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''Dallo scartafaccio segreto della contessa Livia''.
Ieri nel mio salotto giallo, mentre l’avvocatino Gino, con la voce rauca della passione lungamente repressa, mi susurrava nell’orecchio:
Trentanove anni!... tremo nello scrivere questa orribile cifra.
Diedi un colpetto leggiero con le mie dita affusolate sulla mano calda dell’avvocatino, la quale brancolava verso di me, e m’avviai per uscire; ma, spinta da non so quale sentimento (certo un sentimento lodevole di compassione e di amicizia), voltandomi sulla soglia, bisbigliai, credo, questa parola:
Ho bisogno di mortificare la vanità. Alla inquietudine, che rode la mia anima e che lascia quasi intatto il mio corpo, s’alterna la presunzione della mia bellezza:
Troverò, spero, un altro conforto nello scrivere i miei casi di sedici anni addietro, ai quali vado ripensando con acre voluttà. Lo scartafaccio, chiuso a tre chiavi nel mio scrigno segreto, non potrà essere visto da occhio umano, e, appena compiuto, lo getterò sul fuoco, disperdendone le ceneri; ma il confidare alla carta i vecchi ricordi deve servire a mitigarne l’acerbità e la tenacia. Mi resta scolpita in mente ogni azione, ogni parola e sopra tutto ogni vergogna di quell’affannoso periodo del mio passato; e tento sempre e ricerco le lacerazioni della piaga non rimarginata;
O che gioia, confidarsi unicamente a
Se non fosse dall’una parte la febbre delle vive ricordanze, dall’altra lo spavento della vecchiaia, dovrei essere una donna felice.
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Di venti anni ero, naturalmente, più bella. Non che le fattezze del mio volto sieno mutate, o che il mio corpo sembri meno svelto e flessuoso; ma negli occhi miei c’era una fiamma, che ora pur troppo si va smorzando. Il nero stesso delle pupille mi pare, a guardarlo bene, un poco meno intenso. Dicono che il sommo della filosofia consista nel conoscere se stessi: io mi studio con tanta trepidazione da tanti anni, ora per ora, minuto per minuto, che credo di conoscermi a fondo e di potermi proclamare una filosofessa perfetta.
Direi di avere toccato il colmo della mia bellezza (c’è sempre nel fiorire della donna un periodo breve di suprema espansione) quando avevo di poco varcato i ventidue anni, a Venezia. Era il luglio dell’anno 1865. Maritata da pochi giorni, facevo il viaggio di nozze. Per mio marito, che avrebbe potuto essere mio nonno, sentivo una indifferenza mista di pietà e disprezzo: portava i suoi sessantadue anni e l’ampia pancia con apparente energia; si tingeva i radi capelli e i folti baffi con un unguento puzzolente, il quale lasciava sui guanciali delle larghe macchie giallastre. Del rimanente, buon uomo, pieno, alla sua maniera, di attenzioni per la giovine sposa, inclinato alla crapula, bestemmiatore all’occorrenza, fumatore instancabile, aristocratico burbanzoso, violento verso i timidi e pauroso in faccia ai violenti, raccontatore vivace di storielle lubriche, che ripeteva a ogni tratto,
Lo avevo pigliato spontaneamente, anzi lo avevo proprio voluto io. I miei erano contrarii ad un matrimonio così male assortito;
Sino ai ventidue anni passati il mio cuore era rimasto chiuso. Le mie amiche, deboli in faccia alle lusinghe dell’amore sentimentale, m’invidiavano e mi rispettavano: nella mia freddezza, nella mia sdegnosa noncuranza delle parole tenere e delle occhiate languide vedevano una preminenza di raziocinio e di forza.
A sedici anni avevo assodata già la mia fama scherzando con l’affetto di un bel giovane del mio paese e disprezzandolo poi,
A Venezia rinascevo. La mia bellezza sbocciava intiera. Negli occhi degli uomini brillava, quando mi guardavano, un lampo di desiderio; sentivo le fiamme degli sguardi rivolti sulla mia persona anche senza vederli. Persino le donne mi fissavano in volto, poi mi ricercavano giù giù sino ai piedi, ammirando. Sorridevo come un regina, come una dea. Diventavo, nella contentezza della mia vanità, buona, indulgente, famigliare, spensierata, spiritosa: la grandezza del mio trionfo mi faceva quasi apparire modesta.
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La testa piantata superbamente sul collo robusto; le spalle non erano quadre e massiccie, ma scendevano giù con grazia; il corpo muscoloso, stretto nella divisa bianca dell’ufficiale austriaco, s’indovinava tutto, e rammentava le statue romane dei gladiatori.
Questo tenente di linea, il quale aveva solo ventiquattro anni, due più di me, era riuscito a divorarsi la ricca sostanza paterna, e continuando sempre a giuocare, a pagar donne, a scialarla da signore, nessuno oramai sapeva come vivesse; ma nessuno lo vinceva nel nuoto, nella ginnastica, nella forza del braccio. Non aveva mai avuto occasione di trovarsi in guerra; non amava i duelli, anzi due ufficialetti mi raccontarono una sera, che, piuttosto che battersi, aveva più volte ingoiato atrocissimi insulti. Forte, bello, perverso, vile, mi piacque. Non glielo lasciavo intendere,
Venezia, che non avevo mai vista e che avevo tanto desiderato di vedere, mi parlava più ai sensi che all’anima; i suoi monumenti, dei quali non conoscevo la storia e non intendevo la bellezza, m’importavano meno dell’acqua verde, del cielo stellato, della luna d’argento, dei tramonti d’oro, e sopra tutto della gondola nera, in cui, sdraiata, mi lasciavo andare ai più voluttuosi capricci della immaginazione. Nei calori gravi del luglio, dopo una giornata di fuoco, il ventolino fresco mi accarezzava la fronte andando in barca tra la Piazzetta e l’isola di Sant’Elena o, più lontano, verso Santa Elisabetta e San Nicolò del Lido: quello zeffiro, impregnato dell’acre profumo salso, rianimandomi le membra e lo spirito, pareva che bisbigliasse nelle mie orecchie i misteri fervidi dell’amor vero. Cacciavo nell’acqua sino al gomito il braccio nudo, bagnando il merletto che ornava la corta manica; e guardavo poi cadere una ad una dalle mie unghie le gocciole somiglianti a brillantini purissimi. Una sera tolsi dal dito un anello, dono di mio marito, dove splendeva un grosso diamante, e lo gettai lontano dalla barca in laguna: mi parve di avere sposato il mare.
La moglie del Luogotenente volle condurmi un giorno a vedere la galleria dell’Accademia di belle arti: non ci capii quasi nulla. Poi con i viaggi, con la conversazione dei pittori (uno, bello come Raffaello Sanzio, voleva ad ogni costo insegnarmi a dipingere) qualche cosa ho imparato; ma allora,
Mio marito fumava, russava, diceva male del Piemonte, comperava cosmetici: io avevo bisogno di amare.
Ora ecco in qual modo principiò la mia terribile passione per l’Alcide, per l’Adone in assisa bianca, il quale si chiamava con un nome che non m’andava a’ versi
Costumavo tutte le mattine di recarmi al bagno galleggiante di Rima, posto fra il giardinetto del Palazzo Reale e la punta della Dogana. Avevo preso per un’ora, dalle sette alle otto, una Sirena, cioè una delle due vasche per donne, grande quanto bastava per nuotarvi qualche poco, e la mia cameriera veniva a spogliarmi e a vestirmi; ma, siccome nessun altro poteva entrare, così non mi davo la briga di mettermi l’abito da bagno. La vasca, chiusa intorno da pareti di legno e coperta da una tenda cenerognola a larghe zone rosse, aveva il fondo di assi accomodato a tale profondità sott’acqua che alle signore di piccola statura rimanesse fuori la testa. A me restavano fuori le spalle intiere.
Oh la bella acqua smeraldina, ma limpida, sotto alla quale vedevo ondeggiare vagamente le mie forme sino ai piedi sottili! e qualche pesce piccoletto e argentino mi guizzava intorno. Nuotavo quant’era lunga la Sirena; battevo l’acqua con le mani aperte,
Sapevo che tutte le mattine, alle sette, il tenente Remigio vi andava a nuotare. In acqua era un eroe: saltava dall’alto a capo fitto, ripescava una bottiglia sul fondo, usciva dal recinto attraversando di sotto lo spazio dei camerini. Avrei dato non so che cosa per poterlo vedere, tanto m’attraevano l’agilità e la forza.
Una mattina, mentre guardavo sulla mia coscia destra una macchietta livida, forse una contusione leggiera, che deturpava un poco la bianchezza rosea della pelle, udii fuori un romore come di persona, la quale nuotasse rapidamente. L’acqua si agitò, la ondulazione fresca mi fece correre un brivido per le membra, e da uno dei larghi fori tra il suolo e le pareti entrò improvviso nella Sirena un uomo. Non gridai, non ebbi paura. Mi parve fatto di marmo, tanto era candido e bello; ma il suo ampio torace si agitava per il respiro profondo, e i suoi occhi celesti brillavano, e dai capelli biondi cadevano le gocciole come pioggia di lucenti perle. Ritto in piedi, mezzo velato dall’acqua ancora tremolante, alzò le braccia muscolose e morbide: pareva che ringraziasse i numi e dicesse:
Così principiò la nostra relazione; e d’allora in poi lo vidi ogni giorno o al passeggio, o al caffè, o al ristorante, dove mio marito, che aveva preso a volergli bene, lo invitava sovente. Lo vedevo anche in segreto, anzi via via i nostri colloqui misteriosi diventarono a dirittura quotidiani. Spesso si stava insieme una o due ore da solo a sola, mentre il conte dormiva tra la colazione ed il pranzo o andava a gironzare per la città, poi si passavano due o tre ore in compagnia pubblicamente, dandoci di sfuggita qualche stretta di mano.
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Questo avvocatino Gino mi secca. Guarda con certi occhi stralunati, che spesso mi fanno ridere, ma qualche volta mi fanno gelare; dice che non può più vivere senza la carità d’una mia parola d’affetto; implora, piange, singhiozza; mi va ripetendo:
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Quella giornata appunto Remigio aveva bisogno urgente, immediato di dugentocinquanta fiorini: mi accarezzava, mi diceva tante cose belle e con una voce così ardente d’amore, che mi sentii beata di potergli donare uno spillone di brillanti, il quale costava, se mi rammento bene, quaranta napoleoni d’oro.
Il dì seguente Remigio mancò all’appuntamento. Dopo avere passeggiato su e giù per certe callette al di là del Ponte di Rialto una ora buona,
Il soldato, zufolando, fece di sì con la testa.
Il soldato alzò le spalle ghignando.
Brontolò finalmente:
Compresi allora che il tenente Remigio era la mia vita. Il sangue mi si gelò, caddi quasi priva di sensi sul letto nella camera buia, e s’egli non fosse apparso in quell’istante all’uscio, il cuore in un parossismo di sospetti e di rabbia mi si sarebbe spezzato. Ero gelosa fino alla pazzia; avrei potuto diventare all’occasione gelosa fino al delitto.
Mi piaceva in quell’uomo la stessa viltà. Quando esclamava:
Due sole volte e per un solo istante l’avrei bramato diverso. Passavamo un giorno lungo una fondamenta che guarda la cinta dell’Arsenale. La mattina era allegra d’un sole abbagliante; alla sinistra spiccavano sull’aria turchina gli alti fumaiuoli a campana capovolta e le cornici candide e i tetti rossi, mentre sulla destra correva il lungo muraglione dei Cantieri, severo e chiuso.
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Gli occhi abbacinati riposavano in certe ombre cupe, lì dove si affondava un sottoportico o si stringeva una calle; e l’acqua brillava di tutti i verdi, rifletteva tutti i colori, si perdeva qua e là in buchi e striscie di un nero denso. Correvano e saltavano sulla fondamenta, la quale dalla parte del canale non aveva nessun riparo, dieci o dodici monelli, vociando a squarciagola. Ve n’erano di piccini e di grandetti. Uno dei piccoli, quasi nudo, grassotto, con i riccioletti biondi, che gli coronavano la faccia rosea e paffutella, faceva un chiasso da indemoniato, dando scappellotti, pizzicando i compagni e poi scappando via come un fulmine.
Mi fermai a guardare, mentre Remigio mi raccontava le sue grandezze passate. A un tratto quel diavoletto di bimbo, non potendo in una corsa precipitosa fermare il piede al ciglio della fondamenta, volò nel canale. S’udì uno strido ed un tonfo, poi subito intronarono l’aria le grida di tutti quanti i ragazzi e di tutte quante le donne, le quali prima se la discorrevano nella via o guardavano dalla finestra; ma in quel clamore dominava lo strillo acuto, disperato, straziante della giovine madre, che, slanciatasi ai piedi di Remigio, unico uomo presente a quella scena, urlava:
Intanto uno dei fanciulli più grandi s’era buttato in acqua, aveva pigliato per i ricci biondi il piccino e lo aveva tirato a riva. Fu un attimo. Lo stridìo si mutò in applauso frenetico; donne e ragazzi piangevano di gioia; la gente correva da tutte le parti a vedere, e il putto biondo guardava intorno con i suoi occhioni celesti, maravigliato di tanto baccano. Remigio con uno strappo violento mi cavò dalla folla.
L’altra volta che un poco il mio amante mi spiacque fu per questa cagione. S’era fatto udire nel caffè Quadri, ciarlando in tedesco a voce alta con alcuni impiegati tirolesi, a dir male dei Veneziani. Un signore, che stava in un canto, s’alzò di sbalzo, e piantandosi di contro a lui, che era in uniforme, gridò:
Quando seppi la cosa mi disperai: senza quell’uomo io non potevo vivere. Tanto feci presso la moglie del Luogotenente, e tanto si adoperò mio marito, sollecitato da me, presso il Governatore ed i Generali, che Remigio ottenne di venire mandato a Trento, dove io ed il conte dovevamo tornare appunto in quei giorni. Tutto fino allora era andato a seconda della mia cieca passione.
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Da tre mesi non vedo questo mio scartafaccio. Non mi sono attentata di portarlo in viaggio, e mi doleva, confesso, di averlo lasciato a Trento. Riandando nella memoria i casi di tanti anni or sono, il cuore torna a palpitare e sento un’aura calda di gioventù, che mi spira d’intorno. Il manoscritto è rimasto serrato a tripla chiave nel mio scrigno segreto, dietro all’alcova della mia camera; e stava chiuso con cinque suggelli in una grande busta, su cui, prima di partire, avevo scritto a grossi caratteri:
Ho avuto adess’adesso dalla cameriera una notizia, che mi ha disgustata: l’avvocatino Gino prende moglie.
Ecco la costanza degli uomini, ecco la saldezza delle passioni!
E chi sposa? Una scioccherella di diciotto anni, che i suoi parenti non hanno voluto condurre in casa mia,
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Nel dargli l’ultimo abbraccio gli gettai nella tasca un borsellino con cinquanta marenghi.
Il conte, ritornando dalla campagna, mi trovò, dieci o dodici giorni dopo la partenza di Remigio, smagrita e pallida. Soffrivo in realtà moltissimo. Di quando in quando sentivo delle accensioni alla testa e mi venivano dei capogiri, tanto che tre o quattro volte, barcollando, dovetti appoggiarmi alla parete o ad un mobile per non cadere. I medici, che mio marito, premuroso ed inquieto, volle consultare, ripetevano, stringendosi nelle spalle:
Eravamo alla metà dell’aprile ed oramai gli apprestamenti si facevano senza maschera: militari d’ogni sorta ingombravano le vie; marciavano i battaglioni al suono delle bande e dei tamburi; volavano sui loro cavalli gli aiutanti di campo; i vecchi generali, un po’ curvi sulla sella, passavano al trotto seguiti dallo Stato maggiore, baldo, brillante, caracollante. Quei preparativi mi riempivano di paure fantastiche. L’Italia voleva passare a fil di spada tutti quanti gli Austriaci; Garibaldi, con le sue orde di demonii rossi, voleva scannare tutti quelli che gli sarebbero capitati in mano: si presagiva un’ecatombe.
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Una mattina, all’alba, dopo una eterna notte di smanie, m’ero addormentata, quando a un tratto un romore mi sveglia; apro gli occhi e mi vedo accanto Remigio. Mi parve un sogno.
L’aurora illuminava già di luce lieve e rossastra la camera; scesi con un balzo dal letto per chiudere le tende dell’alcova, e si cominciò sotto voce a discorrere. Ero inquieta; il conte, che dormiva a due stanze d’intervallo, poteva sentire, poteva venire; i domestici potevano avere visto il mio amante entrare furtivamente a quell’ora. Egli mi rassicurò con poche parole impazienti: aveva picchiato, come altre volte, ai vetri della finestra terrena, dove la cameriera dormiva; ella pian piano gli aveva aperto il portone, ed era entrato senza che nessuno sospettasse di nulla. Della cameriera m’importava poco,
Rimasi accasciata; il mio cuore, pieno un minuto prima di gaie speranze, si riempì d’affanni e di paure.
Non risposi e mi sentii impallidire. Accortosi della impressione che mi avevano fatto le sue ultime parole, Remigio mi serrò tra le braccia di ferro, e mutato tono,
Mi prendeva le mani, e le baciava.
Ero già vinta. Andai alla scrivania a prendere le tre piccole chiavi dello scrignetto: temevo di far romore; camminavo in punta di piedi,
Costò quasi dodicimila lire. Troverai da venderlo?
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Remigio mi tolse di mano l’astuccio; guardò i gioielli e disse:
Mi piangeva il cuore. Il diadema specialmente mi stava tanto bene.
Cercai nello scrigno i napoleoni d’oro, che avevo messi in un mucchietto, e, senza contarli, glieli diedi. Mi baciò e, frettolosamente, fece per uscire. Lo trattenni. Con un atto d’impazienza mi respinse, dicendo:
La cameriera, infatti, attendeva in una stanza vicina.
Volevo dare un ultimo bacio all’amante mio, che amavo tanto: era già sparito.
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Tornai a letto e piansi tutto il giorno: l’energia della mia natura era fiaccata. Il medico la mattina appresso trovò che bruciavo e che avevo una gran febbre; ordinò il chinino, che non presi: avrei voluto morire. Una settimana intiera dopo la visita di Remigio la cameriera mi portò con la sua solita placidezza una lettera, che, appena vista, le strappai di mano rabbiosamente: avevo indovinato, era di lui, la prima dopo la sua partenza, e mi posi a leggerla con sì furiosa avidità che, giunta alla fine, dovetti ricominciare: non ne avevo capito nulla. Me la ricordo ancora oggi parola per parola, tante volte la lessi e tante volte i casi terribili, che la seguirono, me ne fecero risovvenire:
Amami sempre come io t’amo; appena la guerra sarà finita e questi cani di dottori, i quali mi costano un occhio della testa, m’avranno lasciato in pace, correrà ad abbracciarti, più ardente che mai, il tuo
REMIGIO„.
La lettera mi lasciò sconcertata e disgustata, così mi parve volgare; ma poi, nel tornarvi su, a poco a poco mi persuasi che il tono in cui era scritta fosse affettatamente leggiero e gaio, e che l’amante avesse fatto un crudele, ma nobilissimo sforzo nel contenere l’impeto del suo cuore, tanto per non gettare nuova esca nella mia passione, che era già un incendio, e per quietarmi un poco l’animo, ch’egli sapeva terribilmente ansioso. Ristudiai la lettera in ogni frase, in ogni sillaba. Avevo bruciate tutte le altre quasi appena ricevute; serbai questa in un taschino del portamonete, per cavarnela spesso quando ero sola, dopo avere serrato a chiave gli usci della stanza. Tutto mi confermava nella mia credenza benevola: quelle espressioni d’affetto mi apparivano tanto più potenti quanto più erano rapide, e quei periodi grossolani e cinici mi si presentavano alla fantasia sublimi di generoso sacrifizio. Avevo tanto bisogno di credere che la mia smania trovasse una scusa nella smania dell’altro; e la viltà di lui mi riempiva il seno d’entusiasmo,
Vivevo quasi nella solitudine. Già la mia società s’era andata via via restringendo,
Scrissi a Verona ad un generale che conoscevo, a due colonnelli, poi a qualcuno di quegli ufficialetti, i quali mi avevano tanto corteggiato a Venezia: nessuno rispose. Tempestavo Remigio di lettere; niente.
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Mio marito era in villa, e doveva starci una settimana. Suonai con furia; la cameriera non veniva; tornai a suonare; si presentò all’uscio il domestico.
Qualche minuto dopo entrò Giacomo sbigottito, abbottonandosi la livrea.
Stette un poco a pensare.
Giacomo faceva i suoi conti:
Giacomo sorrise con una cert’aria di benevola compassione:
Giacomo piegò il capo, rassegnato, ma non persuaso.
Giacomo, rannuvolato, s’inchinò ed uscì dalla stanza.
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All’alba ero in carrozza, e via. Avevo chiuso le tendine degli sportelli, e guardavo da un angolo ai fantaccini trafelati e polverosi, i quali credendo che nel cocchio stesse un qualche gran personaggio, si schieravano lungo i fossati; alcuni facevano il saluto militare.
Di quando in quando bisognava rallentare la corsa con mio fiero dispetto, o a dirittura fermarsi alcuni minuti per aspettare che i pesanti e cigolanti carri avessero lasciato libero il passo: le cose per altro andavano assai meglio di quello che avesse predetto Giacomo. Una pattuglia di gendarmi a cavallo fermò la carrozza, ma il sergente, vedendo che c’era dentro una signora, si contentò di gridare cavallerescamente:
Fino ad ora eravamo scesi con la corrente degli uomini e dei veicoli, ora ci s’incontrava in qualche vettura d’ambulanza, in qualche compagnia pedestre di militari leggermente feriti, col braccio al collo, una fasciatura alla testa, verdi in volto, curvi, zoppicanti, laceri. E Remigio, Remigio! Gridavo a Giacomo di battere le bestie col manico della frusta. Cominciava a far notte. S’arrivò alle mura di Verona verso le nove; e tanto era il timor panico, tanto il trambusto, che nessuno badò alla carrozza, e si
Mi feci accompagnare a piedi da un ragazzaccio nella via Santo Stefano al numero 147.
Si dovette camminare più volte su e giù nella strada, guardando all’alto delle porte, innanzi di distinguere nel barlume dei rari fanali il numero della casa. Se Remigio c’era, volevo fargli una improvvisata: le mie membra tremavano tutte d’impazienza e di desiderio, ma poteva essere a letto, poteva stare in compagnia di qualcuno, e, sebbene volessi ad ogni costo vederlo subito, pure mi sembrò di dover mandare il ragazzo avanti in esplorazione. Era furbo e capì al volo: doveva suonare, chiedere del tenente per una faccenda urgentissima, insistere
Il fanciullo suonò all’altro campanello. Passò un minuto, che mi sembrò interminabile, e nessuno comparve; il ragazzo tornò a suonare; allora dal secondo piano una voce di donna chiese:
Passò un altro minuto e finalmente la porta si aprì.
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Toccavo la cima delle mie speranze, sentivo già le braccia dell’amante mio, per il quale avrei dato senza esitare tutto quello ch’io avevo e la mia vita insieme, schiacciarmi impetuosamente sopra il suo largo torace, sentivo i suoi denti incidere la mia pelle, e pregustavo un mondo inenarrabile di allegrezze furiose.
La consolazione mi fiaccava: dovetti sedermi sopra una seggiola, che stava accanto all’ingresso. Udivo e vedevo come se fossi immersa in un sogno: avevo perso il senso della realtà. Ma qualcuno lì d’appresso rideva rideva: era un riso di donna stridulo, sguaiato, sgangherato, che a poco a poco mi destò. Ascoltai, mi rizzai e, trattenendo il respiro, m’avvicinai ad un uscio spalancato, dal quale si vedeva in una vasta camera illuminata. Io stavo nell’ombra,
Io non mi potevo più muovere; ero inchiodata al mio posto, con gli occhi fissi, le orecchie tese, la gola arsa.
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L’uomo, stufo della burla, afferrò alla vita la ragazza, mettendosela a sedere sulle ginocchia. Allora cominciarono i discorsi, interrotti spesso da scherzi e da carezze. Sentivo le parole, il senso mi sfuggiva. A un tratto la donna pronunciò il mio nome.
L’uomo, rimanendo disteso sul canapè, alzò un lembo della tovaglia, aperse il cassetto della tavola e ne cavò delle carte. La ragazza, diventata seria, cercò fra quelle i ritratti e li guardò lungamente, poi:
L’uomo la baciò in mezzo al petto, esclamando:
La fanciulla, accanto alla lucerna, fissando negli occhi l’uomo, che sorrideva, pigliò ad uno ad uno i quattro ritratti, e lenta lenta li lacerò ciascuno in quattro pezzi; e lasciava cadere quei brani sulla tavola in mezzo ai tondi e ai bicchieri. L’uomo continuava a sorridere.
L’uomo se la tirò vicina vicina sul canapè verde, mormorando:
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In quel punto il cuore mi si rivoltolò dentro: l’amore era diventato esecrazione. Mi trovai nella strada. Andavo senza sapere dove; mi passavano accanto nella oscurità, urtandomi, gruppi di soldati, barelle, da cui venivano gemiti lunghi o strilli di dolore, qualche cittadino frettoloso, qualche contadino spaurito; nessuno badava a me, che scivolavo lungo i muri delle case ed ero vestita tutta di nero con un fitto velo sul volto. Riescii ad un largo viale piantato di alberi cupi, dove il fiume, corrente alla mia destra, rinfrescava un poco l’aria affannosa. L’acqua si perdeva quasi nelle tenebre; ma non mi venne, neanche per un attimo, la tentazione del suicidio. Era già nato in me, senza ch’io neppure me ne fossi avveduta, un pensiero bieco, ancora indeterminato, ancora annebbiato, il quale m’invadeva adagio adagio l’anima intiera e la mente, il pensiero della vendetta. Avevo offerto tutto a quell’uomo, ero vissuta per lui, senza di lui m’ero sentita morire, con lui ero salita in cielo; ed il suo cuore, i suoi baci egli li dava ad un’altra! La scena a cui avevo assistito, mi si dipingeva tutta dinanzi; vedevo ancora sotto a’ miei occhi quelle lascivie. Infame! Corro per lui, superando ogni ostacolo, sprezzando ogni pericolo, gettando nel fango il mio nome: corro ad aiutarlo, corro a confortarlo, e lo trovo sano, più bello che mai e nelle braccia di una donna! E lui, che mi deve tutto, e la sua ganza, calpestano insieme la mia dignità ed il mio affetto e mi scherniscono e mi vituperano. E sono io che pago le loro orgie; e quella donna bionda si vanta, nuda, di essere più bella di me; e lui, lui (m’era serbato questo supremo obbrobrio) la proclama lui stesso più bella!
Tante emozioni m’avevano affranto: l’ira, che bolliva dentro di me, aveva messo in tutto il mio corpo una febbre ardente, che mi faceva tremare le gambe. Non sapevo dove fossi; non volevo,
Poco dopo entrarono due altri ufficiali; un giovinetto, che poteva avere diciannove anni, lungo, smilzo, con i baffetti sottili, ed un uomo sui quaranta, tozzo, pesante, con il muso pavonazzo a bitorzoli ed a bernoccoli, le larghe sopracciglia nere come il carbone e due mustacchi sotto il naso grosso così folti ed irti che parevano setole; aveva in bocca una pipa boema, corta nel cannello, ma enorme nel camino, dalla quale uscivano ampie nubi di fumo, che andavano l’una dopo l’altra ad annerire il soppalco.
Il giovinetto andò dritto a salutare gli ufficiali nell’angolo. Sentii che diceva:
Nessuno badava a me.
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Entrò, sola, una ragazza, pareva una crestaia, e si pose a sedere a lato dell’ufficialetto magro, chiedendogli ad alta voce:
Dopo alcuni discorsi, ai quali non posi attenzione, uno dei militari sdraiati disse alla ragazza, senza muoversi:
L’ufficialetto smilzo disse:
Costanza riprese:
L’ufficialetto aggiunse:
A queste parole l’idea, che già mi stava in nebbia nel cervello, splendette di vivissima luce; avevo trovato, avevo risoluto.
Le vampe, che mi salivano al capo, m’obbligarono a togliere del tutto il velo dalla faccia; bruciavo: chiamai
Uscii con lui. Durante la via, che non era lunga, mi disse poche e rispettose parole. Io gli chiesi chi fosse il generale Hauptmann, dove avesse il suo uffizio e altre notizie, le quali mi premevano per le mie buone ragioni. Seppi come il generale del Comando stesse in Castel San Pietro.
Il portone dell’albergo rimaneva spalancato,
Abbassai il cristallo, e l’ufficiale mi porse qualcosa: era il mio portamonete, dimenticato sulla tavola della bottega da caffè, mentre stavo per pagare e successe il tafferuglio. Lo avevano trovato e riportato i tre compagni di lui, il quale disse con gravità solenne:
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Entrarono nella sala con fracasso di risa e salti due bimbe, le quali avevano il volto color di rosa e i capelli biondi paglierini. Vedendomi, di primo botto rimasero impacciate, ma poi subito si fecero coraggio e mi vennero accanto. La più grandicella disse:
In quella entrò il generale, e le bimbe gli corsero incontro, gli si avviticchiarono alle gambe, tentavano di saltargli sulle spalle; egli prendeva l’una e l’alzava e le dava un bacio, poi prendeva l’altra; e le due pazzerelle ridevano, e negli occhi del generale spuntavano due lagrime di tenerezza beate. Si volse a me, dicendo:
Feci un cenno al generale
Le bambine fecero un passo verso di me come per darmi un bacio; voltai la testa; se ne andarono finalmente un poco mortificate.
Il generale, dopo avere letto:
Non risposi. Il generale cavò di tasca un sigaro e lo accese, s’alzò da sedere e si pose a camminare su e giù per la sala; tutt’a un tratto mi si piantò innanzi e, ficcandomi gli occhi in volto, disse:
Il generale stette un poco meditabondo con le ciglia aggrottate, poi mi stese la lettera, che gli avevo data:
La sera, verso le nove, un soldato portò all’albergo della Torre di Londra, dove finalmente mi avevano trovato una camera, un biglietto, che diceva così:
GENERALE
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L’avevo detto io che l’avvocatino Gino sarebbe tornato. Bastò una riga: ''Venite, faremo la pace'',
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