendoti.

— Tu puoi dirmi tutto, lo sai.

— Non ho da dirti nulla.

Anche quando si vedevano, la conversazione si rallentava fra loro. Prima, Clara si interessava a tutta l’esistenza di Giovanni lasciandosi narrare le sue noie e le sue soddisfazioni: adesso, ella non lo interrogava più. Se egli voleva dirle qualche cosa, lo ascoltava, ma con gli occhi velati, quasi non intendendo.

— La tua anima è lontana, Clara — le disse, una sera.

— Non è che malata, tanto malata — ella si lamentò.

— Non speri di guarire?

— Sperare di guarire? Questa guarigione è anche la morte.

— La morte è di tutte le anime che hanno amato. [p. 209 modifica]

— È vero — ella concluse, a capo basso.

Adesso, ogni tanto, guardandola, mentre essa lo guardava, gli pareva di vedere delle lacrime negli occhi. Ma esse si dileguavano. Talvolta, ella si alzava dal suo posto, andava verso un balcone, andava nell’altra stanza: egli indovinava che Clara rasciugava queste poche lacrime: l’avanzo dei grandi pianti antichi.

— Perchè ti viene da piangere, guardandomi? — le domandò, infine, turbato assai di ciò, intravvedendolo.

— Io? No, non piango.

— Perchè me lo nascondi? Non sono il tuo migliore amico?

— Amico? Io non ho amici.

— Il tuo amante, allora? — ribattè lui, dopo una esitazione.

— Io non ho amanti, Giovanni.

— L’uomo che ti ama?

— Nessuno mi ama.

Profondo silenzio. Le lagrime erano inaridite negli occhi di Clara: ma egli vi ritornò sopra amaramente:

— Non vuoi dirmi, perchè mi guardi e i tuoi occhi si orlano di lacrime? Ciò [p. 210 modifica] è così triste! Mi pare che tu pianga un morto.

— Sono tanti i modi di morire.

Così, in questo ambiente di gelido dolore, di amarezze quiete e infinite, di grandi veli bigi e fitti che li avvolgevano in una nuvola di orrenda e intima malinconia, evitavano di vedersi in casa, dove soffrivano anche più. Non si davano convegno, ma si incontravano randagi pallidi, vagabondi delle vie remote di Roma, camminando accanto senza parlarsi, o scambiando qualche motto insignificante. Una volta andarono al Colosseo; era un chiarore plenilunare bianchissimo, con un freddo vivido d’ottobre; ella era tutt’avvolta in un mantello col cappuccio. Si sedette, Clara, sovra uno scalino dell’anfiteatro; Giovanni, si sedette più giù, vicino a lei, toccandole le ginocchia con la testa. Il grandioso circo era tutto molle e candido, sotto il raggio lunare. Ella fece un atto, e la sua mano si posò, lievissima, sulla testa di Giovanni. Tacevano: la mano restava lì, lieve, fredda, immota. Egli si volse un poco, prese la [p. 211 modifica] mano e la baciò sulle dita, appena appena, con una carezza casta, fugace; la mano ricadde lungo la persona. Si guardarono negli occhi, in quella solitudine, in quella notte chiara, e quello sguardo infinitamente e rassegnatamente desolato fu inteso, da ambedue, per quel che era, per quel che diceva.

L’indomani, nelle ore tarde pomeridiane, si videro al Pincio, dove ella gli aveva dato convegno. Ella era vestita di un abito di seta grigia e aveva una giacchetta di velluto nero; sul cappellino di velluto nero era una fine veletta nera. Egli pensò, vedendola, a quella sera di Armida, oramai lontana, nelle sensazioni e nelle memorie. Ma si forzò a scacciare ogni debolezza, tanto temeva di sè. Clara camminò un poco accanto a lui: poi guardando gli alberi di villa Borghese, dalla terrazza, gli disse la gran frase:

— Dunque, si finisce?

Ah egli si era creduto più forte! Si sentì vacillare, non potè rispondere. Che avveniva, dunque, in lui, di contradittorio, di bizzarro, che questa soluzione [p. 212 modifica] tanto da lui invocata, ora gli faceva orrore?

— Non mi rispondi, Giovanni? — ed ella alzava, ogni tanto, il manicotto sino alla bocca, come a reprimere un singhiozzo, un grido.

— Tu non hai pietà di me, Clara?

— Tu pensi troppo alle tue miserie, e non a quelle altrui; io non ti chieggo pietà.

— Tu sei forte.

— Ero forte.

— Tu sei forte.

— La mia unica forza mi ha abbandonata — ella soggiunse, sempre guardando altrove.

— Quale era?

— L’amore. È finita, Giovanni — ed ebbe un cenno largo, definitivo, verso la campagna.

— Non ci vedremo più, dunque? — egli chiese, debolissimo, tremante, come un fanciullo disperato.

— A che servirebbe? A maggiori dolori?

— Come amici.... qualche volta? [p. 213 modifica]

— Io non ti sono amica, Giovanni: ti ho troppo amato per esserti amica.

— Io sono il più sventurato fra gli uomini — egli gridò, gittandosi sovra un banco, non reggendo più.

Ella gli sedette accanto: aveva gli occhi bassi, dietro la veletta.

— Giovanni, sii buono, non diminuire il mio coraggio. Vedi.... per giungere a questo, la mia anima ha dovuto fare un così lungo viaggio! Ho detto io, la parola estrema: io! Che ho innanzi, io? Sai che esistenza di solitudine, d’inutili e tardi rimpianti, di pentimenti postumi, di lacrime senza conforto? Sai che lungo e deserto viaggio io intraprendo, sino alla morte, sola?

— Il più sventurato fra gli uomini! — gemeva lui, con la faccia fra le mani, come un fanciullo abbandonato.

— Eppure.... io, io stessa rinunzio. Tutto è stato inutile, fra noi: il tuo amore, prima; il mio amore, dopo.

— Almeno, almeno, non mi avessi amato! — esclamò lui, in un ingenuo scoppio di dolore. [p. 214 modifica]

— Ti ho amato, invece, molto, alla mia maniera, che è certo imperfetta, poichè tutti siamo degli esseri imperfetti. Ti ho amato.... così teneramente, così passionalmente.... ma era tardi, era tardi, era tardi!

— Ma io ti voglio bene, Clara! — egli balbettò, smarrito, vedendo che ella era per levarsi, per andarsene.

— Ne sei certo? — gli chiese ella, duramente, come nella prima sera del loro amore. — Ne sei certo?

— Non lo so — rispose lui, annientato, ricadendo sul banco.

— Addio, Giovanni! — ella disse, innanzi a lui, pallida come una morta.

— Non te ne andare, non mi lasciare! — e tese le mani per rattenerla.

Ella si trattenne in piedi, innanzi a lui. Si vedeva che non aveva la forza di fare un passo. Guardandola disperatamente negli occhi, tenendole una mano, egli la supplicava ancora, confusamente, di non lasciarlo, così, in quell’ombra; ed ella non rispondeva, levando il volto, mordendosi le labbra. [p. 215 modifica]

— Giovanni, perchè vuoi che io resti? Che ci porterà di nuovo questa sera, o il domani? Non saremo sempre gli stessi? Che si muta, per un discorso o per un giorno? Avevamo strade diverse e ci siamo voluti amare: questo amore è stato il tuo cruccio, allora; è stato il mio cruccio, adesso. Riprendiamo la via, più stanchi e più delusi di prima: Dio benedica la tua strada!

— Non te ne andare, non te ne andare!

— Addio, Giovanni — e gli toccò la mano, con la mano guantata, allontanandosi subito.

Per l’uomo che singhiozzava, lassù, sul banco del giardino solitario, come per la donna che discendeva alla città, senza vedere il sentiero, poichè le lacrime l’acciecavano, il sole era tramontato. Intorno ad essi era la grande, lunga, infinita notte dell’anima.