Le novelle marinaresche di Mastro Catrame/I fantasmi dei mari del Nord: differenze tra le versioni

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Dieci minuti dopo papà Catrame era nuovamente seduto sul suo barile, circondato da tutto l'equipaggio, ansioso di udire la quinta novella.
 
Il mastro era di umore cattivo e certo aveva obbedito pel solo timore che il capitano facesse eseguire alla lettera la minaccia di passarlo ai ferri. Non dovevamo aspettarci quindi una allegra storiella; lo leggevamo negli occhi del narratore.
 
— È pronta la tua lingua? — chiese il capitano, assumendo un'aria arcigna.
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Il mastro curvò la testa sul petto per concentrarsi, mentre attorno lui si faceva un religioso silenzio; frugò e rifrugò nel suo cervello alcuni minuti, poi socchiudendo gli occhi grigi ci chiese:
 
Avete mai fatto voi un viaggio nelle regioni polari?
 
Nessuno rispose, eccettuato il capitano che borbottò un sì.
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— Comprendo, — riprese papà Catrame con ironia. — A nessuno di voi garba sfidare i freddi intensi del polo artico o antartico. Bei marinai, perbacco! Le costipazioni vi hanno fatto paura!... Là... là!... i marinai moderni tremano dinanzi ad un orso bianco e non osano affrontare i fantasmi polari!... I fantasmi del polo!... Ecco il titolo della mia quinta novella, e se non vi garba, buona notte a tutti e vado nella cala.
 
— Adagio, papà Catrame, — disse il capitano — Questa sera non andrai a dormire nella tua tana prima di averci narrata la quinta novella, a meno che tu non preferisca di dormire colle manette. Orsù, fantasmi o folletti, orsi o lupi, tira innanzi, ché tutti ti ascoltiamo. Ehi, camerotto, versa un buon bicchiere al nostro narratore e recagli una dozzina di quei grossi sigari di Manilla, affinché cessi il broncio e ci mostri un viso un po' più da cristiano. Diamine! Hai una cera da turco questa sera, mio caro orso marino.
 
Il vecchio mastro, che era di umore assai nero, si rabbonì un po'; vuotò con visibile soddisfazione l'eccellente Cipro del capitano, e diede fuoco a uno di quei deliziosi sigari, inghiottendo ed eruttando vere nubi di fumo.
 
— Il polo artico! — riprese egli. — Chi non si sente correre un brivido nell'avvicinarsi a quell'oceano misterioso, coperto di immensi campi di ghiaccio, scintillanti ai sanguigni riflessi dell'aurora boreale e coperti da quei pesanti e diacciati nebbioni, che pare si aprano a stento dinanzi all'affilato sperone delle navi?

— È là, in quelle solitudini desolate, dove non cresce una pianta sulle gelide isole, che si stende una notte non interrotta di sei mesi; è di là che si staccano quegli immensi campi di ghiaccio che le correnti portano fino sulle coste della Norvegia e su quelle della Scozia e dell'Irlanda; là dove gelano il vino, il petrolio, l'acquavite, il cognac e perfino il mercurio, e non soltanto i nasi, ma le mani e i piedi ai disgraziati marinai che si avventurano fra quelle alte latitudini o spinti dall'avidità del guadagno o dall'amore per la scienza o dalla potente curiosità di sollevare il velo che si stende attorno a quel punto misterioso che si chiama polo; è là infine dove si vedono talvolta delle ombre giganti errare fra i nebbioni e le nevi, che appariscono animali immensi dalle forme strane e fantasmi enormi che passano a fianco delle navi e dinanzi agli occhi degli atterriti equipaggi; che si odono fra i fischi del vento boreale urla, muggiti orribili, scrosci spaventevoli che nessuno saprà mai da quali creature sono emessi, ma che le leggende dei popoli nordici attribuiscono ai maghi che circondano il punto misterioso, quel punto che costò la vita a tanti marinai di tutte le nazioni del mondo e che ora dormono il sonno eterno sotto i campi di ghiaccio, nel seno di quell'oceano spaventevole.
 
— Cospettaccio! — esclamò un giovane gabbiere. — Mi fate venire la pelle d'oca, papà Catrame! Che racconto lugubre!...
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— Vi confesso che nel vedere quel nebbione diventare sempre più fosco, nell'udire continuamente quei fragori e quegli ululati, cominciavo anch'io a provare qualche cosa di più dell'inquietudine e che certi momenti sentivo il cuore diventarmi piccolo piccolo.
 
Poco dopo la mezzanotte, ecco apparire improvvisamente, attraverso quel freddo e pesantissimo nebbione, come una luce sanguigna che balenava or qua e or là, diventando talora intensa e talvolta diminuendo bruscamente, come se fosse lì per spegnersi. Cosa era? Io non ve lo saprei dire, quantunque il nostro capitano ci assicurasse che doveva essere un'aurora boreale che appariva al di là del nebbione. Io però stento anche ora a crederlo, poiché, qualunque cosa dicano i signori scienziati, non ho mai veduto un'aurora di quella specie, la quale si muoveva come se avesse indosso la tarantola.
 
— Ah! papà Catrame! — esclamò il capitano.
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— Aspettate, signore, — rispose il mastro serio serio. — Quantunque quella luce color del sangue facesse su tutti noi un certo effetto, non ci spaventammo troppo, essendo sempre assai lontana, o almeno pareva che lo fosse. Ma il brutto venne dopo.
 
Mi ero recato a poppa per accendere la mia pipa, quando udii un grande chiasso alzarsi a prua, cioè chiasso precisamente no, perché erano grida di terrore.
 
— «Capitano! capitano!» — gridavano gli uni.
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— Sui disgraziati che il mare travolse nei suoi abissi no, ma sui tuoi mostri e sui tuoi giganti lascia, papà Catrame, che rida.
 
— Non credete voi dunque allaalle leggende nordiche?
 
— No.