Pagina:Le confessioni di un ottuagenario I.djvu/502: differenze tra le versioni

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{{Pt|zia|giustizia}} sarà fatta... ma nel frattempo restate in piazza tranquilli ad aspettarmi.
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— In piazza, in piazza!... Viva il signor Carlino! viva l’Avogadore!... Abbasso san Marco!... Viva la libertà!
— In piazza, in piazza!... Viva il signor Carlino! viva l’Avogadore!... Abbasso san Marco!... Viva la libertà! 


In tali grida la folla rovinò tumultuosa verso la piazza, a saccheggiare qualche botteguccia di panettiere e d’erbivendola; ma il chiasso era maggiore della fame e non ci furono guai. Alcuni de’ più diffidenti rimasero per vedere se il vice-capitano atteneva le sue promesse; io scavalcai con tutto il piacere, consegnai il ronzino ad uno di loro, e attesi alla porta che mi aprissero. Infatti, con ogni accorgimento di prudenza un caporale di Schiavoni aperse una fessura, ed io vi entrai di sbieco; e poi si rimisero le sbarre e i catenacci come proprio se volessero tenermi prigione. Quel fracasso di serramenti e di chiavistelli mi diede un qualche sospetto, ma poi mi ricordai di essere un personaggio importante, un avogadore, e salii le scale a testa ritta e col braccio inarcato sul fianco, come appunto se avessi in tasca tutto il mio popolo pronto a difendermi. Il capitano rientrato premurosamente dalla loggia mi aspettava in una sala fra una combriccola di scrivani e di sbirri che non mi andò a sangue per nulla. Egli non aveva più quella cera umile e compiacente mostrata alla turba un cinque minuti prima. La fronte arcigna, il labbro arrovesciato, e il piglio sbrigativo del vice-capitano non ricordavano per nulla il pallore verdognolo, gli sguardi errabondi, e il gesto tremante della vittima. Mi venne incontro baldanzosamente chiedendomi:
In tali grida la folla rovinò tumultuosa verso la piazza, a saccheggiare qualche botteguccia di panettiere e d’erbivendola; ma il chiasso era maggiore della fame e non ci furono guai. Alcuni de’ più diffidenti rimasero per vedere se il vice-capitano atteneva le sue promesse: io scavalcai con tutto il piacere, consegnai il ronzino ad uno di loro, e attesi alla porta che mi aprissero. Infatti con ogni accorgimento di prudenza un caporale di Schiavone aperse una fessura, ed io v’entrai di sbieco; e poi si rimisero le sbarre e i catenacci come se proprio volessero tenermi prigione. Quel fracasso di serramenti e di chiavistelli mi diede un qualche sospetto, ma poi mi ricordai di essere un personaggio importante, un avogadore, e salii le scale a testa ritta e col braccio inarcato sul fianco, come appunto se avessi in tasca tutto il mio popolo pronto a difendermi. Il capitano rientrato premurosamente dalla loggia, mi aspettava in una sala fra una combriccola di scrivani e di sbirri, che non mi andò a sangue per nulla. Egli non aveva più quella cera umile e compiacente mostrata alla turba un cinque minuti prima. La fronte arcigna, il labbro arrovesciato, e il piglio sbrigativo del vice-capitano non ricordavano per nulla il pallore verdognolo, gli sguardi errabondi, e il gesto tremante della vittima. Mi venne incontro baldanzosamente chiedendomi:


— Di grazia, qual è il suo nome?
— Di grazia, qual è il suo nome? 


Io lo ringraziai fra me di avermi sollevato dalla pena di interrogare il primo, giacchè proprio non avrei saputo a qual chiodo appiccarmi. Così stuzzicato nel mio amor proprio, alzai la cresta come un galletto.
Io lo ringraziai fra me di avermi sollevato dalla pena di interrogare il primo, giacchè proprio non avrei saputo a qual chiodo appiccarmi. Così stuzzicato nel mio amor proprio, alzai la cresta come un galletto.
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