Arabella/Parte quarta/2: differenze tra le versioni

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'''I conti di Ferruccio'''
Se ad Arabella il denaro avesse potuto portare una consolazione, c'era da ringraziarne la Provvidenza; ma questa sovrabbondanza di fortuna e di ricchezza la rendeva annoiata, stanca, disgustata, e solamente per non parer cattiva rassegnavasi a leggere e a passare dei mucchi di carte, e a stendere coll'aiuto di papà Paolino dei prospetti e dei bilanci meravigliosi. Quanti denari aveva lasciato dietro di sé il vecchio! che se avessero potuto parlare... ma Arabella, socchiudendo gli occhi, cercava di cacciare questi pensieri come si caccia lontano una tentazione. A che pro' indagare l'origine delle cose che non cangiano? a che pro' logorarsi la coscienza in una filosofia che non serve a nulla? non erano tutti contenti e soddisfatti?
La prima volta che Ferruccio venne alle Cascine, essa lo tirò in disparte, e, consegnatogli un biglietto di cento lire, gli disse:
"Provveda ai primi bisogni di suo padre, e mi porti un prospetto di quel che posso fare per i poveri della parrocchia, per la povera Stella, e in suffragio del defunto. Poiché abbiamo sofferto tanto per colpa di questo denaro non tardiamo a cavarne quel bene che si può. Lei pure avrà avuto delle spese in questi giorni. Ho bisogno d'essere istruita e di nessuno mi fido più che di lei. Se può stendermi un minuto rapporto di tutta l'azienda col reddito e cogli obblighi relativi, cercherò di entrare anch'io in questa selva di numeri, per quel poco di bene che posso fare. Ne parli anche con mio marito. Spero che lei vorrà restare con noi, finché ne avremo bisogno, o almeno finché non abbia trovato da collocarsi meglio..."
"Non so, vedremo..." balbettò il giovane facendosi rosso in viso.
"Non si cacciano via i galantuomini" soggiunse la signora sorridendo.
E dopo un momento di riflessione riprese a dire:
"Noi abbiamo patito insieme..."
"Oh sì, e devo a lei se non ho commesso del male..." continuò Ferruccio con sincero entusiasmo.
"Il male non fa mai bene, come ha visto. Ne abbiamo sofferto tutti, colpevoli e innocenti, e chi sa se avremo finito! Il male è un numero sbagliato, che rende falsi tutti gli altri numeri e falsa la somma totale. Uso un paragone d'aritmetica per farle vedere che comincio anch'io a far pratica coi numeri e cogli affari."
Ferruccio se ne partiva sempre, dopo questi discorsi, colla mente turbata, ansioso di tornare a Milano come chi, sognando una colpevole compiacenza, è tratto dal naturale rimorso a svegliarsi e a cercare la luce. Ma una volta a Milano, i ciottoli della città diventavano per lui carboni accesi, gli pareva di vivere colla testa, ma senza cuore. Il cuore era là, alle Cascine, che sanguinava, che lo chiamava.
Non gli era mai sembrata così serenamente bella, così in colore, così calma e padrona di sé, così forte, di una fortezza dolce e terribile. I pretesti per tornare alle Cascine non gli mancavano. E nell'attesa lusingava e faceva tacere la morbosa inquietudine, lavorando faticosamente a redigere il rapporto della situazione finanziaria della casa, un'azienda che, se era ordinata e scritta nella testa del signor Tognino come in un libro, offriva molte lacune e molti gruppi non facili a essere sciolti. Nella selva del bilancio e delle cifre, Ferruccio penetrò con una specie di voluttà, come chi sfonda arbusti spinosi e ortiche per arrivare a cogliere un mesto ciclamino sull'orlo di una roccia.
A questo turbamento doloroso non osava più dare un nome. Ha la lingua umana le parole per questi misteri così profondi? vi può essere una definizione dell'infinito? Possono gli occhi leggere ciò che una mano misteriosa scrive nel buio?
Qualche volta usciva di casa la mattina per portare delle carte all'avvocato, o per recarsi allo studio; e mentre il pensiero seguiva l'oggetto o la pratica, come si suol dire nel gergo del mestiere, il tram di Lodi lo trasportava alle Cascine, come una forza che lo sottraesse e lo rapisse a un còmpito noioso, per avvicinarlo a un dolce spettacolo.
Capiva però che questo giuoco non poteva durar molto. Era necessario ch'egli se ne ritraesse prima che diventasse crudele, come ogni bel giuoco tirato in lungo. E siccome sentiva parlare del Corpus Domini come di un giorno stabilito per mettere una gran pietra sul passato, stabilì anche lui e si abituò a considerare quel giorno come l'estremo termine di una gioconda "ferie" giovanile, come la chiusa d'un fantastico poema ch'egli aveva scritto solamente per sé. Che cosa sarebbe stato di lui dopo quel giorno non andava a cercare. A che pro? Chi può essere indovino del domani? Ma ad ogni modo egli doveva ritrarsi da una strada erta e pericolosa, dove molti più forti e più temerari di lui lasciano spesso la vita e l'onore. Non osava guardare in faccia ai pazzi pensieri che gli passavano pel capo. C'era da farsi compatire, da farsi fischiare da tutto Milano. C'era da morir dalla vergogna, se lei avesse potuto leggergli nel cuore.
Il ragazzo che non aveva saputo trovar la sua strada nel mondo, il figlio del portinaio, il mezzo chierico, il commesso a sessanta lire, in certi sogni esaltati correva a immaginare ch'egli potesse salvare o almeno difendere la buona signora dagli oltraggi della gente, rapirla, fuggire con lei in un paese lontano, al di là dei mari, contrastarla alla violenza e all'egoismo, come gli antichi cavalieri dell'Ariosto, che contro cento mostri combattevano da soli, vestiti d'armi lucenti e incantate.
Ma eran sogni: forse era meglio voltare le spalle alla tentazione. Da qualche tempo il padre Barca andava discorrendo di un posto di compilatore e redattore di un giornaletto cattolico, che una pia associazione di Genova voleva impiantare coll'aiuto di una ditta libraria di là. E insisteva presso la Colomba perché persuadesse il nipote ad accettare. Da cosa nasce cosa: il giornale poteva condurre la bottega, e colla buona volontà, cogli studi fatti, con buoni appoggi, Ferruccio era sicuro di farsi una posizione nobile e indipendente.
Bisognava aver del coraggio e decidersi: ma non osava dirlo a lei. Tutte le volte che il discorso rasentava questo argomento, egli affrettavasi a confondere le parole, per paura di dir troppo.
Un giorno il signor Lorenzo lo incaricò di consegnarle una lettera che aveva messo insieme coll'aiuto letterario e filosofico della zia Sidonia. Chiedeva perdono, si dichiarava pentito, prometteva una vita nuova; la morte di suo padre era stato un tremendo castigo per lui; sentiva il bisogno di rifugiarsi in campagna, di mettersi a lavorare, di fare il contadino, e pregava Arabella di scrivergli una parola di perdono prima del Corpus Domini, tanto che egli avesse coraggio a presentarsi e potesse accettare l'invito della mamma.
Ferruccio aveva finita la lunga e bella relazione finanziaria, a cui aggiunse un prospetto riassuntivo, scritto con due inchiostri e con molti bei fregi e svolazzi calligrafici: un capolavoro. Intendeva con questo bilancio di chiedere il suo congedo... e di non lasciarsi più vedere. Dalle parole del signor Lorenzo aveva capito che egli era mandato ambasciatore di pace: e anche lui aveva bisogno di pace.
Arrivò alle Cascine che non aveva ancora messe insieme le quattro parole necessarie per dare alla signora le sue dimissioni: e si affrettò a cambiar idea. Le avrebbe scritto da Genova. Quel suo fuggire improvviso, non giustificato, o confusamente giustificato, avrebbe dovuto far senso, ed era appunto in questo non so che di strano e di violento che essa avrebbe cercato delle ragioni; e forse tra le molte avrebbe trovata quell'una, che egli non poteva dire; e l'avrebbe compatito... sorridendo; ma l'avrebbe compatito, povero ragazzo!
"È uscita" disse il Pirello. "Se vuol parlarle, la troverà presso la Colorina a pitturare."
Ferruccio prese la stradicciuola che costeggiando il canale, mena alla chiesetta in mezzo ai campi. Le siepi mandavano un acuto profumo di robinia fiorita. La strada molle ancora per un'allegra pioggerella notturna, sentendo il caldo del sole, esalava anch'essa il buon odore della terra umida, correndo tortuosa tra il canale e un'alta siepe fino al ponticello dei mattoni, coperto da un bel gruppo di piante. Seduta sopra una delle basse sponde del ponte, Arabella stava schizzando sull'albo quella parte dell'abbazia, che usciva nell'apertura della stradicciuola, tra due pioppi che facevano da cornice sopra lo sfondo sereno del cielo.
Essa non si accorse del giovine, se non quando questi le fu vicino; e per un istante egli rimase dietro di lei in silenzio, non vedendo innanzi a sé che il bagliore della luce diluita nel verde dei prati.
"Oh..." esclamò per la prima, e non poté nascondere un improvviso turbamento. "Mi ha fatta una paura..."
"Sono così terribile?" si sforzò di aggiungere per tenere il discorso allegro e indifferente.
"Che novità a Milano? non posso dirle di accomodarsi, ma se si mette là, sul muricciuolo, finisco questo disegno..."
"Non sapevo che ella fosse così brava..." riprese il giovine, meravigliandosi con se stesso di sentirsi così coraggioso stamattina.
Era il coraggio di chi perde gli ultimi quattrini in un gioco disgraziato, e che, sapendo di non poter più pagare, arrischia anche quello che non ha.
"So far di meglio, per sua regola..." rispose Arabella ridendo, senza togliere mai gli occhi dal disegno.
Vestita di un abito scuro di lutto, con in testa un cappelluccio tondo di paglia scura, il collo e l'ovale del viso spiccavano d'una bianchezza di smalto. Qualche fiamma di sole, passando attraverso le foglie degli alberi che facevan testa al ponte, accendeva di tenero splendore i capelli accomodati colla massima semplicità. A un soffio d'aria cento fiammelle d'oro l'investivano dando alla sua gentile persona una bellezza spirituale. Questa almeno fu l'impressione che Ferruccio, seduto in faccia sull'altro muricciuolo rosicchiato del ponte, ne ricevette, mentre ardiva contemplarla, quasi senza paura, per tutto il tempo che rimasero soli sulla strada deserta, nel dolce silenzio dei campi. L'acqua molle e verdognola del canale passava silenziosa sotto i loro piedi, scendendo a dare a bere ai prati. Tratto tratto un frullo d'ale. Un passero scendeva a saltellare sulla strada come se non ci fosse nessuno, e volava via.
"Ho una lettera del signor Lorenzo per lei."
"Lo vede spesso?"
"Quasi tutti i giorni."
Arabella sollevò gli occhi sull'abbazia e parve dimenticarsi.
"Lei sa come sono stata offesa."
"Lo so, poverina. Son cose che non si capiscono."
"Eppure dicono che è una storia così comune. I romanzi non parlano che di tradimenti e di vittime. Legge lei dei romanzi?"
"Non ne ho mai letti. Finché studiavo da prete era proibito; e poi ho dovuto pensare alle mie tragedie."
"Ora è guarito..."
"Sì, per grazia di Dio; ma per poco quel cane di uno sbirro non mi rompeva la testa. Vede ancora il segno?" Ferruccio indicò una lunga cicatrice sulla fronte, alla radice dei capelli tagliati corti. "Ma credo che il maggior male non sia la ferita: la morte vien sempre dal cuore. Per fortuna ci sono delle anime buone a questo mondo..."
"Ci sono?" provò a chiedere Arabella, con un leggerissimo tono di scetticismo.
"Sì, ci sono. Guai a noi se non ci fossero. Che conforto avrebbero le anime che soffrono? Crede che nessuno abbia avuto compassione di lei? Quel giorno che ho aiutato a portarla in casa, pensando che fosse morta, ho pianto; quasi ho pregato che fosse morta davvero."
"Perché?"
"Non so spiegarmi. Mi pareva allora che a una morta si potesse voler bene più che a una viva."
Arabella tornò a fissare gli occhi lontano, e mormorò, rispondendo quasi a una lunga questione che ella facesse dentro di sé:
"Può essere."
Ferruccio, colpito dalla gravità delle parole che gli erano uscite di bocca, quasi venisse meno a un tratto l'esaltazione dolente che l'aveva fatto parlare, si curvò sul muretto, e fissò gli occhi nell'acqua, provando la vertigine d'essere anche lui trascinato lentamente col ponticello e colle piante verso i prati. Chi aveva parlato per lui? La Colomba avrebbe potuto dire che aveva parlato in lui la sua mamma. Ma a Ferruccio era sconosciuta questa legge, per la quale lo spirito dei morti parla nei vivi. Si sentì a un tratto meschino e colpevole. Non osava più sollevare gli occhi in faccia a lei, che, chiusa in un freddo silenzio, continuava a giudicarlo, e a castigarlo, tacendo. Essa gli pareva lontana lontana: non la vedeva quasi più.
"Non so se mio marito abbia pensato anche all'Augusta. Gli faccia memoria. Se l'Augusta vuol rimanere ancora con noi, potremo combinarci. Di tornare a Milano non si parla, per ora, né io lo desidero. Mi ha preparata la relazione?"
Furono queste parole così fredde e precise, di una importanza così pratica, pronunciate con grave lentezza, che richiamarono Ferruccio alla realtà della sua sorte e gli dimostrarono quel ch'egli era di fronte alla signora. Arrossì come il fuoco: si mosse, balbettò qualche parola sconnessa, e, presentando la lettera e la relazione, disse:
"Se lei mi comanda..."
Arabella gli stese la mano, ch'egli strinse nelle sue, e portò alle labbra come l'altra volta, mentre grosse lagrime di dolore e di pentimento gli solcavano le gote