Saggio sopra la lingua francese/Saggio: differenze tra le versioni

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Da non picciola maraviglia dovrà esser presa buona parte degli uomini di lettere al vedere come la lingua francese, la quale si parla da tanti secoli in un paese ridotto sotto a un principe solo, sia stata sempre incerta e mutabile; e solamente da picciolo tempo in qua ricevuto abbia un qualche regolamento; dove la lingua italiana, la quale si parla in un paese diviso in tanti stati come è il nostro, è venuta su quasi dalla prima sua infanzia bella e formata, ha ricevuto regole di buon'ora e da quel tempo sino a' giorni nostri si è mantenuta sempre la istessa. Se non che considerando attentamente la storia di esse lingue, e facendone in certo modo la genealogia, viene a scemare moltissimo, se non a svanire del tutto, la maraviglia.
 
Allora egli sembra che una lingua si abbia a chiamare ferma e compiuta, quando in essa sorgono scrittori tali, che sì nella prosa come nel verso vengano a dare espressione per ogni cosa e per ogni concetto. E ciò appunto è avvenuto in Italia; dove dal bel principio sorse un Dante con quel peregrino suo poema, nel quale imprese a descrivere fondo, siccome egli dice, a tutto l'universo. Oltre all'esser egli stato secondo i suoi tempi in ogni genere di dottrina versatissimo, sicché avea fatto in mente grandissimo tesoro di cose, e oltre all'aver sortito per vestirle di belle immagini una fantasia oltre ogni credere vivace e gagliarda, ebbe una discrezione somma nell'accattare e scegliere da tutte parti d'Italia i più accomodati modi da esprimerle. Onde meritamente di nostra lingua è chiamato padre e re; come quegli che non avendo predilezione più per una provincia che per un'altra, ne ridusse le varie favelle come in un corpo solo, e le particolari ricchezze di quelle volle rendere a tutta Italia comuni. E nel medesimo secolo apparirono dipoi, per non parlar del {{AutoreCitato|Giovanni Villani|Villani}}, del {{AutoreCitato|Jacopo Passavanti|Passavanti}} e di parecchi altri pulitissimi scrittori, il {{AutoreCitato|Giovanni Boccaccio|Boccaccio}} e il {{AutoreCitato|Francesco Petrarca|Petrarca}}, i quali col trattare argomenti più gentili e piani, al corpo di questa nostra lingua vennero a dare il suo compimento; quasi come Raffaello, che venne a perfezionar la pittura dando morbidezza e grazia alla grandiosità e alla fortezza di Michelagnolo. E però mediante la eccellenza di quei primi scrittori, e singolarmente di quei tre, Dante, Boccaccio e Petrarca, che sono quasi i triumviri del bel parlare, e lo studio che fu posto in essi, la lingua italiana di volgare e mutabile divenne ben presto grammaticale e perpetua.
 
All'incontro la lingua francese, assai più antica della nostra, sino al regno di Francesco Primo andò vagando senza regole, senza precetti, senza autori di conto; né quasi ebbe altr'anima, dirò così, salvo che la necessità in cui sono tutti gli uomini di dover comunicare co' segni delle parole i propri concetti tra loro. Francesco Primo, chiamato in Francia padre delle lettere, fece molti provvedimenti perché le maniere si formassero dei Francesi, e con esse la lingua. In sullo esempio de' principi italiani, ch'erano a quei tempi specchio di pulitezza, prese a favorire gli scienziati, i poeti e gli artisti di ogni maniera, chiamò i prelati e le principali donne del regno ad abbellire la corte, avvisando che il consorzio di esse raddolcir dovesse la favella e le maniere di una nazione data tutta al mestiero dell'armi; e come principe savio non meno che amator delle lettere, statuì che i pubblici atti nella giurisprudenza, i quali sino a quel tempo s'erano distesi in latino, distendere si dovessero d'allora innanzi in francese. E così la lingua ricevendo aumento, salisse in maggior pregio, e fosse innanzi agli occhi del popolo di maggior dignità. Non andarono del tutto vani i disegni di quel culto e magnanimo re. Ingentilì di molto al tempo suo la nazione, ne fu coltivata la favella, e vi fiorirono tali scrittori, che per certa ingenuità e grazia di dire tengono tuttavia il campo, essendo anche al dì d'oggi nel genere loro riputati maestri.
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Finalmente quiete le cose nel regno sotto Luigi XIII, il cardinale di Richelieu, che tanto avea operato per la gloria della monarchia francese, deliberò di fare altrettanto per la lingua; e fondò in Parigi un'Accademia a imitazione di quella che fondata si era in Fiorenza sotto il titolo di Accademia della Crusca, la quale di tutto ciò che si appartiene al bel parlare e al correttamente scrivere dovesse aver cura e governo.
 
Ma se la instituzione e il fine delle due Accademie furono gli stessi, diverse pur troppo furono le circostanze e i tempi in cui ebbero il principio. La nostra venne in tempo che per il corso di due secoli e più era stata da' più rinomati scrittori stabilita e regolata la lingua. Oltre {{AutoreCitato|Dante Alighieri|Dante}}, il {{AutoreCitato|Francesco Petrarca|Petrarca}} e il {{AutoreCitato|Giovanni Boccaccio|Boccaccio}}, che ne sono chiamati i tre lumi, e oltre a quelli che nel medesimo secolo seguirono le tracce loro, non mancò la età susseguente di autori di conto, come il {{AutoreCitato|Angelo Poliziano|Poliziano}}, che nelle sue {{TestoCitato|Stanze de messer Angelo Politiano cominciate per la giostra del magnifico Giuliano di Pietro de Medici|Stanze}} si accostò con lo splendor della espressione a {{AutoreCitato|Publio Virgilio Marone|Virgilio}}, ed il {{AutoreCitato|Luigi Pulci|Pulci}}, che per la evidenza dello stile gareggiò nel suo {{TestoCitato|Morgante}} con {{AutoreCitato|Omero}}. Quanti degni scrittori non videro dipoi gli aurei tempi di Leone? Il {{AutoreCitato|Baldassarre Castiglione|Castiglione}}, che quanto al linguaggio volle nella prosa far quello che Dante avea fatto nella poesia, scrivendo in una quasi comune favella d'Italia, il {{AutoreCitato|Francesco Guicciardini|Guicciardini}} autore gravissimo ed ampio, il Segretario fiorentino conciso, pieno di nervi e di cose, il Bernio tutto sapore e festività, che da tanti è stato imitato ed è tuttavia inimitabile. E per passare sotto silenzio di altri molti, il {{AutoreCitato|Pietro Bembo|Bembo}} aveva a quel tempo, con la sua diligenza e con grandissimo studio posto sopra gli autori più classici, dato le regole della nostra lingua, e l'avea ridotta a sistema. L'Accademia dunque della Crusca non altro ebbe a fare, che da tutti gli autori che per così lungo tempo e trattando così diverse materie, formata aveano, accresciuta e nobilitata la lingua italiana, raccoglier voci e modi di dire, e nel suo Vocabolario mettere ogni cosa a registro. Talmente che i Medici vennero a creare un corpo di tesorieri, in tempo che di tesori non era punto voto l'erario.
 
Il Richelieu, per lo contrario, fondò l'Accademia francese in tempo che di buoni autori scarseggiava pur troppo la Francia. Ronsardo, che tanto avea fatto per la lingua e alla cui tomba sarebbono un giorno iti in pellegrinaggio, secondo che dicevasi, i devoti delle Muse per ottenerne il dono della poesia, era dimenticato nella medesima sua tomba coperta soltanto dai secchi fiori che vi aveano a piene mani gittato i suoi contemporanei. Gli scrittori che avessero allora un qualche grido erano Marot, il cui stile grazioso si rimaneva quasi un segno della protezione accordata da Francesco Primo alle lettere, Montagna, forse egualmente licenzioso nello scrivere che libero nel pensare, dominato in ogni cosa dalla calda sua immaginativa, Malherbe, regolatore della poesia, e Balzac, vivente a quei giorni, che avea preso a regolare la prosa francese; orator gonfio e pieno di vento, come Malherbe era poeta secco e vuoto di sugo. Quell'autore, da cui ha principio l'epoca letteraria della Francia, il gran Cornelio, non era ancor giunto al colmo della celebrità sua; incominciava solamente a quel tempo a far figura trasportando nel teatro francese le ingegnose invenzioni dello spagnuolo. Non era ancora venuto in scena Racine, che arricchì quel teatro delle spoglie dei Greci, scrittore elegante e purissimo, a cui erano così note ed agevoli le vie del cuore, non {{AutoreCitato|Jean de La Fontaine|La Fontaine}}, che con tal naturale finezza seppe seppe nelle sue favole far parlare gli animali, non Pascal uomo eloquentissimo, i cui scritti da un secolo in qua non hanno invecchiato neppure di una parola, non Despréaux chiamato il poeta della ragione, che la bile di {{AutoreCitato|Decimo Giunio Giovenale|Giovenale}} seppe talvolta correggere col grazioso stile di {{AutoreCitato|Quinto Orazio Flacco|Orazio}}, non Molière, le cui opere immortali sono condite di un sale assai meglio preparato che non è il plautino, che in ogni cosa che prese a trattare toccò il fondo e fu tra' Francesi nelle cose d'ingegno del medesimo calibro, che nelle militari il Turenna; non tutti quegli altri scrittori che al tempo di Luigi XIV distesero ancor più con l'ingegno la gloria del nome francese, ch'egli non fece per avventura con l'armi.
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Un Inglese ebbe a dire, in proposito delle regole troppo severe della poetica francese, che le Muse della Senna simili ad augelli a' quali sieno state tagliate l'ali, possono bensì andare svolazzando qua e là, ma non han forza di levarsi in alto e di prendere un nobil volo<ref>Vedi ''Préface sur les Tragédies-Opéras'' par Mylord Lansdown, [in] ''Idée de la poésie angloise'', par M. l'abbé Yart, t. VII.</ref>. Con assai più di ragione parmi che si possa dire, in proposito delle regole troppo severe della loro grammatica e degli strettissimi confini che sono stati posti alla lingua, che gl'ingegni francesi sono simili a quegli eccellenti capitani che non possono fare la guerra a dovere e come portano le ragioni della scienza militare, perché troppo imbrogliati dalle restrizioni del Gabinetto. Troppo picciolo infatti è il campo che è loro rimaso; ed essi sono tuttora ridotti piuttosto che a fare un bel colpo, a cercar di sortire con onore di un qualche mal passo e di una qualche difficoltà<ref>"La sévérité de notre langue contre presque toutes les inversions des phrases augmente encore infiniment la difficulté de faire des vers françois. On s'est mis à pur perte dans une espèce de torture pour faire un ouvrage. Nous serions tentez de croire, qu'on a cherché le difficile, plutôt que le beau. Chez nous un poëte a tant besoin de penser à l'arrangement d'une syllabe, qu'aux plus grandis sentiments, qu'au plus vives peintures, qu'au traits les plus hardis. Au contraire les anciens facilitoient par des inversions fréquentes les belles cadences, la variété et les expressions passionnées. Les inversions se tournoient en grande figure, et tenoient l'esprit suspendu dans l'attente du merveilleux". ''Lettre à l'Acad. Franç'', art. V.</ref>.
 
Tale amara doglianza uscì dalla penna del celebre Fenelono, il quale dietro alle nobili tracce dell'{{TestoCitato|Odissea}} prese a dipingere le avventure del figliolo di Ulisse. Non solo si accorse quel grande ingegno dei difetti della propria lingua, come nel maneggiarla aveano fatto tanti altri; ma cercò ancora di adempiergli nel miglior modo che fosse possibile e trovar loro largamente compenso. Con una ragionatissima sua scrittura si fece egli innanzi all'Accademia di Francia. In essa espone la mala condizione, la povertà di una favella, che è parlata, dic'egli, da una nazione sortita appena dalla barbarie. Mostra come volendola migliorare s'era peggiorata, come i rimedi che sino allora erano stati messi in opera, non altro aveano fatto che accrescere il male; eccessiva di troppo essere stata la stitichezza di coloro che seduto aveano i primi in quel tribunale tanto agli scrittori nemico; esser ben giusto che della passata severità si rimettesse alquanto, conosciuto il disordine che ne era venuto; doversi al contrario usare di quella libertà di cui avea abusato Ronsardo; da ogni parte doversi accattare e trascegliere voci, espressioni, e maniere; farne, secondo il bisogno, provvisione e massa; talmente che si venisse a rimpastare e a riconiare, per dir così, la lingua francese; ed ella potesse, e per l'armonia, e per la ricchezza de' vocaboli, e per la composizion delle parole, e per certa franchezza, varietà e venustà nei modi del dire aver corso con le antiche e con le più belle tra le moderne. Né sarebbe da temere, egli aggiunge, non a felice fine avesse da riuscir la cosa, quando la scelta delle nuove voci e delle espressioni che mancano, fosse fatta in modo che venissero non a sformare, ma a nutrire e ad abbellire la lingua. Se le più colte persone incominciassero ad usarle sobriamente, gli altri le ripeterebbono per vaghezza di novità; ed eccole alla moda: in quella guisa che un nuovo sentiero che si apra in un campo, diviene in picciol tempo la strada battuta esso, quando al vecchia strada si trovi più malagevole e più lunga<ref>"Mais il faut se ressouvenir, que nous sortons à peine d'une barbarie aussi ancienne que notre nation.
. . . sed in longum tamen aevum
manserunt, hodieque manent vestigia ruris.