Sulla lingua italiana. Discorsi sei/Discorso secondo: differenze tra le versioni

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''Come ti stavi altera e disdegnosa,''
''E nel mover degli occhi onesta e tarda!''
''Ella non ci diceva alcuna cosa:''
''Ma lasciavane gir, solo guardando''
''A guisa di leon quando si posa.''
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Ma quantunque l'Italia cominciasse a possedere una lingua letteraria e nazionale, le sue varie provincie e città non però cessavano - nè mai cesseranno - dal parlare dialetti stranamente diversi fra loro. Dante, che per arricchire la lingua andava scegliendo parole e frasi da tutti que' dialetti, e gli esaminava con orecchio attentissimo, le trovò divise in quattordici provinciali, e suddivise in altrettante municipali, sì ch'ei disperò di potere accertarne il numero(6). Dai saggi che egli ne reca, pare che gl'Italiani nativi di differenti provincie non potessero bene intendersi fra loro. Nè la diversità e il numero de' dialetti italiani è minore a' dì nostri. Sappiamo per prova che nè un Napoletano illetterato intende un Milanese, nè un Torinese un Bolognese; nè quattro uomini educati, ognuno de' quali fosse nativo in una di quelle quattro diverse provincie, potrebbero conversare senza frantendersi, se non usassero fra di loro un certo italiano ibrido, che, partecipando pur sempre del dialetto provinciale di chi lo parla, assume ad ogni modo le desinenze e la grammatica della lingua letteraria della nazione; e questa lingua nazionale, benchè non sia parlata nè bene nè male dal volgo, è nondimeno più o meno intesa anche dall'infima plebe. Abbiamo già accennato che una siffatta lingua comune dovea esservi anche allora, e fra poco ne daremo le prove: ma non era ancor letteraria. Primi i Siciliani ridussero il loro dialetto nativo a lingua scritta e popolare ad un tempo: ma benchè non l'usassero come lo udivano uscire dalle labbra del popolo, tuttavia non lo alteravano in guisa che non si vedesse che apparteneva propriamente ai nativi di quell'Isola: ad ogni modo era molto diverso dal provenzale, e più grato e più intelligibile a tutta l'Italia. - Infatti, mentre la poesia de' trovatori lombardi cadeva in perpetua dimenticanza, quella di Sicilia fioriva in guisa, che siciliano e italiano si trovano negli autori di quel paese adoperati come sinonimi(7). Che se poscia Firenze, più che la Sicilia, ottenne la gloria d'aver contribuito principalmente a stabilire la lingua letteraria della nazione, il merito è dovuto non solo a' suoi grandi scrittori che spettano all'epoca successiva, ma ben anche e forse molto più alle cause seguenti: - al dialetto de' siciliani; - al latino scritto dal clero romano; - alla lingua francese; - ma soprattutto al regno di Federigo II in Italia.
In quanto a' Siciliani, anch'essi nel corso de' secoli del medio evo parlavano la lingua romanza; ma avevano assai prima d'allora innestato il latino sul greco che era la loro lingua patria, e che con l'affluenza e soave modulazione delle sue vocali comunicò al dialetto de' Siciliani una tradizionale melodia di pronunzia. Quindi il dialetto che parlano anco a' dì nostri è fluidissimo di vocali. La strofetta seguente di un Siciliano morto prima del 1200(8) lascia sentire, per la moltitudine delle vocali e la scarsezza delle consonanti, una grande affinità alla lingua italiana d'oggi, e molta più melodia che in certa canzonetta provenzale di Federigo I suo contemporaneo.(9)
Rosa fresca aulentissima
C'appari inver l'estate,
Le donne te desiano
Pulcelle e maritate.
Chi togliesse il latinismo oggi fuor d'uso, e che il poeta siciliano, per amore delle vocali, invece di olentissima pronunziava aulentissima, e se invece di c'appari si scrivesse che appari, nessuno mai crederebbe che questi quattro versetti non fossero di un qualche poema moderno. Questa ed altre poesie posteriori furono imitate dai primi poeti toscani; e forse l'affluenza delle vocali nel dialetto siciliano operò sì che tutte le parole, le quali nella lingua latina e in tutti i dialetti e le lingue da lei derivate terminavano in consonanti, terminassero, nella lingua letteraria italiana, in vocali. Il latino panis - in spagnuolo pan - in francese pain - odesi in quasi tutte le provincie settentrionali d'Italia pronunziato tronco, ma non vedesi mai scritto in tutta l'Italia (fuorchè talvolta in poesia) se non pane; nè v'è parola italiana che non ammetta la medesima osservazione.
La lingua de' conquistatori romani, che, come nel precedente Discorso abbiamo accennato, predominava a principio scritta insieme e parlata in tutte le regioni soggette al loro Impero, cominciò fin da' primi tempi del medio evo a dividersi in latino scritto, chiamato curiale ed ecclesiastico, ed in latino parlato, chiamato romano rustico e poscia romanzo. Questa divisione continuò per oltre cento anni anche dopo l'epoca che ora andiamo osservando. Bensì nel corso di que' dodici secoli il latino si alterava di meglio in peggio e di peggio in meglio sotto la penna degli scrittori, senza mai perdere le sue primitive sembianze. Ma il romanzo alterandosi con la pronunzia che gli anni cangiano gradualmente in tutte le lingue parlate, ed innestandosi ne' linguaggi di tante differenti nazioni alle quali era comune, andò continuamente assumendo forme, suoni, significati e sintassi sempre più dissimili dalla lingua latina; si divise in dialetti infiniti, sinchè i dialetti provinciali e municipali si ricongiunsero a creare in ogni nazione una lingua letteraria, distinta dalle altre nate e cresciute dalla stessa origine e nel medesimo modo.
Sì fatte metamorfosi non appariranno fenomeni a chiunque non perderà mai d'occhio il principio generale da noi stabilito, perchè deriva dalla storia di tutte le lingue, e che non cesseremo d'applicare, perchè è principalmente efficace a farci conoscere i primordj, i progressi, le vicissitudini e lo stato attuale della italiana letteratura; - ed è: che le lingue si trasformano e si moltiplicano unicamente per mezzo della pronunzia. Il romano rustico essendo più parlato che scritto, il suono di ogni sua parola si cangiò in varie guise a norma degli organi e de' linguaggi anteriori di ciascun popolo: onde il latino presbyter divenne prevete- prêtre- prete - priest; e la sua origine, benchè non possa più omai rintracciarsi oltre al PRESBIS de' Greci, deve essere certamente molto più antica. - Al contrario, se una lingua è più scritta che parlata, s'imbarbarisce per neologismi, per durezza di costruzioni, per ineleganza d'idiotismi e per assoluta povertà di native grazie spontanee. Tuttavia, non soggiacendo al potere arbitrario impercettibile e invisibile delle pronunzie popolari, serba perpetuamente le sue prime forme. Il latino curiale ed ecclesiastico scritto e letto sempre, ma pronunziato di rado nel medio evo, si guastava, ma non però trasformavasi; perchè ogni sua parola era fedelmente seguita con obbedienza passiva dall'occhio de' lettori, e gli scrittori per riconoscerla preservavano scrupolosi la medesima ortografia. La parola presbyter infatti era un barbaro neologismo ignoto agli autori classici, e cominciò ad essere usato nel terzo secolo da' Padri della chiesa, quando la religione cristiana introducevasi quasi contemporaneamente in tutti i dominj romani: pur nondimeno d'indi in qua continuò ad essere scritto ad un modo, e inteso da chiunque sa di latino. Ma le pronunzie dissimili de' varj popoli le quali si divisero il romano rustico in dialetti infiniti, e che poi dagli scrittori furono ridotti in più lingue letterarie, fecero sì che ogni parola, benchè derivante dalla medesima origine, non potesse allora essere intesa, fuorchè nel luogo dove ogni dialetto diverso era parlato dal popolo. Quindi le parole medesime che nei libri scritti in latino ecclesiastico e curiale giunsero fino a noi perpetuamente immutabili, erano nel latino rustico e ne' suoi mille dialetti romanzi modificate e moltiplicate nelle varie pronunzie popolari di generazione in generazione; e furono tramandate a noi così travisate che, quand'anche serbano il loro preciso antico significato, non possono raffigurarsi come modificazione di una sola parola, se non da chi sa molte lingue viventi. Infatti un uomo letterato tedesco, che sapesse tutte le lingue antiche e nessuna moderna, potrebbe egli intendere che il prevete de' Grigioni, il prete degl'Italiani, il prêtre de' Francesi, e il priest degl'Inglesi sono pure tutte derivazioni direttissime, e serbano l'esatto significato del vocabolo presbyter? Ed oggi pur fra l'Italia e la Svizzera, dove alcuni alpigiani parlano un italiano antichissimo, ed altri un dialetto romanzo forse più antico, i pastori di due valli vicine difficilmente s'intendono fra loro senza un interprete.
Vero è che in tutti i tempi in ogni parte della terra le città e le provincie riunite sotto le medesime leggi, o costituite da naturali confini e dal clima in una sola regione, benchè parlino dialetti differentissimi, si formano sempre una lingua comune, composta di quelle parole che, appartenendo a tutti i dialetti di quella contrada, riescono più o meno intelligibili a tutti i suoi abitatori. Ma siffatta lingua rimansi poverissima, incerta e soggetta a rapidissime trasformazioni sino a tanto che non sia ripulita, arricchita e preservata dagli scrittori. La Francia meridionale e settentrionale, la Sicilia e l'Italia non lasciano travedere orma veruna di lingua nazionale per tutti quei secoli, ne' quali quel poco che si scriveva in quelle regioni era scritto barbaramente in latino. I loro mille dialetti popolari s'andavano alterando, e sempre più dividendo e intricando ad un tempo, finchè la poesia cominciò in ciascuna di quelle contrade, verso l'epoca delle Crociate, a giovarsi di tutti que' dialetti, ad evitare ogni frase troppo provinciale e plebea, a nobilitare ogni idiotismo, a ridurre i suoni diversi, con cui ogni parola era proferita e storpiata in diverse città, ad una sola pronunzia uniforme, e così, per mezzo della scrittura e della ortografia, renderla certa e intelligibile a tutti; e allora i dialetti in ciascuna contrada si riunirono sotto la penna degli scrittori a comporre le tre lingue nazionali chiamate nel duodecimo e decimoterzo secolo lingua d'oc, lingua d'oui e lingua del sì.
Strane, come pur certamente devono parere a' dì nostri siffatte denominazioni di queste tre lingue, giovano ad ogni modo ad accertare in che guisa derivarono tutte dalla latina, e come spesso le lingue derivate trovano nelle varie parole della madre lingua i significati necessarj che essa non poteva somministrare. I Romani, quegli imperiosi conquistatori del mondo, arbitrarj ed inesorabili nelle loro decisioni, assoluti e positivi nelle loro risposte, mancavano (chi il crederebbe?) della particella affermativa. Avevano il no; ma non avevano vocabolo esclusivamente appropriato a dir sì. I loro storici, oratori e poeti, per più eleganza e più forza, esprimevano l'affermazione positiva con due negative. Ma da' loro comici e scrittori di dialoghi appare che nel discorso famigliare avevano ricorso ora al pronome hoc, ora ai verbi ajo ed est, or agli avverbj maxime, utique, ita, sic, imo, e siffatti; donde anco nel Vangelo di S. Matteo, a significare men vagamente il precetto «le vostre parole sieno schiette; dite sì o no», l'autore, o il traduttore fu costretto a scrivere: «Sit sermo vester: Est Est, Non Non.» Diciamo l'autore, perchè noi crediamo che il nuovo Testamento sia stato originalmente scritto in latino, e uno scrittore ci ha recentemente confermati in questa credenza con dottrine e argomenti, che, al nostro parere, non possono esser confutati. Nondimeno la questione di sua natura non ammette termini di conciliazione fra' disputanti; e noi non l'abbiamo toccata se non perchè giova a illustrare il nostro soggetto, e aggiungere prove al fatto singolarissimo della varietà della particella affermativa fra popoli, fra quali le religioni, le colonie e le leggi romane e parecchi secoli di dominio avevano introdotta e stabilita la stessa lingua.
L'hoc (questo) prevalse nel mezzodì della Francia, e fu pronunziato e scritto oc; e nella Francia settentrionale l'utique (di certo) forse dapprima accorciossi in uti, come in tutte le lingue avviene ad ogni parola che è perpetuamente usata nel discorso; - poscia per la stessa ragione in ui; - e perchè i Romani pronunziavano, com'oggi pur fanno gl'Italiani, la u come l'ou de Francesi, la parola finì ad essere scritta oui. Finalmente il sic, (così), perdendo anch'esso una lettera, diventò sì, e si perpetuò come voce esclusiva di affermazione de' Siciliani e degl'Italiani: quindi venne il nome alla provincia della Linguadoca; e il verso di Dante:
 
In quanto a' Siciliani, anch'essi nel corso de' secoli del medio evo parlavano la lingua romanza; ma avevano assai prima d'allora innestato il latino sul greco che era la loro lingua patria, e che con l'affluenza e soave modulazione delle sue vocali comunicò al dialetto de' Siciliani una tradizionale melodia di pronunzia. Quindi il dialetto che parlano anco a' dì nostri è fluidissimo di vocali. La strofetta seguente di un Siciliano morto prima del 1200(8) lascia sentire, per la moltitudine delle vocali e la scarsezza delle consonanti, una grande affinità alla lingua italiana d'oggi, e molta più melodia che in certa canzonetta provenzale di Federigo I suo contemporaneo.(9)
Del bel paese là dove 'l sì suona
 
<poem> ''Rosa fresca aulentissima''
''C'appari inver l'estate,''
''Le donne te desiano''
''Pulcelle e maritate.''
</poem>
 
Chi togliesse il latinismo oggi fuor d'uso, e che il poeta siciliano, per amore delle vocali, invece di olentissima pronunziava aulentissima, e se invece di c'appari si scrivesse che appari, nessuno mai crederebbe che questi quattro versetti non fossero di un qualche poema moderno. Questa ed altre poesie posteriori furono imitate dai primi poeti toscani; e forse l'affluenza delle vocali nel dialetto siciliano operò sì che tutte le parole, le quali nella lingua latina e in tutti i dialetti e le lingue da lei derivate terminavano in consonanti, terminassero, nella lingua letteraria italiana, in vocali. Il latino panis - in spagnuolo pan - in francese pain - odesi in quasi tutte le provincie settentrionali d'Italia pronunziato tronco, ma non vedesi mai scritto in tutta l'Italia (fuorchè talvolta in poesia) se non pane; nè v'è parola italiana che non ammetta la medesima osservazione.
 
La lingua de' conquistatori romani, che, come nel precedente Discorso abbiamo accennato, predominava a principio scritta insieme e parlata in tutte le regioni soggette al loro Impero, cominciò fin da' primi tempi del medio evo a dividersi in latino scritto, chiamato curiale ed ecclesiastico, ed in latino parlato, chiamato romano rustico e poscia romanzo. Questa divisione continuò per oltre cento anni anche dopo l'epoca che ora andiamo osservando. Bensì nel corso di que' dodici secoli il latino si alterava di meglio in peggio e di peggio in meglio sotto la penna degli scrittori, senza mai perdere le sue primitive sembianze. Ma il romanzo alterandosi con la pronunzia che gli anni cangiano gradualmente in tutte le lingue parlate, ed innestandosi ne' linguaggi di tante differenti nazioni alle quali era comune, andò continuamente assumendo forme, suoni, significati e sintassi sempre più dissimili dalla lingua latina; si divise in dialetti infiniti, sinchè i dialetti provinciali e municipali si ricongiunsero a creare in ogni nazione una lingua letteraria, distinta dalle altre nate e cresciute dalla stessa origine e nel medesimo modo.
 
Sì fatte metamorfosi non appariranno fenomeni a chiunque non perderà mai d'occhio il principio generale da noi stabilito, perchè deriva dalla storia di tutte le lingue, e che non cesseremo d'applicare, perchè è principalmente efficace a farci conoscere i primordj, i progressi, le vicissitudini e lo stato attuale della italiana letteratura; - ed è: che le lingue si trasformano e si moltiplicano unicamente per mezzo della pronunzia. Il romano rustico essendo più parlato che scritto, il suono di ogni sua parola si cangiò in varie guise a norma degli organi e de' linguaggi anteriori di ciascun popolo: onde il latino presbyter divenne prevete- prêtre- prete - priest; e la sua origine, benchè non possa più omai rintracciarsi oltre al PRESBIS de' Greci, deve essere certamente molto più antica. - Al contrario, se una lingua è più scritta che parlata, s'imbarbarisce per neologismi, per durezza di costruzioni, per ineleganza d'idiotismi e per assoluta povertà di native grazie spontanee. Tuttavia, non soggiacendo al potere arbitrario impercettibile e invisibile delle pronunzie popolari, serba perpetuamente le sue prime forme. Il latino curiale ed ecclesiastico scritto e letto sempre, ma pronunziato di rado nel medio evo, si guastava, ma non però trasformavasi; perchè ogni sua parola era fedelmente seguita con obbedienza passiva dall'occhio de' lettori, e gli scrittori per riconoscerla preservavano scrupolosi la medesima ortografia. La parola presbyter infatti era un barbaro neologismo ignoto agli autori classici, e cominciò ad essere usato nel terzo secolo da' Padri della chiesa, quando la religione cristiana introducevasi quasi contemporaneamente in tutti i dominj romani: pur nondimeno d'indi in qua continuò ad essere scritto ad un modo, e inteso da chiunque sa di latino. Ma le pronunzie dissimili de' varj popoli le quali si divisero il romano rustico in dialetti infiniti, e che poi dagli scrittori furono ridotti in più lingue letterarie, fecero sì che ogni parola, benchè derivante dalla medesima origine, non potesse allora essere intesa, fuorchè nel luogo dove ogni dialetto diverso era parlato dal popolo. Quindi le parole medesime che nei libri scritti in latino ecclesiastico e curiale giunsero fino a noi perpetuamente immutabili, erano nel latino rustico e ne' suoi mille dialetti romanzi modificate e moltiplicate nelle varie pronunzie popolari di generazione in generazione; e furono tramandate a noi così travisate che, quand'anche serbano il loro preciso antico significato, non possono raffigurarsi come modificazione di una sola parola, se non da chi sa molte lingue viventi. Infatti un uomo letterato tedesco, che sapesse tutte le lingue antiche e nessuna moderna, potrebbe egli intendere che il prevete de' Grigioni, il prete degl'Italiani, il prêtre de' Francesi, e il priest degl'Inglesi sono pure tutte derivazioni direttissime, e serbano l'esatto significato del vocabolo presbyter? Ed oggi pur fra l'Italia e la Svizzera, dove alcuni alpigiani parlano un italiano antichissimo, ed altri un dialetto romanzo forse più antico, i pastori di due valli vicine difficilmente s'intendono fra loro senza un interprete.
 
Vero è che in tutti i tempi in ogni parte della terra le città e le provincie riunite sotto le medesime leggi, o costituite da naturali confini e dal clima in una sola regione, benchè parlino dialetti differentissimi, si formano sempre una lingua comune, composta di quelle parole che, appartenendo a tutti i dialetti di quella contrada, riescono più o meno intelligibili a tutti i suoi abitatori. Ma siffatta lingua rimansi poverissima, incerta e soggetta a rapidissime trasformazioni sino a tanto che non sia ripulita, arricchita e preservata dagli scrittori. La Francia meridionale e settentrionale, la Sicilia e l'Italia non lasciano travedere orma veruna di lingua nazionale per tutti quei secoli, ne' quali quel poco che si scriveva in quelle regioni era scritto barbaramente in latino. I loro mille dialetti popolari s'andavano alterando, e sempre più dividendo e intricando ad un tempo, finchè la poesia cominciò in ciascuna di quelle contrade, verso l'epoca delle Crociate, a giovarsi di tutti que' dialetti, ad evitare ogni frase troppo provinciale e plebea, a nobilitare ogni idiotismo, a ridurre i suoni diversi, con cui ogni parola era proferita e storpiata in diverse città, ad una sola pronunzia uniforme, e così, per mezzo della scrittura e della ortografia, renderla certa e intelligibile a tutti; e allora i dialetti in ciascuna contrada si riunirono sotto la penna degli scrittori a comporre le tre lingue nazionali chiamate nel duodecimo e decimoterzo secolo lingua d'oc, lingua d'oui e lingua del sì.
 
Strane, come pur certamente devono parere a' dì nostri siffatte denominazioni di queste tre lingue, giovano ad ogni modo ad accertare in che guisa derivarono tutte dalla latina, e come spesso le lingue derivate trovano nelle varie parole della madre lingua i significati necessarj che essa non poteva somministrare. I Romani, quegli imperiosi conquistatori del mondo, arbitrarj ed inesorabili nelle loro decisioni, assoluti e positivi nelle loro risposte, mancavano (chi il crederebbe?) della particella affermativa. Avevano il no; ma non avevano vocabolo esclusivamente appropriato a dir sì. I loro storici, oratori e poeti, per più eleganza e più forza, esprimevano l'affermazione positiva con due negative. Ma da' loro comici e scrittori di dialoghi appare che nel discorso famigliare avevano ricorso ora al pronome hoc, ora ai verbi ajo ed est, or agli avverbj maxime, utique, ita, sic, imo, e siffatti; donde anco nel Vangelo di S. Matteo, a significare men vagamente il precetto «le vostre parole sieno schiette; dite sì o no», l'autore, o il traduttore fu costretto a scrivere: «Sit sermo vester: Est Est, Non Non.» Diciamo l'autore, perchè noi crediamo che il nuovo Testamento sia stato originalmente scritto in latino, e uno scrittore ci ha recentemente confermati in questa credenza con dottrine e argomenti, che, al nostro parere, non possono esser confutati. Nondimeno la questione di sua natura non ammette termini di conciliazione fra' disputanti; e noi non l'abbiamo toccata se non perchè giova a illustrare il nostro soggetto, e aggiungere prove al fatto singolarissimo della varietà della particella affermativa fra popoli, fra quali le religioni, le colonie e le leggi romane e parecchi secoli di dominio avevano introdotta e stabilita la stessa lingua.
 
L'hoc (questo) prevalse nel mezzodì della Francia, e fu pronunziato e scritto oc; e nella Francia settentrionale l'utique (di certo) forse dapprima accorciossi in uti, come in tutte le lingue avviene ad ogni parola che è perpetuamente usata nel discorso; - poscia per la stessa ragione in ui; - e perchè i Romani pronunziavano, com'oggi pur fanno gl'Italiani, la u come l'ou de Francesi, la parola finì ad essere scritta oui. Finalmente il sic, (così), perdendo anch'esso una lettera, diventò sì, e si perpetuò come voce esclusiva di affermazione de' Siciliani e degl'Italiani: quindi venne il nome alla provincia della Linguadoca; e il verso di Dante:
<poem> ''Del bel paese là dove 'l sì suona''
</poem>
allude all'Italia.
 
La più celebre delle tre nuove lingue, e che fino dal secolo X era stata la prima a rallegrare di poesia e d'armonia le triste città dell'Europa, e a rammollire i duri costumi e le truci passioni di quella età, celebrando
Le Donne, i Cavalier, gli affanni e gli agi