Pagina:Le confessioni di un ottuagenario I.djvu/94: differenze tra le versioni

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{{Pt|tiva|sentiva}} gran fatto riconoscente di questa distinzione, sapeva prender le mie misure in modo, che chi mi dava la caccia tornava il più delle volte colle mani vuote alla sacristia. Di consueto io mi rifugiava presso messer Germano, e non usciva dal suo buco se non quando era suonata l’ultima campanella. In quel frattempo avevano già messa la cotta a Noni o a Menichetto, i quali coi loro zoccoli di legno correvano sempre il pericolo di rompersi il naso sugli scalini nel cambiar di posto il messale; ed io entrava in chiesa sicuro di averla scapolata. Siccome poi queste mie arti furono in breve scoperte, così me ne toccarono molte ramanzine per parte di monsignore dinanzi al focolare di cucina; ma io mi scusava della mia ripugnanza dicendo che non sapevo il ''confiteor''. E infatti per giustificare questa mia scusa, le poche volte che era beccato, aveva sempre l’accorgimento di tornar a capo una volta giunto al ''mea culpa'', e per due, tre e quattro volte ripeteva una tale manovra, finchè monsignore impazientato lo finiva lui. Quei giorni nefasti aveva poi la compiacenza di star chiuso in un camerino sotto la colombaja, col libricciolo della messa, un bicchier d’acqua, ed un pane bigio fino a un’ora innanzi i vespri. Io mi divertiva immolando il libro nell’acqua e sminuzzolando il pane ai piccioni; e poi quando Gregorio, il cameriere di monsignore, veniva a sprigionarmi, correva da Martino presso il quale era certo di trovare il mio pranzo. Peraltro durante quelle ore avevo il dispetto di sentir la voce della Pisana che si trastullava cogli altri ragazzetti senza darsi melanconia pel mio carceramento; e allora mi prendeva una tal bile contro il ''confiteor'', che lo faceva in pallottole e lo gettava giù nel cortile sopra quei birboncelli, assieme a quanti sassuoli e calcinacci potea raccattar nei canti e raspar dalle muraglie colle unghie. Talvolta anche squassava con quanta forza poteva la porta, e le dava addosso coi gomiti, coi piedi e colla testa; e
{{Pt|tiva|sentiva}} gran fatto riconoscente di questa distinzione, sapeva prender le mie misure in modo, che chi mi dava la caccia tornava il più delle volte colle mani vuote alla sacristia. Di consueto io mi rifugiava presso messer Germano, e non usciva dal suo buco se non quando era suonata l’ultima campanella. In quel frattempo avevano già messa la cotta a Noni o a Menichetto, i quali coi loro zoccoli di legno correvano sempre il pericolo di rompersi il naso sugli scalini nel cambiar di posto il messale; ed io entrava in chiesa sicuro di averla scapolata. Siccome poi queste mie arti furono in breve scoperte, così me ne toccarono molte ramanzine per parte di monsignore dinanzi al focolare di cucina; ma io mi scusava della mia ripugnanza dicendo che non sapevo il ''confiteor''. E infatti per giustificare questa mia scusa, le poche volte che era beccato, aveva sempre l’accorgimento di tornar a capo una volta giunto al ''mea culpa'', e per due, tre e quattro volte ripeteva una tale manovra, finchè monsignore impazientato lo finiva lui. Quei giorni nefasti aveva poi la compiacenza di star chiuso in un camerino sotto la colombaja, col libricciolo della messa, un bicchier d’acqua, ed un pane bigio fino a un’ora innanzi i vespri. Io mi divertiva immolando il libro nell’acqua e sminuzzolando il pane ai piccioni; e poi quando Gregorio, il cameriere di monsignore, veniva a sprigionarmi, correva da Martino presso il quale era certo di trovare il mio pranzo. Peraltro durante quelle ore avevo il dispetto di sentir la voce della Pisana che si trastullava cogli altri ragazzetti senza darsi melanconia pel mio carceramento; e allora mi prendeva una tal bile contro il ''confiteor'', che lo faceva in pallottole e lo gettava giù nel cortile sopra quei birboncelli, assieme a quanti sassuoli e calcinacci potea raccattar nei canti e raspar dalle muraglie colle unghie. Talvolta anche squassava con quanta forza poteva la porta, e le dava addosso coi gomiti, coi piedi e colla testa; e
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