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<section begin="s1" />tempo. Probabilmente ''Muciano'', che men di Vespasiano amava Elvidio, il volle tolto dal mondo con questa frode. E fu appunto in tale occasione<ref>{{AutoreCitato|Cassio Dione Cocceiano|Dio.}}, lib. 66.</ref> ch’esso Muciano persuase all’imperatore di cacciar via da Roma tutti i filosofi, e massimamente coloro che professavano la filosofia stoica, maestra della superbia. Imperciocchè, oltre al rendersi da questa gli uomini grandi estimatori di sè stessi e sprezzatori degli altri, i seguaci di essa altro non faceano allora che declamar nelle scuole, e fors’anche in pubblico, contra dello stato monarchico, e in favore del popolare, svergognando una scienza che dee inspirare l’ossequio e la fedeltà verso qualsivoglia regnante. E tanto più dovea farlo allora Elvidio, che ai precedenti tiranni era succeduto un buon principe, quale ognun confessa che fu Vespasiano, e la sua vita il dimostra. Fra gli altri andarono relegati nelle isole ''Ostilio'' e ''Demetrio'' filosofi anch’essi. Portata al primo la nuova del suo esilio, mentre disputava contra dello stato monarchico, maggiormente s’infervorò a dirne peggio, benchè dipoi mutasse parere. Ma Demetrio, siccome professore della filosofia cinica, o sia canina, che si gloriava di mordere tutti, e di non portare rispetto ai difetti e falli di chicchessia<ref>{{AutoreCitato|Gaio Svetonio Tranquillo|Sueton.}}, in Vespasiano, cap. 13.</ref> dopo la condanna vedendo venir per via Vespasiano, nol salutò, e neppur si mosse da sedere, e fu anche udito borbottar delle ingiurie contro di lui. Il paziente principe passò oltre, solamente dicendo: ''Ve’ che cane!'' Nè mutò registro, ancorchè Demetrio continuasse a tagliargli addosso i panni; perciocchè avvisato di tanta tracotanza, pure non altro gli fece dire all’orecchio se non queste poche parole: ''Tu fai quanto puoi perch’io ti faccia ammazzare: ma io non mi perdo ad uccidere can che abbaia''. Per attestato di {{AutoreCitato|Cassio Dione Cocceiano|Dione}}, il solo ''Caio Musonio Rufo'', cavaliere romano, eccellente filosofo stoico, {{Pagina Annali|Pagina:Annali d'Italia, Vol. 1.djvu/182|304}}non fu cacciato di Roma: il che non s’accorda colla Cronica di {{AutoreCitato|Eusebio di Cesarea|Eusebio}}, da cui abbiamo che Tito, dopo la morte del padre, il richiamò dall’esilio.<section end="s1" />
<section begin="s1" />tempo. Probabilmente ''Muciano'', che men di Vespasiano amava Elvidio, il volle tolto dal mondo con questa frode. E fu appunto in tale occasione<ref>{{AutoreCitato|Cassio Dione Cocceiano|Dio.}}, lib. 66.</ref> ch’esso Muciano persuase all’imperatore di cacciar via da Roma tutti i filosofi, e massimamente coloro che professavano la filosofia stoica, maestra della superbia. Imperciocchè, oltre al rendersi da questa gli uomini grandi estimatori di sè stessi e sprezzatori degli altri, i seguaci di essa altro non faceano allora che declamar nelle scuole, e fors’anche in pubblico, contra dello stato monarchico, e in favore del popolare, svergognando una scienza che dee inspirare l’ossequio e la fedeltà verso qualsivoglia regnante. E tanto più dovea farlo allora Elvidio, che ai precedenti tiranni era succeduto un buon principe, quale ognun confessa che fu Vespasiano, e la sua vita il dimostra. Fra gli altri andarono relegati nelle isole ''Ostilio'' e ''Demetrio'' filosofi anch’essi. Portata al primo la nuova del suo esilio, mentre disputava contra dello stato monarchico, maggiormente s’infervorò a dirne peggio, benchè dipoi mutasse parere. Ma Demetrio, siccome professore della filosofia cinica, o sia canina, che si gloriava di mordere tutti, e di non portare rispetto ai difetti e falli di chicchessia<ref>{{AutoreCitato|Gaio Svetonio Tranquillo|Sueton.}}, in Vespasiano, cap. 13.</ref> dopo la condanna vedendo venir per via Vespasiano, nol salutò, e neppur si mosse da sedere, e fu anche udito borbottar delle ingiurie contro di lui. Il paziente principe passò oltre, solamente dicendo: ''Ve’ che cane!'' Nè mutò registro, ancorchè Demetrio continuasse a tagliargli addosso i panni; perciocchè avvisato di tanta tracotanza, pure non altro gli fece dire all’orecchio se non queste poche parole: ''Tu fai quanto puoi perch’io ti faccia ammazzare: ma io non mi perdo ad uccidere can che abbaia''. Per attestato di {{AutoreCitato|Cassio Dione Cocceiano|Dione}}, il solo ''{{AutoreCitato|Gaio Musonio Rufo|Caio Musonio Rufo}}'', cavaliere romano, eccellente filosofo stoico, {{Pagina Annali|Pagina:Annali d'Italia, Vol. 1.djvu/182|304}}non fu cacciato di Roma: il che non s’accorda colla Cronica di {{AutoreCitato|Eusebio di Cesarea|Eusebio}}, da cui abbiamo che Tito, dopo la morte del padre, il richiamò dall’esilio.<section end="s1" />