Don Chisciotte della Mancia/Capitolo XXVII: differenze tra le versioni

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Arrivarono il giorno seguente al luogo dove Sancio aveva lasciato i segnali dei rami che dovevano guidarlo al padrone, e quando li riconobbe, disse loro che la mèta era vicina, e che potevano cominciare a travestirsi, poichè giudicavano che fosse per il bene del suo padrone.
Questo discorso di Sancio si riferiva a quanto gli avevano detto il curato ed il barbiere, che, cioè, grazie a quel travestimento, avrebbero tolto il suo padrone dalla trista vita a cui si era dato, raccomandandogli infine di non tradirli mai e di fingere sempre di non conoscerli. E qualora (come era ben naturale) gli domandasse se avesse ricapitata la lettera a Dulcinea, lo assicurasse di averlo fatto, ma che, non sapendo essa scrivere, gli aveva risposto a voce, che gli comandava, sotto pena d'incorrere nella sua disgrazia, di recarsi subito da lei per cosa importantissima e urgente. Erano persuasi che un comando di Dulcinea, insieme a quanto essi avevano pensato di fare, avrebbe potuto ricondurlo a miglior consiglio; ed assicurarono Sancio che in questo modo avrebbero messo il suo padrone sulla vera strada da farsi imperatore e monarca; perché, quanto al diventare arcivescovo, non era da pensarci. Ascoltò Sancio ogni cosa, e se la impresse ben bene in testa, ringraziandoli vivamente della premura che si davano, affinchè il suo padrone diventasse imperatore e non arcivescovo, essendo egli convinto che, per compensare largamente gli scudieri, fossero più a proposito gl'imperatori che gli arcivescovi erranti. Soggiunse pure che sarebbe stato opportuno ch'egli li precedesse, recando a don Chisciotte la risposta della sua signora, che forse basterebbe da sola a farlo allontanare di là, senza ch'essi si prendessero altre brighe. Persuasi di questo, decisero di aspettarlo fino a tanto che fosse ritornato con la notizia d'aver ritrovato il suo padrone. S'internò egli, dunque, nella montagna, lasciando il curato ed il barbiere in un luogo dove scorreva un grazioso ruscello cui facevano grata e fresca ombra collinette amene ed alberi frondosi. Il giorno in cui vi arrivarono era uno dei più caldi del mese di agosto, che in quelle parti è ardentissimo, ed erano le tre del pomeriggio. Il luogo era piacevolissimo, e punto noiosa l'attesa del ritorno di Sancio. Seduti all'ombra, udirono una voce che, senza essere accompagnata da nessuno strumento, era dolce e ben modulata. Se ne meravigliarono molto, giacché quelli non parevano luoghi da udirvi canti tanto soavi. E veramente, quantunque si dica che per le selve e pei campi s'incontrino pastori capaci di modulare canti maravigliosi, sono piuttosto fantasie di poeti che verità. Crebbe in loro la meraviglia quando si accorsero che i versi cantati non erano proprii di gente rustica, ma di cittadini coltissimi; e in questa opinione li confermò vie più il canto seguente :
 
« Chi m'ha rapita la mia pace? -- II Dispetto.
 
Chi raddoppia il mio dolore? — La Gelosia.
 
Chi mette a prova la mia pazienza? — L'Assenza.
 
E così non vedo alcun rimedio al mio affanno, poiché me ne tolgono ogni speranza, Dispetto, Gelosia ed Assenza.
 
Chi mi cagiona questo dolore? - Amore.
 
Chi contrasta la mia felicità? - - Fortuna.
 
Chi permette il mio affanno? — II Cielo.
 
E cosi io debbo prepararmi a morire di questo male, poiché a' miei danni congiurano Amore, Fortuna, il Cielo.
 
Chi può mitigar la mia sorte? - Morte.
 
E chi ottiene felicità in amore? — L'Incostanza.
 
E chi ne guarisce gli affanni? — La Follia.
 
E così non è buon consiglio voler guarir la passione, quando i soli rimedii sono Morte, Incostanza, Follia ».
 
L'ora, il tempo, la solitudine, la voce e la maestria del cantore ispirarono ammirazione e diletto ai due che lo intesero, e che rimasero immobili in ascolto se il canto continuasse; ma poiché il silenzio si potraeva lungamente, pensarono di andare in traccia del bravo cantore. Ma ad un tratto la voce canora ricominciò:
 
« Santa amicizia, che lasciando la tua apparenza nel mondo, con leggere ali salisti all'empireo soggiorno, fra le anime benedette nel cielo;
 
Donde, quando ti piace, ci mostri la vera pace coperta di un velo, a traverso il quale traspar l'ardore delle buone opere, che poi si fanno malvàge;
 
Lascia, deh ! il cielo all'amicizia, e non permettere che l'inganno vesta le tue sembianze, distruggendo così ogni sincera intenzione.
 
Se tu non le strappi la tua maschera, ben tosto il mondo si vedrà nel caos della confusione primitiva ».
 
Un profondo sospiro die fine a quel canto; e il curato e il barbiere acuirono la loro attenzione, sperando che ricominciasse; ma udendo che la musica s'era convertita in singulti e in dolorosi lamenti, procurarono di sapere chi fosse quell'infelice, la cui voce era tanto delicata, quanto n'erano dolorosi i sospiri; né andò molto che, girando dietro alla punta di un masso, incontrarono un uomo della statura e della figura descritta loro da Sancio, quando fece il racconto dell'avventura di Cardenio. Quest'uomo non fece, vedendoli, alcun atto di maraviglia, né si mosse per sottrarsi ai loro sguardi; ma si presentò loro innanzi, come tutto assorto in gravi pensieri, a testa bassa e senza mirarli, benché colto all'improvviso. Il curato, che sapeva dire quattro parole in ogni occasione, (poiché non ignorava la sua sventura, e lo riconobbe a quel che aveva udito di lui), gli si avvicinò, e con poche parole molto prudenti lo pregò di abbandonare una vita infelice, per non perderla fra quegli orrori; ciò che sarebbe stato il maggiore di tutti i mali. Era quello, per Cardenio, un lucido intervallo, una tregua da quegli accessi furiosi che tanto di frequente lo traevano fuori di sé; e perciò, vedendo quei due in vesti sconosciute agli abitatori di quelle solitudini, se ne mostrò alquanto stupito, e più si stupì sentendo parlare dei casi suoi come di cosa conosciuta pubblicamente, come risultava dalle parole del signor curato. Rispose, pertanto, in questa maniera:
 
— Comprendo assai bene, o signori, chiunque voi siate, che il cielo, soccorrevole ai buoni e talora anche ai malvagi, vi manda a me senza mio merito in questi luoghi deserti e lontani dal commercio degli uomini; e comprendo che lo scopo a cui foste mandati si è di persuadermi con vere e sode ragioni che io debba abbandonare il presente mio tenore di vita: ma voi non sapete che, togliendomi io dalle mie sciagure presenti, mi imbatterei in altre molto peggiori. Mi stimerete perciò un uomo che ragiona assai debolmente e che ha poco sano intendimento. Ebbene, questa vostra opinione non mi maraviglia, perché vedo io stesso che il ricordo continuo delle mie disgrazie tende a rovinarmi, e senza ch'io lo possa scacciare, rimango, come pietra, privo di ragione e di buon senso. Di questo mi accorgo quando qualcuno dice e mi mostra quel che ho fatto durante i formidabili accessi che mi assalgono, così che non mi resta che dolermi inutilmente e inutilmente maledire la mia sventura, e scolparmi alla meglio coll'accusarne la causa, a chi ha voglia di conoscerla. Certamente, gli