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tf. 19-33] COMMENTO 671 C. XXVI — v. 19-24. In questi due ternari F autor nostro pone lino bello notabile, dicendo che, quando vide quel ch’era nell’ottava bolgia, elli si dolse, et ora si riduole quando si ricorda di quel che vide, dicendo: Allor mi dolsi; io Dante quando vidi l’ottava bol¬ gia, et ora mi ridoglio; che sono nel mondo, Quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi; cioò quand’io Dante mi ricordo di quel che vidi nell’ottava bolgia; cioè la pena de’ fraudulenti, che aveano operato loro ingegno al male, E più lo ingegno a/freno ch’io non soglio; cioò tempero et affreno lo mio ingegno, che non scorra alle sottigliezze delli inganni, Perchè non corra, che virtù noi guidi; cioò perchè non adoperi la sua sottigliezza, se non nelli atti virtuosi; Si che, se stella buona; questo dice per satisfare a coloro che dicono che lo ingegno nostro adopera, secondo che è illustrato di sopra dalle in- lluenzie delle stelle, o miglior cosa; e questo dice, seguendo coloro che dicono che è dato da Dio immediatamente, M’à dato il ben; cioè la bontà e la sottigliezza dello ingegno, ch’io stesso noi m’in¬ vidi; cioè per invidia non mel guasti, adoperandolo al male et a’ vi¬ zi; e parla qui transuntivamente che, come lo invidioso converte il bene altrui in male, s’elli può; così fa colui che converte lo ingegno buono e sottile ad aoperare il male. Et è qui da notare che l’autore dimostra qui lo ingegno umano esser dato da Dio sanza mezzo al¬ l’uomo, quando l’anima si congiugne col corpo, di grazia speziale, o per mezzo delle costellazioni che ànno ad aoperare nelle cose di qua giù, secondo che Idio à operato (') et imposto loro: e questo ingegno è quello che i Poeti chiamano genio, che fìngono che è uno idio sin- gulare a ciascuno uomo, col quale nasce e muore; et è mutabile, se¬ condo che dice Orazio, e così veggiamo di fatto che alcuna volta sta l’uomo con uno ingegno grosso un pezzo, e poi s’assottiglia; c così ancora nell’altre cose, come può essere manifesto a chi considera le parole dell’autore predette (l). C. XXVI — v. 25-33. In questi tre ternari l’autor nostro, fingendo 10 suo poema, pone una similitudine, dicendo che come la state da sera si veggono da colui che è in sul poggio la valle piena di luc¬ ciole (8): così elli d’in sul ponte dell’ottava bolgia vedea tutta la bolgia piena di fiamme, che volavano oltre per la bolgia, e però dice: Quante il villan; cioè lo contadino, ch’ai poggio si riposa; cioè nel monte ove elli abita la sera, quando è tornato stanco dal lavorio, Nel tempo che colui che il mondo schiara; cioè nella state, nella quale 11 sole che illumina il mondo, La faccia sua a noi tien meno ascosa: imperò che d’istate sta più nel nostro emisperio, che di verno ; e così mono tempo ci s’appiatta, o vuogli, si nasconde meno a noi, che i di’ (*) G. M. à ordinato (2) C. M. de l’autore preditto. f) C. M. lucciule: 672 INFERNO XXVI. [