Lettera a Ruggero Bonghi intorno al libro De Vulgari Eloquio di Dante Alighieri: differenze tra le versioni

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Carissimo Bonghi,
 
Dico a socera perchè nora intenda; cioè scrivo a voi in privato per giustificarmi del non aver fatta menzione del libro di [[Autore:{{AutoreCitato|Dante Alighieri|Dante]]}} ''De Vulgari Eloquio'', nella Relazione di cui anche voi avete accettata la responsabilità. Voi farete poi di questa lettera l'uso che vi suggerirà la vostra prudenza. M'avete capito.
 
È indispensabile un pochino di preambolo.
 
Al libro ''{{TestoCitato|De vulgari eloquentia|De Vulgari Eloquio}}'' è toccata una sorte, non nova nel suo genere, ma sempre curiosa e notabile; quella, cioè, d'esser citato da molti, e non letto quasi da nessuno, quantunque libro di ben piccola mole, e quantunque importante, non solo per l'altissima fama del suo autore, ma perchè fu ed è citato come quello che sciolga un'imbarazzata e imbarazzante questione, stabilendo e dimostrando quale sia la lingua italiana.
 
Prima che ne fosse pubblicato il testo originale, che fu nel 1577, in Parigi, per cura di Jacopo Corbinelli, il [[Autore:{{AutoreCitato|Gian Giorgio Trissino|Trissino]]}} l'aveva fatto conoscere con una sua traduzione, lavorata sopra un manoscritto e stampata in Vicenza per Tolomeo Janiculo, nel 1529. L'autorità di quel libro, sostenuta e combattuta fino da quel primo momento, e poi a vari e lunghi intervalli, fu rimessa in campo dal conte [[Autore:Giulio Perticari{{AutoreCitato|Giulio Perticari]]}}, nei due trattati: Degli scrittori del Trecento e de' loro imitatori (1817), e Dell'amor patrio di Dante e del suo libro intorno al Volgare Eloquio (1820).
 
Bolliva allora l'altra questione tra i romantici e i classicisti, che rammento qui di passaggio, e solamente per la somiglianza del caso. Una parte principale di quella questione era intorno alla poesia drammatica; e su questo punto il libro allegato da molti come autorità irrefragabile, era la Poetica d'Aristotele, piccola cosa anch'essa in quanto alla mole, e che non era letta anch'essa, oserei quasi dire, da nessuno, se non forse da quelli, contro i quali s'allegava.
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Cos'ha inteso dunque? mi si domanda.
 
È un'altra questione, e alla quale non son tenuto di rispondere; perchè la mia tesi è puramente negativa, e credo d'averla dimostrata. Però, se il sostituire il fatto vero all'immaginato non è necessario a una dimostrazione di questo genere, può esser utile a render più compita la cognizione della cosa. E del rimanente, il libro in questione ce ne dà il mezzo tanto pronto, quanto sicuro. Perchè, subito dopo le parole citate in ultimo, vi leggiamo: «Delle quali tre cose troviamo aver poetato in volgare gli uomini illustri, cioè Bertrando de Born, le armi; Arnaldo Daniel, l'amore; Girardo de Borneil, la rettitudine; [[Autore:{{AutoreCitato|Cino da Pistoia|Cino da Pistoja]]}}, l'amore; il suo amico (Dante medesimo) la rettitudine. » E cita di ciascheduno il primo verso d'una canzone.
 
Qui, senza fermarci su quella mescolanza di tre trovatori perigordini con due poeti italiani, cosa che esclude l'intenzione di parlare d'una lingua speciale, troviamo anche un indizio della cosa, di cui Dante intende parlare, cioè del linguaggio della poesia, anzi d'un genere particolare di poesia.
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Sicchè e in ciò che è venuto fino a noi; e in ciò che ci manca, tutto s'aggira intorno a canzoni, ballate, sonetti, tragedia, commedia, elegia, cose da cantarsi; sempre poesia, niente altro che poesia.
 
E così l'aveva intesa [[Autore:{{AutoreCitato|Giovanni Boccaccio|Giovanni Boccaccio]]}}, più d'un secolo e mezzo prima che comparisse la traduzione del libro di Dante, e con essa l'interpretazione del [[Autore:{{AutoreCitato|Gian Giorgio Trissino|Trissino]]}}. Ecco le parole del Boccaccio nella Vita di Dante, comparsa in stampa la prima volta in fronte all'edizione, ora rarissima, della Divina Commedia, pubblicata nel 1477 da Vindelin da Spira, insieme col commento attribuito a Benvenuto da Imola.
 
« Appresso, già vicino alla sua morte, compose un libretto in prosa latina, il quale egli intitolò De Vulgari Eloquentia, dove intendeva di dare dottrina a chi imprender la volesse, del dire in rima. E comechè per lo stesso libretto apparisca lui avere in animo in ciò comporre quattro libri; o che più non ne facesse, dalla morte soprappreso, o che perduti sieno gli altri, più non appariscono che due solamente. »
 
Il [[Autore:{{AutoreCitato|Gian Giorgio Trissino|Trissino]]}} messe questo squarcio nel frontispizio della sua traduzione, come un argomento in favore della autenticità del libro; ma volendo mettere in mostra solamente ciò che faceva per lui, usò la magra furberia di lasciare indietro le parole « dove intendeva di dare dottrina a chi imprender la volesse, di dire in rima, » che avrebbero disturbato il suo disegno di tirare il libro di Dante alla questione della lingua, come fece nel suo dialogo « Il Castellano. » Ma, o Messer Gian Giorgio, se vedevate che quelle parole avrebbero potuto dar da pensare agli altri, perché non principiare dal pensarci voi? Quella era la vera furberia.
 
Se poi, tra gli oppositori, ce ne fossero alcuni (che non vorrei credere) ancora restii ad accettare le conseguenze del loro concedo maiorem, rivolgo a questi una seconda e ultima domanda. Credono che, tra le condizioni d'una lingua, ci sia quella, che i suoi vocaboli abbiano a esser composti d'un numero di sillabe, piuttosto che d'un altro? E, sentito rispondermi un no ancor più risoluto e più stupefatto del primo, cavo fuori, da quei capitoli del secondo libro, che avevo messi da parte, il settimo, dove Dante specifica i vocaboli convenienti al Volgare illustre. Principia dal distinguere i vocaboli in puerili, muliebri e virili (puerilia, muliebria, virilia); e questi in silvestri e in cittadini (silvestria et urbana); e de' cittadini, altri pettinati e scorrenti , altri irsuti e ruvidi (quaedam hirsuta et reburra). Scartate quindi le specie di vocaboli che non convengono al Volgare Illustre, « rimangono solamente » dice « i pettinati e i cittadini irsuti, che sono nobilissimi e membri del Volgare Illustre. » Sola etenim pexa, hirsutaque urbana tibi restare videbis, quae nobilissima sunt, et membra Vulgaris Illustris. Pettinati poi chiama i trisillabi, o vicinissimi alla trisibilità, con altre condizioni che non occorre di riferire. Pexa vocamus illa quae trisyllaba, vel vicinissima trisyllabitati. Gl'irsuti li divide in necessari e ornativi: necessari, e da non potersi scansare, certi monosillabi, come si, vo, me, te, se, a, e, i, o, u; ornativi quelli che, misti ai pettinati, formano un costrutto di bella armonia.