Lettera al duca Cosimo I: differenze tra le versioni

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Illustrissimo et eccellentissimo signor Duca.
 
Son sei mesi passati, che io diedi una mia canzone, indirizzata alla Eccellenza V.<ref>''Canzone al Duca di Firenze. In Padova, per Grazioso Percacino'', 1562, in 4°, in un foglio.</ref>, al suo secretario in Venetia, affine che egli glie la facesse capitar nelle mani, come mi promise di fare, e come il dover vorrebbe che havesse fatto; nè mai ne ho havuta fin al dì d’hoggi risposta alcuna, nè da lei in iscritto, nè dal suo secretario in voce, nè in alcun altro modo. La qual cosa mi fe cominciare a credere, che ella non l’havesse havuta; perchè sapendo io per vere relationi quanto ella sia diligente e cortese nel rispondere, mi pareva impossibile, se l’havesse havuta, che non m’havesse almen renduto canzon per canzone, come par che da un tempo in qua si sia cominciato a usare, e come da più d’uno, dapoi che io cominciai a canzonare, mi è stato risposto. Ma havendo poi veduto al cardinal di Lorena el al duca di Ferrara<ref>Una ''Canzone al Duca di Ferrara'', come stampata in Venezia nel 1562, in 4°, vien riferita nella ''Bibl. Petav.'', a carte 295.</ref> fare il medesimo; a l’uno de’ quali présentai, a l’altro feci presentare una canzone fatta da me in morte del valorosissimo duca di Ghisa, a l’uno de’ quali era fratello, a l’altro cognate; e non havendone da alcun di loro ritratto nè canzon per canzone al solito, nè alcuna altra sorte di risposta; haveva cominciato a credere a un altro modo, che voi altri principi moderni haveste annullata quella usanza, che era di render parole per parole, e fatta una legge nova, come sarebbe a dire, che per l’avenire tutte le canzoni che vi fossero scritte, s’intendessero esser bandite non solo dalle vostre presentie e da’ vostri dominii, ma dal mondo, come ribelli e mentitrici di quanto dicono in favor vostro; e come quelle che insidiano per vie indirette alle vostre borse, anzi a’ vostri erarii; e come quelle che cercano di offendervi con le loro stravaganti inventioni nello stato, nella persona e nello honore; e, in
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somma, come quelle che erano nemiche a spada tratta della vostra quiete. Per la qual credenza mi era mezo risoluto (cercando di imitare in questo i miei maggiori) di bandirle anch’io dal mio studio e dalle mie fantasie, e non voler più lor pratica, per non essere un dì bandito, per conto loro, non solo dal mondo vecchio, ma dal novo; non sol da quelle che s’è trovato, ma da quel che si va cercando. Ma il signor ambasciator di Ferrara, che é filosofo e poeta, e ’l signor Pigna, che é poeta e filosofo, e che legge l’etica alle scuole di Ferrara, con alcune risposte che hanno fatte interno a questo a più d’uno honorato cavaliero degno di fede, mi hanno aperti gli occhi, e fatto toccar con mano, che il non rispondermi e ’l non ringratiarmi del duca di Ferrara non era proceduto dalla nuova legge, che io credeva già che i principi moderni havessero introdutta; perché, per quel che essi affermano (che ’l posson sapere), la legge che io dissi non è stala ancora né stabilita né publicata; ma è proceduto da un altro rispetto, che è questo: che non havendo la canzone fatta da me in morte del duca di Ghisa presa la mira di punto in bianco alla persona del duca di Ferrara, e non parlando di lui, egli non era tenuto né a rispondermi né a ringratiarmi; attento che io gli haveva presentata una cosa che non apparteneva a Sua Eccellenza. La qual risposta mi chiuse la bocea, e mi trafisse in un medesimo punto; perché non solo mi escluse dalla risposta del lor patrone, ma da quella del cardinal di Lorena; non havendo la mia canzone investito per dritto filo la persona di Sua Signoria reverendissima, e non parlando di lei. Pure, in tanta disgratia, mi pare havere havuta una gran ventura, et ho da ringratiarne Dio, che la risposta di questi sollilissimi filosofi non sia stala tale che m’habbia escluso parimente dalla risposta, che io ho aspettata et aspetto dalla Eccellenza Vostra; poiché la canzon che io le mandai, viene a investir la sua persona, non per linea transversale, ma per linea retta. Essendo dunque vero che le ragioni de’ prelibati filosofi ferraresi non mi escludono dalla risposta, che io aspetto dal duca di Fiorenza, essendo egli vivo, e parlando la mia canzone a lui e di lui, mi parrebbe ragionevole, o che il detto duca mi rispondesse, o che almeno trovasse un altro paio di filosofi in Fiorenza o in Siena o in Pisa, come’ha fatto il duca di Ferrara, che con alcuna altra nuova e stravagante ragione mi facesser non meno ammutire e strabiliare, di quel che han fatto gli acutissimi filosofi Ferraresi. Questo s’intende quando la Eccellenza Vostra habbia havuta la canzone, e non le paia di rispondere; ma quando non l’habbia havuta, come comincio a creder di nuovo, e come si ha da credere, la prego che faccia che don Silvano monaco dell’ordine de Camaldoli<ref>Don Silvano Razzi.</ref> glie la presti e la legga; che io non dubito di non ne haver quella cortese risposta che si conviene alla sua grandezza. Che don Silvano
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n’habbia copia ne son sicuro, perché non solo mi rispose di haverla havuta, e me ne ringratiò con parole, ma in ricompensa mi mandò un presente di lavori in tele sottilissime, non da frati ma da papi, di tal valore, che se i principi a’ quali ho scritto mi havesser presentato a proportione a quel modo, mi troverei haver più tele e più lavori nelle casse che versi in istampa. E fu una gran ventura la mia, che il reverendissimo don Silvano non si consigliasse all’hora col reverendo cardinal di Lorena о со’ filosofi da Ferrara o col lor patrone; che non essendo la canzone, che io gli mandai, scritta al frate, e non parlando del frate, havrebbon consigliato il frate a tenersi quei bei lavori per lui. Questa è pure una gran cosa, che i frati, che altre volte solevano haver dell’asino, habbiano hoggi del duca e del cardinale, et ascoltino i canti de’ poeti con l’orecchie di Augusto; e i duchi e i cardinali, che altre volte solevano haver dell’Augusto, habbiano hoggi del frate, per non dir dell’asino, et ascoltino i versi de’poeti con l’orecchie di Mida! O Apollo, tu mettesti già un par d’orecchie d’asino al re Mida, per far conoscere a Sua Maesta et al mondo, che egli haveva havuto un giudicio da asino a giudicar che il canto di Pane fusse miglior del tuo, che sei il maestro e ’l piffero delle Muse! E le mettesti al re Mida, solo perché in quel tempo non si trovò altri che Mida di quel giudicio. Ma se tu hoggidì havessi a metter l’orecchie dell’asino a tutti coloro che nel giudicare i canti de’ poeti hanno il giudicio del re Mida, ti bisognarebbeno tante orecchie d’asino, che faresti restar senza orecchie tutti gli asini di Romagna e di Thoscana. Ноl’se la Eccellenza Vostra mi dirà che in questa lettera io ho dell’asino, scrivendo a chi scrivo, e facendo tante volte mention dell’asino senza una riverentia al mondo, io non risponderò gia che ha havuto dell’asino anch’ella a star sei mesi senza risponderrni (che io voglio parlare con quel rispetto che debbo); ma dirò bene audacissimamente, che il disprezzo che ell’à usato verso la persona mia non ha havuto del duca; che non credo pero che de’ par miei ne truovi le migliaia per le siepe di Thoscana come delle more salvatiche: e poi, quando in questo io havessi havuto alquanto dell’asino, non sarebbe maraviglia, perché io sono stato tanto in corte, et ho praticate tante corti e con tanti asini. che è uno stupore che io non sia un asino stesso. Non dico già che i principi a’ quali ho scritto, e che ho serviti e praticati, siano stati gli asini; ma non posso già negare che non siano stati capi, principi, re e imperatori degli asini, poiché ho trovati i lor ministri (salvando pero sempre i gentil’huomini e gli huomini da bene) per la maggior parte asini di vintiquattro caratti: altri vasellato alla ginnetta, altri bardato di velluto; et in mille altre forme asini rivestiti. E sono appunto il rovescio della medaglia dell’asino d’{{Ac|Apuleio}}: che dove quell’asino d’Apuleio haveva l’effigie dell’asino e la mente dell’huomo, questi che dico io, e che ho praticati io, hanno l’effigie dell’huomo e la mente dell’asino. Ma per non haver
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dell’ asino affatto anch’ io, voglio lasciar tutte l’asinità da banda, e per conservarmi suo servitore voglio credere che la mia canzone non sia comparsa innanzi alla sua presenzia; anzi, che habbia preso altro viaggio, non già per colpa del suo secretario, ma del procaccio o della mia mala sorte: benché, da poi che io gravai il suo secretario di questo, non mi par che sia proceduto meco con quella piena et allegra faccia che soleva per avanti; anzi, mi par che si sia ritirato da me, e che sia andato meco a meza aria, e m’ habbia da quel tempo in qua sempre guardato con uno occhio buono e un tristo; benchè io non havendo fatto il perché, ho pensato che ció sia proceduto più tosto per suo difetto che per mia colpa. Basta, che per ogni rispetto voglio credere, come ho detto, che per mera mia mala sorte, e non per altrui colpa la mia canzone non le sia stata presentata: e vo’ creder cosí, perché ogni volta che io credessi altramente, non potrei far buon giudicio né del suo giudicio né della sua cortesia, senza far cattivo giudicio del mio giudicio e della mia poesia: perché se’ o giudicassi che ella havesse havuto buon giudicio a giudicar la mia canzone indegna di risposta, verrei a dannare il mio giudicio, che l’ha giudicata e giudica degna non sol di risposta, ma di ricognitione: sì che, per non dannare il suo giudicio e salvare il mio, voglio credere, come haveva cominciato a credere fin da principio, che non l’habbia havuta. E se ne posso uscir con honore questa volta con la Eccellenza Vostra, non mi voglio mai più impacciar con principi, perché non m’intravenga con gli altri quel che m’è intravenuto col duca di Ferrara, che per havergli presentato una canzone fatta da me a lui e per lui nella superba entrata ch’egli fece in Venetia, non mi vuol più né veder né parlare, come se iо l’havessi ingiuriato a lodarlo. Questa fu pur mera mia fortuna contraria: che Sua Eccellenza, come cortese, ordinó che tutti gli scrittori che in Venetia l’havevano co’ lor versi honorata, fosser riconosciuti; e tutti furono premiati, da me in fuora, che l’haveva honorata a par degli altri, e l’ега servitore in Francia e in Italia più antico degli altri: benchè il signor ambasciatore e iI signor Pigna lo salvarono, al solito, dicendo: che il duca non riconobbe me in Venetia, perché mi haveva riconosciuto in Ferrara innanzi che io canzonassi. Io non so in qual libro s’habbiano studiato queste lor filosofie il signor ambasciator e il signor Pigna: ché se uno fa una canzone in lode di un morto, debbia quel morto in persona ringratiare e riconoscere il canzonatore, e non il fratello e ’l cognato del morto; e se la fa in lode di un vivo, che quel vivo il debbia e possa riconoscere col beneficio passato. L’Etica che io leggo a me medesimo et alla mia servente mi par che dica così: non so come si dica quella che legge il signor Pigna a se medesimo et al suo servitore; che il liberale, fatto che ha il beneficio, non se ne debba ricordar più, e che sta al beneficato il ricordarsene: come feci
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io, che ricordandomi della liberalità usatami, canzonai in dolce, e non mi dolsi mai che la mia gratitudine non fusse riconosciuta, ché havrei forse errato; ma mi ramaricai bene che mi fusse fatto ingiuria: ché fu un gran disfavore a me et а l’орге mie, che in una ricognitione generale fussi dimenticato io che haveva operato a par degli altri, et era servitore più antico degli altri. Pure haverò imparato questo dalla lor filosofia; di non dir mai più bene né de’ morti né de’ vivi, e spetialmente di quei vivi che m’han fatto del bene. Ella si maravigliarà che io l’habbia raccontate queste cose fuor di proposito; ma s’havrebbe più tosto a maravigliare, che in questa occasione non sia entrato nel trotto degli asini un’altra volta; ché ella sa bene, che è privilegio degli offesi di potersi querelare fuor di proposito con ognuno. E vi è un’altra ragione, che questa, se bene è una lettera in prosa, doveva essere una satira in versi; ma l’ho scritta in prosa, perché mi ricordo che un fiorentino mi disse una volta in Francia, a un certo proposito, che se le lettere di cambio si facessero in versi, non se ne pagherebbe mai niuna: talché io che desidero che mi sia pagata almeno d’una risposta<ref>non si è trovata la risposta di Cosimo; il quale nel sommo margine della lettera scrisse di propria mano: ''Sumario''.</ref> (siasi qual si voglia), l’ho voluta scriver nella forma che ella vede; querelandomi prima, e poi pregandola che mi voglia havere in quel luogo che dice la mia canzone; alla qual mi rimetto. E parli un poco di me con don Silvano, che mi conosce, et al modo del suo procedere mostra di haver giudicio e di conoscere il buono; e mi perdoni se, per risentirmi contra il disprezzo che mi pareva patire a torto, sono usclto alquanto dei termini; ché non resta per questo, che io non le sia quel devotissimo servitore che dicono i miei versi: a’ quali riportandomi, farò fine, pregando a lei ogni felicità, et aspettando a me una risposta da duca e non da sofista. Di Venetia, a dì 22 di maggio 1563.
::Della Eccellenza Vostra
:::::humilissimo e devolissimo servitore