Pagina:Le confessioni di un ottuagenario II.djvu/546: differenze tra le versioni

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vezzo; del resto non sapeva da qual banda cominciare per ridurre a donna di garbo una tale fraschetta. Confesso che m’immaginava di scoprire un giorno o l’altro delle assai brutte cose sotto quella vernice di santità, non mai peraltro quella sfrontata e ingenua frivolezza che ci aveva trovato.
vezzo; del resto non sapeva da qual banda cominciare per ridurre a donna di garbo una tale fraschetta. Confesso che m’immaginava di scoprire un giorno o l’altro delle assai brutte cose sotto quella vernice di santità, non mai peraltro quella sfrontata e ingenua frivolezza che ci aveva trovato.


L’Aquilina fu per diventar pazza alla contezza ch’io le diedi per lungo e per largo di tutto il marrone. Non volea credere sulle prime, ma aveva le tre letterine in tasca e se ne persuase; allora prese a gridare e a graffiarsi il viso colle unghie, che guai per la Pisana se le capitava fra le mani! — Ma io la trattenni, e giunsi a poco a poco a calmarla, sicchè pensammo anche al modo di troncare senza chiasso quell’amoruzzo e di assicurarci meglio dei costumi della ragazza con un metodo diverso d’educazione. Quanto al licenziare quell’Enrico, che era in verità un capo da galera, si decise che era meglio lasciare l’incarico a lei come quella risoluzione venisse spontanea dalla sua volontà, e noi nè ci entrassimo nè sapessimo nulla. Poi si pensò di cambiar tutte le donne di servizio, alla compagnia delle quali io attribuiva non senza ragione la strana leggerezza con cui quella mattina mi aveva parlato. Conducendola meno a teatro e in mezzo alla gente, invogliandola a letture piacevoli e salutari, io mi lusingava di ottener qualche cosa; non nascondeva peraltro all’Aquilina che il guasto era più profondo di quanto non mi sarei mai immaginato, e che ogni rimedio avrebbe potuto essere inutile. Mia moglie mi dava sulla voce per questo mio scoramento soggiungendo che alla fine poi era una scappata più che di cattiveria d’inesperienza, e ch’ella scommetteva senz’altro di rendere la Pisana così ragionevole e posata che in un mese avrei stentato a riconoscerla.
L’Aquilina fu per diventar pazza alla contezza ch’io le diedi per lungo e per largo di tutto il marrone. Non volea credere sulle prime, ma aveva le tre letterine in tasca e se ne persuase; allora prese a gridare e a graffiarsi il viso colle unghie, che guai per la Pisana se le capitava fra le mani! — Ma io la trattenni, e giunsi a poco a poco a calmarla, sicchè pensammo anche al modo di troncare senza chiasso quell’amoruzzo e di assicurarci meglio dei costumi della ragazza con un metodo diverso d’educazione. Quanto al licenziare quell’Enrico, che era in verità un capo da galera, si decise che era meglio lasciare l’incarico a lei come quella risoluzione venisse spontanea dalla sua volontà, e noi nè ci entrassimo nè sapessimo nulla. Poi si pensò di cambiar tutte le donne di servizio, alla compagnia delle quali io attribuiva, non senza ragione, la strana leggerezza con cui quella mattina mi aveva parlato. Conducendola meno a teatro e in mezzo alla gente, invogliandola a letture piacevoli e salutari, io mi lusingava di ottener qualche cosa; non nascondeva peraltro all’Aquilina che il guasto era più profondo di quanto non mi sarei mai immaginato, e che ogni rimedio avrebbe potuto essere inutile. Mia moglie mi dava sulla voce per questo mio scoramento, soggiungendo che alla fine poi era una scappata più che di cattiveria d’inesperienza, e ch’ella scommetteva senz’altro di rendere la Pisana così ragionevole e posata, che in un mese avrei stentato a riconoscerla.


— L’ha un tal fondo di religione — diceva ella — che soltanto a richiamarle alla memoria i suoi doveri, si
— L’ha un tal fondo di religione — diceva ella — che soltanto a richiamarle alla memoria i suoi doveri, si