Le stragi della China/7. Il traditore: differenze tra le versioni

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7. Il traditore

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6. L’agguato 8. Il fiume di fuoco

7.

Il traditore


Quel fiume era largo e molto rapido e scorreva fra due rive tagliate quasi a picco, le quali rendevano la discesa tutt’altro che facile, specialmente sotto l’incessante fuoco dei boxers.

Moltissimi isolotti, coperti di piante acquatiche e popolati da un numero infinito di volatili, lo ingombravano: ostacoli pericolosi alla navigazione.

Nel luogo ov’era giunta la colonna, stavano arenati, presso un banco, due di quei larghi battelli, a fondo piatto, chiamati dai cinesi meng, pessimi galleggianti, molto pesanti e difficili a maneggiarsi, specialmente sui fiumi a corrente rapida.

Il signor Muscardo si era arrestato sulla riva, guardando ora il fiume ed ora i boxers, i quali, indovinando i progetti dei fuggiaschi, affrettavano la corsa per impedire loro d’imbarcarsi.

— L’impresa non sarà tanto facile — disse a padre Giorgio. — Quei bricconi non ci lasceranno prendere il largo e crivelleranno le nostre barche.

— Eppure non v’è da esitare, fratello — rispose il missionario. — Imbarca prima i cinesi, mentre noi facciamo fronte al nemico. La riva è ripida, e non ci permetterà di scenderla col nemico alle spalle. Prendiamo una decisione prima che i boxers giungano qui.

— Avanti i cinesi! — gridò l’ex bersagliere. — E noi intanto, cerchiamo di arrestare per qualche minuto i banditi.

Mentre gl’italiani si inginocchiavano dietro le rocce che coronavano la riva, i cinesi cominciarono a scendere confusamente, spaventati dalle palle che già sibilavano in aria.

— Adagio! — gridava padre Giorgio. — Non abbiate fretta! Mio fratello vi copre le spalle.

Erano parole sprecate. I mongoli, che pure avevano dato, fino allora, prova non dubbia di valore, in quel momento pareva avessero perduta la loro calma.

Si spingevano confusamente gli uni sugli altri, rotolando giù per la ripida sponda, ansiosi di giungere alla prima barca e di prendere il largo.

Mentre si azzuffavano per contendersi il posto, l’ex bersagliere ed i suoi uomini facevano prodigi di valore per trattenere i banditi, i quali continuavano ad avanzare non ostante le scariche incessanti di quel gruppo d’uomini e le perdite gravissime che subivano.

La lotta però era troppo ineguale: erano dieci contro trenta e quantunque i boxers fossero armati di pessimi fucili, più di qualche palla giungeva sulle rive del fiume.

— Coraggio! — gridava l’ex bersagliere, continuando a sparare. — Non muovetevi! Ancora qualche minuto e saremo tutti salvi!

Gli operai cominciavano a tentennare. Già due di loro, colpiti dalle palle, erano caduti per non più rialzarsi e un terzo, ferito ad una gamba, era stato trasportato a bordo della seconda chiatta da padre Giorgio.

I boxers, incoraggiati da quei successi, piombavano addosso a quel gruppo di valorosi da tutte le parti, urlando come demoni. Le scariche non li trattenevano più.

— Padre — disse Enrico. — Non possiamo più resistere e la canna del mio fucile mi brucia le dita.

— Ancora uno sforzo! — gridava il signor Muscardo, sfuggito fino allora alle palle dei banditi. — Giù una buona scarica là in mezzo! Fratello, presto, balza nella scialuppa! Hanno finito i cinesi? Su, un’altra scarica!

I boxers erano allora vicini e si precipitavano innanzi brandendo le loro pesanti scimitarre tartare.

— In ritirata! — comandò il signor Muscardo.

A quel comando gli operai si precipitarono confusamente giù per la riva, balzando fra le rocce. L’ex bersagliere e Sheng, coprivano la fuga, sparando le ultime cartucce.

Il panico si era ormai comunicato a tutti. Europei e cinesi si erano scagliati addosso alle due scialuppe tentando di entrarvi tutti d’un colpo, mentre i boxers giungevano sulla riva vociferando come demoni.

— Al largo! — gridò l’ex bersagliere, vedendo che il missionario ed i suoi compagni avevan già preso posto nel secondo battello.

Essendo questo meno carico, fu subito messo in acqua. L’altro invece, che era stato invaso dai cinesi, era rimasto sul banco malgrado gli sforzi disperati di coloro che lo montavano.

— Gettatevi in acqua! — gridò il signor Muscardo.

La sua voce si perdette fra le urla feroci dei boxers. I banditi scendevano le sponde, balzando come tigri.

— Fratello, salviamo i cinesi! — gridò padre Giorgio, afferrando il fucile.

Era troppo tardi! Quei disgraziati, invasi da un terrore impossibile a descriversi, avevano perduto completamente la testa.

Allora, sotto gli occhi degli europei si svolse una scena orribile.

Non ostante la viva fucilata degli italiani, i banditi si erano scagliati sul primo battello rimasto ancora sul banco.

Balzarvi dentro e scannare i cinesi, fu l’affare d’un momento. I disgraziati, paralizzati dal terrore, non avevano tentato di difendersi contro quel fulmineo attacco.

Le loro teste, spiccate a gran colpi di scimitarra furono piantate sulle punte delle picche e gettate in alto fra urla di gioia selvaggia.

Muscardo, frenando la sua rabbia, aveva comandato di prendere il largo.

La scialuppa spinta da quattro remi si era precipitosamente allontanata, lasciandosi trasportare dalla corrente.

Quattro uomini però avevano continuato a far fuoco per tenere lontani i banditi, alcuni dei quali si erano già gettati in acqua per tentare di raggiungere la scialuppa prima che potesse giungere sulla riva opposta.

— Ammazzate quei cani! — gridava il signor Muscardo, pallido d’ira. — Bisognerebbe distruggerli fino all’ultimo.

La scialuppa intanto si allontanava rapidamente, sottraendosi ai colpi di fucile dei banditi. Alcuni di questi, come si disse, si erano provati ad inseguirla, però la corrente era così rapida che in breve dovettero rinunciare.

— Siate dannati! — gridò l’ex bersagliere. — Ah! Se avessi avuto una mezza compagnia del mio reggimento, vi avrei sterminati tutti!

— Poveri cinesi! — sospirò padre Giorgio. — Anche gli ultimi superstiti della borgata dovevano perire per mano dei loro compatrioti.

— Compatrioti! — esclamò il signor Muscardo, con indignazione. — Chiamali tigri, fratello!

— Sì, tigri che forse divoreranno anche noi, ah! Quale atroce guerra d’esterminio! Non avrei mai creduto che questi cinesi potessero giungere a tal punto.

— Sono barbari, fratello.

— Eppure avevano una civiltà più vecchia della nostra.

— Infatti si vede! Non ho mai veduto canaglie simili!

— E dove andremo ora?

— Cercheremo di raggiungere la giunca del pescatore — disse l’ex bersagliere.

— E ci lasceranno navigare tranquilli i boxers?

— Di questo non sono certo, fratello. Tuttavia non dispero ancora di salvare la mia e la tua pelle.

— Non siamo che in nove, — disse Enrico, — ed uno è ferito.

— Nove uomini risoluti possono fare miracoli, figlio mio. E poi nella giunca vi sono alcuni cinesi.

— Ho veduto quanto valgono questi mongoli. Eccettuato Sheng, che è un vero valoroso, sono incapaci d’un’azione decisiva.

— Eppure i cinesi disprezzano la morte e l’affrontano serenamente.

— Ciò non impedisce che siano cattivi soldati, padre mio.

— Una vera fortuna per noi, diversamente i banditi ci avrebbero già macellati come montoni.

— È vero, padre, che i soldati europei sono sbarcati?

— Sì, Enrico — rispose il signor Muscardo.

— Spazzeranno via questi bricconi di boxers?

— Adagio, figliuolo. Io temo che abbiano invece un osso duro da rodere. I cinesi sono pessimi soldati, avendo una organizzazione militare infelicissima; però calcolano, mio caro, sul loro numero. Gli europei hanno da fare i conti con quattrocentocinquanta milioni di abitanti, i quali potrebbero mettere in campagna venti o trenta milioni di combattenti e anche di più, se lo volessero. Immaginati un così sterminato esercito fanatizzato da un odio terribile! Sia pure male armato, in gran parte, ma che tromba devastatrice, che uragano tremendo! Chi potrebbe resistere all’urto di tali masse? Fortunatamente non tutti i cinesi odiano gli europei, né si lasceranno trascinare dai boxers. Guai se questo colosso dovesse montare tutto in furore! L’Europa passerebbe forse dei tristi giorni.

— E tu mi hai detto che anche a Pechino arde la ribellione!

— Sembra che il governo se l’intenda a meraviglia coi boxers.

— Ed i nostri ambasciatori?

— Temo, ragazzo mio, che non riescano a uscire vivi dalla capitale.

— E noi padre?

— Noi! Non so, mio povero Enrico, cosa potrà succedere anche di noi. Però non disperiamo così presto e, come ha detto tuo zio, confidiamo in Dio.

Mentre l’ex bersagliere e suo figlio discorrevano, la scialuppa continuava a scendere rapidamente il fiume, trasportata dalla corrente che diventava sempre più violenta.

I quattro operai scampati all’eccidio e Sheng che si era collocato al timone, facevano sforzi prodigiosi per evitare i numerosi isolotti ed i banchi di sabbia che di quando in quando, ingombravano il fiume.

Erano allora entrati in una regione relativamente popolata e non ancora invasa dai ribelli.

Sulle due rive si vedevano gruppi di capanne e sui poggi qualche graziosa villetta coi tetti doppi, irti di punte sostenenti dei grandi draghi di ferro dorato e di antenne con banderuole gialle.

Di quando in quando si vedevano pure dei bellissimi chioschi di marmo colle pareti traforate come trine e anche qualche torre a più piani dove conservansi le reliquie di Buddha, una delle divinità più celebrate dal Celeste Impero.

Dei contadini e delle contadine lavoravano nei campi di cotone e d’indaco; e fuggivano subito appena la scialuppa si mostrava, credendola forse montata dai boxers o da soldati europei.

A mezzodì, il signor Muscardo, vedendo che le rive erano deserte, comandò di fare una breve fermata dinanzi ad una capanna.

Erano tutti affranti e quello che era peggio, affamati, non avendo portata con loro alcuna provvista.

— Cerchiamo qualche cosa da porre sotto i denti — disse l’ex bersagliere.

— Sarà abitata quella casa? — chiese Enrico.

— Il suo proprietario non sarà lontano. Vedo una piantagione d’indaco e di senapa dietro la capanna.

Stava per balzare a terra quando alcune grida partirono da dietro l’abitazione. Erano urla rauche, ora minacciose ed ora strazianti che talvolta pareva nulla avessero di umano.

— Che stiano sgozzando qualcuno? — chiese il signor Muscardo, afferrando il fucile e guardando suo fratello.

— O che si tratti d’un ferito? — disse padre Giorgio. — Fratello, andiamo a vedere e cerchiamo di soccorrerlo.

— Eppure non mi pare che i boxers siano giunti qui — rispose Sheng. — Non avrebbero lasciata intatta questa capanna.

— Andiamo a vedere — concluse il signor Muscardo.

Le grida continuavano sempre più acute e più bestiali. Pareva che provenissero più da una belva feroce che da un essere umano.

Spinti da una viva curiosità, l’ex bersagliere, Enrico, padre Giorgio e Sheng erano balzati sulla riva mentre i quattro operai ed il loro compagno ferito rimanevano a guardia del battello.

Appena giunti presso la capanna, uno spettacolo atroce s’offerse ai loro sguardi.

Rinchiuso dentro una gabbia di bambù solidissimi, videro un essere umano spaventosamente magro e interamente nudo, cogli occhi schizzanti dalle orbite, i lineamenti contratti, che si mordeva rabbiosamente le mani succhiando il sangue che usciva dalle ferite.

Vedendo comparire il signor Muscardo ed i suoi compagni, si era precipitato verso le pareti della gabbia scuotendo furiosamente le canne di bambù come se avesse voluto svellerle e scagliarsi contro gli europei.

— Chi è questo disgraziato? — chiese il signor Muscardo. — Chi può averlo rinchiuso in questa gabbia?

— Guardatevene, padrone — disse Sheng. — Si tratta d’un pazzo.

— E lo hanno messo lì dentro! — esclamò padre Giorgio con indignazione.

— Tutti i pazzi si rinchiudono in una gabbia, padre — rispose il cinese.

— Quest’uomo muore di fame, Sheng.

— Nessuno sarà passato per di qui.

— Cosa vuoi dire? — chiese l’ex bersagliere.

— Che da noi i pazzi si raccomandano alla pietà dei passanti. Se dànno da mangiare a questi disgraziati, possono bene o male campare qualche mese; diversamente si lasciano morire di fame.

— È una scelleraggine!

— Non dico il contrario, padrone.

— Ed i parenti di questo misero non si occupano di provvederlo di che mangiare?

— Se ne saranno andati lontani per non venire seccati dalle sue grida. Ecco perché questa capanna è deserta. Quando il pazzo sarà morto ritorneranno per raccogliere l’indaco e la senapa che hanno piantato in questo campicello.

— I tuoi compatrioti sono vere canaglie, Sheng — disse il signor Muscardo.

— Diamo da mangiare qualche cosa a questo disgraziato — disse padre Giorgio, che era vivamente commosso.

— E ridiamogli la libertà — aggiunse Enrico.

— Vediamo, innanzi a tutto, se nella capanna troveremo dei viveri — disse l’ex bersagliere.

L’abitazione pareva che fosse stata abbandonata da parecchi giorni perché si vedevano in un angolo degli avanzi di cibi già ammuffiti e corrotti. I suoi proprietari, rinchiuso il pazzo, se ne erano andati senza più curarsi di lui e probabilmente avevano fabbricato un’altra capanna molto lontana.

Tutte le suppellettili erano state portate via, eccettuati i letti che, come si disse, sono in muratura nelle provincie settentrionali della Cina.

— I bricconi hanno sgombrato — disse l’ex bersagliere, il quale frugava dappertutto con la speranza di scoprire qualche cosa da porre sotto i denti.

— Ho veduto una tettoia dietro alla capanna — disse Enrico. — Andiamo a visitarla. I cinesi usano conservare i loro raccolti all’aperto.

Girarono attorno alla capanna e trovarono una piccola tettoia sotto la quale, riparati da ammassi di foglie, scoprirono alcuni vasi ripieni di riso e, sospesi ad una trave a seccare, un bel numero di prosciutti di cane.

— Se questi non fanno per noi, saranno un boccone squisito pel pazzo — disse l’ex bersagliere.

Ne prese un paio e andò a gettarli nella gabbia del disgraziato, il quale, vi si precipitò sopra come una belva che azzanna la preda, mandando urla indescrivibili.

— Lo condurremo con noi, fratello? — chiese il missionario.

— Non è possibile, Giorgio — rispose l’ex bersagliere. — Ci darebbe troppo fastidio. Tutto quello che possiamo fare è di ridonargli la libertà.

Ciò detto col calcio del fucile sfondò tre canne. Il pazzo vedendo quell’apertura, si precipitò fuori, poi fuggì a rompicollo attraverso i campi, scomparendo in mezzo alla piantagione d’indaco.

— Disgraziato! — esclamò padre Giorgio, che aveva il cuore stretto. — Quale sarà la sua sorte?

— Sarà una vittima di più per i boxers — disse l’ex bersagliere.

— I quali pare si avanzino di già — disse Sheng, che da qualche istante guardava verso l’est.

— Come lo sai tu? — chiese l’ex bersagliere.

— Vedo delle colonne di fumo che si alzano sull’orizzonte. Dove vi è il fuoco vi sono i boxers.

— Che siano ancora quelli che ci hanno data la caccia?

— Lo sospetto, padrone.

— Non li attenderemo di certo — disse l’ex bersagliere. — Imbarchiamo questo riso e andiamo a cucinarlo altrove. Qui non spira buona aria per noi.

Presero le quattro giare ricolme di riso e scesero sollecitamente la riva imbarcandosi.

Verso l’est le colonne di fumo si moltiplicavano, innalzandosi in forma d’immensi ombrelli. Erano però molto lontane e pel momento non vi era da temere che i boxers potessero ostacolare la ritirata di quel drappello d’europei.

I banditi dovevano tuttavia avanzarsi con notevole velocità, spargendo ovunque il terrore e mettendo tutto a ferro ed a fuoco.

Attraverso le campagne si vedevano gruppi di contadini fuggire precipitosamente, spingendo innanzi a loro buoi e cavalli carichi di viveri e di suppellettili. Vi erano uomini, donne e fanciulli strillanti.

Di quando in quando si vedevano passare rapidamente delle carrette a vela, curiosissimi veicoli che sono molto adoperati in Cina.

Non hanno che una ruota sola, posta nel centro, e portano un albero sostenente una vela di due o tre metri quadrati, sovente di cotone e talvolta anche formata di vimini intrecciati.

Questi ruotabili vengono mantenuti in equilibrio da due stanghe tenute dal conduttore, il quale è costretto a seguirli correndo disperatamente.

L’effetto che producono queste carrette, è fantastico. Si crederebbe di vedere delle barche a vela correre, per arte magica, in mezzo ai solchi dei campi.

Durante l’intera giornata la scialuppa continuò a scendere il fiume, passando fra piantagioni di cotone, d’indaco e di gelso, e verso sera giungeva in un luogo dove il corso d’acqua si restringeva notevolmente.

Le due rive avevano cambiato aspetto. Non più risaie, né piantagioni; a destra ed a sinistra si rizzavano invece grandissimi alberi i cui rami s’incurvavano sul fiume, formando una volta di verzura d’incomparabile bellezza.

Erano piante-sevo, così chiamate perché dalle bacche che producono si ricava una materia molto grassa atta a fabbricare delle buone candele che si vendono sotto il nome di hineh-ye.

Il signor Muscardo, non osando continuare la navigazione di notte e su un fiume così impetuoso ed ingombro di banchi e d’isolotti, decise di fermarsi, anche per prepararsi la cena.

— Andiamo ad accamparci sotto quegli alberi? — chiese Enrico.

— Preferisco tenermi lontano dalle rive — rispose il signor Muscardo. — Chi mi assicura che questo bosco sia deserto? Non dimentichiamo che noi siamo una selvaggina ricercata.

In mezzo al fiume si estendeva un isolotto coperto da una folta vegetazione. Fu deciso di approdarvi e di passare la notte in quel luogo.

Già stavano per dirigersi colà, quando videro aprirsi i cespugli che coprivano la riva e comparire un uomo.

Era un cinese, magro come un chiodo, molto brutto, con una coda lunghissima che gli giungeva fino ai talloni e vestito poveramente. In mano teneva una specie di picca a tre punte e alla cintura un coltellaccio.

— Ehi, amico, cosa fai su quest’isolotto? — chiese il signor Muscardo, alzando il fucile.

Il cinese lo guardò con aria sospettosa, poi disse:

— Sono un pescatore.

— Allora avrai dei pesci da venderci. Noi siamo affamati.

— Per gli stranieri non ho pesci — rispose ruvidamente il cinese.

— Avrai almeno delle reti. Noi pagheremo bene quello che ci prenderai.

— Se avete dell’oro è un altro affare.

— Tutti venali questi mongoli — borbottò il signor Muscardo.

Si levò dalla tasca un tael, moneta d’argento che vale circa sette lire, e la gettò al pescatore che la prese al volo.

— Voi siete ricchi — disse. — Sbarcate, e pazientate pochi minuti.

Mandò un fischio stridente e subito si videro comparire fra le erbe tre marangoni, uccelli acquatici che sono molto abbondanti in Cina e che rassomigliano alle nostre grù, sebbene più piccoli.

— Ecco i veri pescatori — disse l’ex bersagliere, ridendo. — Sono furbi i cinesi!

I tre volatili ad un secondo fischio del padrone si erano schierati sulla riva, guardando attentamente l’acqua che era piuttosto torbida in quel luogo.

Ad un tratto il più grosso fu veduto slanciarsi rapidamente nella corrente, tuffarsi qualche minuto secondo, poi ricomparire a galla portando un pesce del peso di mezza libbra.

Il cinese aveva allungato prontamente la picca ed il marangone vi era balzato sopra docilmente, lasciandosi riportare a riva.

— È sorprendente — disse Enrico, che non aveva mai assistito a quel genere di pesca.

— È molto ingegnoso — soggiunse il signor Muscardo.

— E non mangiano la preda che pescano?

— Non lo possono in causa d’un anello che stringe a loro il collo — disse Sheng. — Non vedete che tutti questi volatili lo hanno?

— È vero — rispose Enrico. — Non me n’ero accorto.

Il pescatore intanto aveva ritirata la preda, regalando all’intelligente volatile una pallottola formata con interiora di pesce mescolate ad un po’ di cacio di fagiuoli.

Gli altri due volatili avevano seguìto l’esempio del primo, riportando altri pesci che il padrone si affrettava a rinchiudere in un cesto di vimini.

Quella pesca durò una mezz’ora, cioè fino quando il sole fu tramontato, poi gli europei, preceduti dal pescatore, si sdraiarono in mezzo alle piante, arrestandosi dinanzi ad una misera tettoia che serviva di dimora al padrone dei marangoni.

Fu subito acceso il fuoco e poco dopo il missionario ed i suoi compagni si sedevano dinanzi ad un arrosto molto appetitoso, quantunque condito con olio rancido di arachidi. Il pescatore, che pareva avesse cambiato umore dopo il tael regalatogli dal signor Muscardo, servì a loro dell’eccellente thè, bevanda che si trova sempre pronta in qualsiasi casa mongola, per quanto povera.

Avevano appena terminato di cenare, quando in lontananza si udirono a rimbombare alcuni colpi di fucile.

Il signor Muscardo si era alzato.

— Ancora quei banditi! — esclamò.

— Volete parlare dei boxers? — chiese il pescatore che stava fumando un granello di oppio in una pipa formata da una conchiglia.

— Sì — rispose il signor Muscardo.

— Non credevo che quegli uomini fossero già giunti qui. È un uragano che Pechino non si aspettava: ne vedremo di belle.

— Sei anche tu un boxers? — chiese il signor Muscardo, con inquietudine.

— No, no — rispose il pescatore, con un sorriso. — Signori, è ora di dormire. I boxers non verranno a disturbarci.

— Sì, dormiamo — mormorò il signor Muscardo. — Io però non ti perderò d’occhio.

Pochi minuti dopo tutti dormivano sotto la tettoia, cioè non tutti, poiché l’ex bersagliere fingeva di russare come un contrabbasso, tenendo gli occhi bene aperti.