Pagina:Storia delle arti del disegno II.djvu/78: differenze tra le versioni

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{{Pt|gomento|argomento}} sono il nome d’un liberto pittore ai tempi de’ Cesari, serbatosi su un’iscrizione d’Anzio nel Campidoglio<ref>{{AutoreCitato|Giuseppe Rocco Volpi|Vulp.}} ''Tab. Antiat. illustr. pag. 17''.</ref>, e ciò che leggiamo d’un portico pur d’Anzio, su cui Nerone da un liberto fece dipingere de’ gladiatori<ref>{{AutoreCitato|Gaio Plinio Secondo|Plin.}} ''lib. 35. cap. 7. sect. 33''.</ref>. E poichè, eccetto alcune poche pitture tratte fuori da un tempio d’Ercolano, le altre tutte, che rimangonci, ornavano le case campestri o altre private abitazioni, è probabile che quelle pure siano lavori de’ liberti. Il mentovato pezzo, fu cui leggeli DIDV, è forse opera d’un liberto nato o educato in Roma. Aggiungane a quelle congetture le lagnanze di {{AutoreCitato|Gaio Plinio Secondo|Plinio}} sul decadimento della pittura, ch’egli attribuisce in parte al non essere quell’arte esercitàta da perfone onorevoli: ''non est spectata honestis manibus''<ref>Plin. ''lib. 35. cap. 4. sect. 7''.</ref>. E’ vero che non era questa abbandonata ai liberti a segno che si riputasse inonorato chiunque l’esercitava, poiché cittadini romani erano probabilmente {{Sc|Amulio}} che dipinse la casa aurea di Nerone, e {{Sc|Cornelio Pino}} che, unitamente ad {{Sc|Accio Prisco}}, diedero saggio della loro maestria nelle pitture del tempio della Virtù e dell’Onore restaurato da Vespasiano<ref>''Id. lib. 35. cap. 10. sect. 37''. [ Tale dovrebbe essere stato anche Arellio, che si rese celebre in Roma poco prima di Augusto, come scrive Plinio in questo stesso luogo.</ref>; ma certamente in Roma non era generalmente la pittura l’occupazione propria d’uomini ingenui e liberi, siccome in Grecia; e passando alle mani degli schiavi e de’ liberti sotto i primi {{Pt|Ce-|}}
{{Pt|gomento|argomento}} sono il nome d’un liberto pittore ai tempi de’ Cesari, serbatosi su un’iscrizione d’Anzio nel Campidoglio<ref>{{AutoreCitato|Giuseppe Rocco Volpi|Vulp.}} ''Tab. Antiat. illustr. pag. 17''.</ref>, e ciò che leggiamo d’un portico pur d’Anzio, su cui Nerone da un liberto fece dipingere de’ gladiatori<ref>{{AutoreCitato|Gaio Plinio Secondo|Plin.}} ''lib. 35. cap. 7. sect. 33''.</ref>. E poichè, eccetto alcune poche pitture tratte fuori da un tempio d’Ercolano, le altre tutte, che rimangonci, ornavano le case campestri o altre private abitazioni, è probabile che quelle pure siano lavori de’ liberti. Il mentovato pezzo, fu cui leggesi DIDV, è forse opera d’un liberto nato o educato in Roma. Aggiungansi a queste congetture le lagnanze di {{AutoreCitato|Gaio Plinio Secondo|Plinio}} sul decadimento della pittura, ch’egli attribuisce in parte al non essere quell’arte esercitata da persone onorevoli: ''non est spectata honestis manibus''<ref>Plin. ''lib. 35. cap. 4. sect. 7''.</ref>. E’ vero che non era questa abbandonata ai liberti a segno che si riputasse inonorato chiunque l’esercitava, poiché cittadini romani erano probabilmente {{Sc|Amulio}} che dipinse la casa aurea di Nerone, e {{Sc|Cornelio Pino}} che, unitamente ad {{Sc|Accio Prisco}}, diedero saggio della loro maestria nelle pitture del tempio della Virtù e dell’Onore restaurato da Vespasiano<ref>''Id. lib. 35. cap. 10. sect. 37''. [ Tale dovrebbe essere stato anche Arellio, che si rese celebre in Roma poco prima di Augusto, come scrive Plinio in questo stesso luogo.</ref>; ma certamente in Roma non era generalmente la pittura l’occupazione propria d’uomini ingenui e liberi, siccome in Grecia; e passando alle mani degli schiavi e de’ liberti sotto i primi {{Pt|Ce-|}}
<ref follow="pagina77">{{Pt|sulto|giureconsulto}} Antistio Labeone, che vissero ai tempi di Augufto, e Turpilio cavaliere romano, che fiorì al tempo di {{AutoreCitato|Gaio Plinio Secondo|Plinio}}, come quelli attesta ''lib. 35. cap. 4. sect. 7''.; ovvero saranno stati schiavi di barbare nazioni, o figli loro anche servi, che aveano imparato l’arte in Roma, come quelli, de’ quali si parla nella prima delle leggi, che ho citate pocanzi. E certamente lavoro di quegli schiavi greci non possono essere le pitture delle Terme di Tito; molto meno quelle trovate sul monte Esquilino, che ho citate alla ''pag. 58''., se furono fatte al tempo di Lucilla; e forse neppur quelle del monte Palatino. Non saprei dire di chi siano lavoro le mentovate nozze Aldobrandine; ma bensì credo poter dire francamente, che non sono il celebre quadro di Echione, che fiorì nell’olimpiade {{Sc|cvii}}. e dipinse nella Grecia, come pretende il signor {{AutoreCitato|Louis Dutens|Dutens}} ''Origine des decouv. ec. T. {{Sc|iI}}. par. {{Sc|iiI}}. chap. 11. §. 281. pag. 232. n. 2''; essendone ben diverso il soggetto, che era una vecchia, la quale con faci in mano faceva scorta ad una novella sposa notabile per l’aria di verecondia, con cui era rappresentata; come credo vada intefo Plinio ''lib. 35. c. 18. sect. 6. §. 9.: anus lampadas præferens, & nova nupta verecuadia notabilis''.</ref>
<ref follow="pagina77">{{Pt|sulto|giureconsulto}} Antistio Labeone, che vissero ai tempi di Augufto, e Turpilio cavaliere romano, che fiorì al tempo di {{AutoreCitato|Gaio Plinio Secondo|Plinio}}, come quelli attesta ''lib. 35. cap. 4. sect. 7''.; ovvero saranno stati schiavi di barbare nazioni, o figli loro anche servi, che aveano imparato l’arte in Roma, come quelli, de’ quali si parla nella prima delle leggi, che ho citate pocanzi. E certamente lavoro di quegli schiavi greci non possono essere le pitture delle Terme di Tito; molto meno quelle trovate sul monte Esquilino, che ho citate alla ''pag. 58''., se furono fatte al tempo di Lucilla; e forse neppur quelle del monte Palatino. Non saprei dire di chi siano lavoro le mentovate nozze Aldobrandine; ma bensì credo poter dire francamente, che non sono il celebre quadro di Echione, che fiorì nell’olimpiade {{Sc|cvii}}. e dipinse nella Grecia, come pretende il signor {{AutoreCitato|Louis Dutens|Dutens}} ''Origine des decouv. ec. T. {{Sc|iI}}. par. {{Sc|iiI}}. chap. 11. §. 281. pag. 232. n. 2''; essendone ben diverso il soggetto, che era una vecchia, la quale con faci in mano faceva scorta ad una novella sposa notabile per l’aria di verecondia, con cui era rappresentata; come credo vada intefo Plinio ''lib. 35. c. 18. sect. 6. §. 9.: anus lampadas præferens, & nova nupta verecuadia notabilis''.</ref>