Sulla origine delle specie per elezione naturale, ovvero conservazione delle razze perfezionate nella lotta per l'esistenza/Capo VIII/Istinti speciali: differenze tra le versioni
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Forse comprenderemo meglio in qual modo gli istinti furono modificati nello stato di natura dall'elezione, se consideriamo alcuni fatti particolari. Ne sceglierò tre soli fra quelli che avrò a discutere nel futuro mio lavoro; cioè l'istinto che determina il cuculo ad abbandonare le sue uova nei nidi d'altri uccelli, l'istinto di certe formiche di fare schiavi, e finalmente la facoltà di costruire celle nell'ape domestica. Questi ultimi due istinti si sono generalmente, ed a ragione; considerati dai naturalisti come i più portentosi fra tutti gli istinti conosciuti.
Istinto del cuculo. - Alcuni naturalisti ammettono che la causa più immediata e finale dell'istinto del cuculo sia che la femmina depone le sue uova ad intervalli di due o tre giorni,
Mi fu obbiettato di non avere menzionato altri analoghi istinti e adattamenti del cuculo che furono detti necessariamenti coordinati. Ma in tutti i casi la speculazione intorno ad un istinto unico e conosciuto in un'unica specie è inutile,
Rivolgiamoci ora alle specie australesi. Sebbene questi uccelli mettano un solo uovo in un nido, si trovano tuttavia non raramente nello stesso nido due ed anche tre uova. Nel cuculo bronzino le uova variano notevolmente nella grandezza, misurando da otto a dieci linee in lunghezza. Se fosse stato di qualche vantaggio per questa specie di generare uova ancora più piccole di quelle che depone al presente, sia per ingannare più facilmente i genitori nutritizi, oppure, ciò che mi sembra più probabile,
Relativamente al cuculo europeo, i giovani figli dei genitori nutritizi vengono dal cuculo gettati dal nido al solito tre giorni dopo che questo ha abbandonato l'uovo, e siccome in quest'età egli è assai debole, così il Gould fu dapprima del parere che l'atto della espulsione fosse compiuto dagli stessi genitori nutritizi. Ma egli ebbe ora una fedele descrizione, da cui risulta che fu osservato un giovane cuculo, ancora cieco ed incapace a portare la sua testa, nel momento stesso, in cui espelleva dal nido i suoi fratelli di nutrimento. Uno di questi fu dall'osservatore riportato nel nido, e venne di nuovo espulso. Siccome pel giovane cuculo fu probabilmente di grande importanza di ricevere nei primi giorni dopo la nascita la maggior possibile quantità di nutrimento, non saprei trovare, in riguardo ai mezzi co' quali quello strano ed odioso istinto potesse essere raggiunto, alcuna difficoltà nell'ammettere che il cuculo acquistasse durante molte successive generazioni lentamente la cieca tendenza, la forza sufficiente e la struttura adattata per gettare dal nido i suoi fratelli di nutrimento; imperocchè quelli fra i giovani cuculi, i quali aveano meglio sviluppata quell'abitudine e quella struttura, saranno stati i meglio nutriti ed i più sicuramente allevati. Il primo passo a raggiungere il vero istinto poteva essere una inconscia irrequietezza per parte del giovane uccello, alquanto progredito nell'età e nella forza; l'abitudine sarà stata più tardi migliorata e trasmessa ad un'età più precoce. Non saprei qui vedere una difficoltà maggiore di quella che s'incontra nello spiegare come i giovani non ancora nati di altri uccelli ricevano l'istinto di rompere il guscio del proprio uovo, o come, al dire dell'Owen, i giovani serpenti acquistino nella mascella superiore un acuto dente transitorio per tagliare il tenace guscio dell'uovo. Siccome ogni parte ed in tutte le età è soggetta a variazioni individuali che tendono poi ad essere trasmesse per eredità in epoca corrispondente - proposizione che non può essere contestata; - così l'istinto e la struttura nei giovani potranno essere soggetti a lente modificazioni non meno che negli adulti, ed ambedue i casi devono sussistere o cadere con tutta la teoria dell'elezione naturale.
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Alcune specie di Molothrus, un genere affatto diverso di uccelli americani, affine ai nostri storni, hanno abitudini parassitiche come il cuculo. Secondo le notizie dell'Hudson, esimio osservatore, i due sessi del Molothrus badius vivono a stormi promiscuamente, e talvolta si accoppiano. Talvolta si costruiscono un proprio nido, altre volte ne scelgono uno che appartiene ad un altro uccello, ed espellono la nidiata. Questi uccelli depongono le loro uova ora nel nido così appropriatosi, ora, cosa molto strana, se ne costruiscono uno proprio che sovrappongono a quello. Inoltre covano generalmente da sè le uova, ed alimentano i propri giovani. Ma l'Hudson crede probabile che occasionalmente vivano parassitici, avendo osservato i pulcini di questa specie mentre seguivano uccelli vecchi di un'altra specie ed invocavano da essi il nutrimento. Le abitudini parassitiche di un'altra specie, del Molothrus bonariensis, sono assai più sviluppate che quelle del primo; ma sono ancora lontane dall'essere perfette. A quanto si sa, questo uccello mette le sue uova invariabilmente nel nido altrui; ma è rimarchevole che parecchi di essi incominciano talvolta a costruirne uno proprio, irregolare, fuori di tempo, in luogo singolarmente poco adattato, per esempio sulle foglie di un grande cardo. Essi però, come Hudson ha potuto rilevare, non finiscono mai da sè il nido. Spesso mettono molte uova (da 15 a 20) nello stesso nido; di cui solo poche o nessuna vengono covate. Oltre ciò hanno la straordinaria abitudine di praticare col becco dei fori nelle uova, siano queste della propria specie, a quelle de' loro genitori nutritizi che trovano ne' nidi appropriatisi. Lasciano anche cadere molte uova sul nudo terreno, che per conseguenza vengono distrutte. Una terza specie, il Molothrus pecoris dell'America settentrionale, ha acquistato perfettamente gli istinti del cuculo, giacchè non depone mai più che un uovo in un nido straniero, cosicchè il pulcino viene certamente allevato. L'Hudson è un deciso avversario della teoria delle evoluzioni; ma gli istinti imperfetti del Molothrus bonariensis lo hanno talmente sorpreso, che, citando le mie parole, si domanda: "Anzi che considerare queste abitudini come dotazioni speciali o come istinti creati, non dobbiamo noi ritenerle come leggere conseguenze di una legge generale, ossia di transizione?".
Nei gallinacei non è insolita l'abitudine occasionale degli uccelli di abbandonare le loro uova nei nidi d'altri uccelli; e ciò spiega per avventura l'origine di un istinto speciale nel gruppo degli struzzi. Alcune femmine dello struzzo si associano per deporre alcune poche uova in un nido comune, indi in un altro; e queste sono poi covate dai maschi. Questo istinto può probabilmente avere la sua ragione nel fatto, che le femmine covano un gran numero di uova; ma come nel caso del cuculo, ad intervalli di due o tre giorni. Però quest'istinto dello struzzo americano e del Molothrus bonariensis non fu ancora abbastanza perfezionato,
Molte api sono parassite, e lasciano sempre le loro uova nei nidi delle api di altri razze. Questo fatto è più notevole di quello del cuculo,
Istinto della schiavitù. - Questo istinto rimarchevole per la prima volta scoperto nella Formica (Polyerges) rufescens da Pietro Huber, più esimio osservatore del celebre suo padre. Questa formica dipende assolutamente dal servizio delle sue schiave, al punto che, senza il loro aiuto, la specie in un anno solo rimarrebbe estinta. I maschi e le femmine non fanno lavoro di sorta alcuna, e le operaie, o femmine sterili, benchè siano le più energiche e coraggiose nell'impadronirsi delle schiave, non stanno altrimenti occupate. Esse sono incapaci di formare i propri nidi, e di alimentare le loro larve. Quando la vecchia abitazione è trovata incomoda e debbono emigrare, le sole schiave decidono della partenza e trasportano effettivamente le loro padrone colle mascelle. Le padrone sono poi affatto incapaci di provvedere ai propri bisogni,
Ma P. Huber fu anche il primo a segnalare un'altra specie di formiche, che si valgono dell'opera delle schiave, ed è la Formica sanguinea. Questa specie fu trovata nelle parti meridionali dell'Inghilterra, e le sue abitudini furono studiate da J. Smith del Museo Britannico, al quale io mi tengo obbligato per le informazioni fornitemi sopra questo e sopra altri argomenti.
Un giorno assistetti fortunatamente alla migrazione della Formica sanguinea da un nido ad un altro, ed era uno spettacolo dei più interessanti il vedere le padrone trasportare accuratamente le loro schiave colle mascelle, invece di essere trasportate da esse come nel caso della Formica rufescens. Un altro giorno la mia attenzione fu attirata da una ventina circa di quelle formiche che fanno schiavi, le quali frequentavano il medesimo luogo ed evidentemente non erano in cerca di nutrimento; esse si avvicinarono ad una comunità indipendente di una specie con schiave (Formica fusta) e ne furono vigorosamente respinte; talvolta fino a tre di queste si attaccavano alle zampe della Formica sanguinea. Queste uccidevano allora spietatamente i loro piccoli avversari e portavano i loro corpi come nutrimento nel loro nido, che distava 29 metri circa; ma esse non poterono prendere le ninfe per allevarle come schiave. Allora io dissotterrai una piccola quantità di ninfe della Formica fusca da un altro nido e le seminai sopra un terreno nudo, presso al luogo del combattimento; esse furono tosto prese e trasportate via dalle tiranne, che forse si immaginarono, dopo tutto, di essere state vittoriose nella loro ultima battaglia.
Nello stesso tempo io collocai nel medesimo luogo una piccola quantità di crisalidi di un'altra specie (Formica flava), essendovi anche attaccate ai frammenti del nido alcune poche di queste formiche gialle. Questa specie viene talvolta ridotta in servitù,
Una sera io visitai un'altra società della specie Formica sanguinea e trovai molte di queste formiche che ritornavano a casa ed entravano nei loro nidi, trasportando dei corpi di Formica fusca e molte crisalidi, locchè prova che quella non era una migrazione. Seguii le traccie di una lunga fila di formiche cariche di bottino, per una lunghezza di 40 metri circa, fino ad un folto cespuglio, dal quale vidi uscire l'ultimo individuo che trasportava una crisalide; ma non fui capace di trovare il nido devastato nella folta macchia. Il nido però non doveva essere molto lontano,
Questi sono i fatti riguardanti il portentoso istinto delle formiche che hanno schiave. Mi sia permesso di osservare quale contrasto presentano le abitudini istintive della Formica sanguinea con quelle della Formica rufescens del continente. L'ultima non fabbrica la propria abitazione, non dirige le proprie migrazioni, non raccoglie nutrimento per sè o per le giovani, e persino è incapace di alimentarsi: essa dipende assolutamente dall'opera delle sue molte schiave. La Formica sanguinea, invece, possiede pochissime schiave, e al principio dell'estate un numero insignificante; le padrone decidono quando e in che luogo debbano farsi i nuovi nidi, stabiliscono il momento delle migrazioni, e sono esse che portano le schiave. In Isvizzera, come in Inghilterra, sembra che le schiave soltanto si occupino delle larve, e le padrone si aggirino per il solo scopo di catturare nuove schiave. Nella Svizzera le schiave e le padrone lavorano insieme, apprestando materiali per la costruzione del nido; entrambe, ma specialmente le schiave, hanno cura e mungono per così dire i loro afidi; ed inoltre entrambe raccolgono le sostanze alimentari per l'intera società. In Inghilterra, invece, le sole padrone ordinariamente escono dal nido, per cercare i materiali per le loro costruzioni e il nutrimento per sè, per le loro schiave e per le larve. Quindi le padrone nel nostro paese ricevono dalle loro schiave molto minori servigi, di quelli che prestano le formiche schiave nella Svizzera.
Non pretendo di fare alcuna congettura con quali gradazioni si sia formato l'istinto della Formica sanguinea. Però, siccome ho trovato certe formiche, che non catturano schiave, appropriarsi le crisalidi di altre specie,
Istinto dell'ape domestica di costruire celle. - Non voglio discendere ai minuti ragguagli su questo soggetto; ma darò solamente un cenno delle conclusioni a cui sono arrivato. Sarebbe uno stolto colui che esaminasse la squisita conformazione di un favo, così stupendamente adatta al suo scopo, senza risentirne un'ammirazione entusiastica. Sappiamo dai matematici che le api hanno risolto praticamente un problema difficile, ed hanno costruito le loro celle di una forma tale da contenere la maggiore quantità possibile di miele, col minor possibile consumo della cera preziosa. Si è notato che un abile operaio, fornito di strumenti precisi e di misure esatte, incontrerebbe molta difficoltà ad eseguire delle celle di cera della forma identica a quelle che vengono perfettamente fabbricate da uno sciame di api che lavorano in un oscuro alveare. Sia pur grande l'istinto che loro si attribuisce, parrà sulle prime affatto inconcepibile come possano riuscire a formare gli angoli e i piani necessari, od anche come possano accorgersi che il loro lavoro fu compiuto correttamente. Ma la difficoltà non è poi tanto insuperabile come sulle prime si giudica; tutto questo mirabile lavoro può spiegarsi, a mio avviso, come una conseguenza di alcuni istinti semplici.
Fui spinto dal Waterhouse ad investigare questo soggetto. Egli ha dimostrato che la forma della cella sta in stretta relazione colla presenza delle celle adiacenti, e le seguenti considerazioni possono forse prendersi soltanto come una modificazione della sua teoria. Ricorriamo al grande principio delle gradazioni e vediamo se la Natura non ci riveli il suo metodo di operare. Ad un estremo di una breve serie noi abbiamo i pecchioni, che impiegano i loro vecchi bozzoli, deponendo in essi il miele e aggiungendovi talora dei tubi corti di cera e formando altresì delle cellette di cera separate ed irregolarmente arrotondate. All'altro estremo della serie abbiamo le celle dell'ape domestica in uno strato doppio: ogni cella, come sappiamo, è costituita di un prisma esagono coi vertici alla base negli estremi dei suoi spigoli tagliati di sbieco, in modo da formare una piramide composta di tre rombi. Questi rombi hanno certi angoli determinati, e i tre rombi, che formano la base piramidale di ogni cella da una parte del favo, entrano nella composizione delle basi di tre celle adiacenti della parte opposta. Nella serie che passa fra la estrema perfezione delle celle dell'ape domestica e la semplicità di quelle del pecchione, noi troviamo le celle della Melipona domestica del Messico, descritta ampiamente e disegnata da Pietro Huber. La Melipona stessa ha una struttura intermedia fra quella dell'ape domestica e del pecchione, ma più vicina a quest'ultimo: essa forma un favo quasi regolare di cera, con celle cilindriche, nelle quali si allevano le larve e vi aggiunge diverse celle di cera più grandi, per conservarvi il miele. Queste ultime celle sono quasi sferiche, hanno i loro lati press'a poco uguali e sono aggruppate in una massa irregolare. Ma il fatto più importante da notarsi è che queste celle sono talmente fra loro ravvicinate, che se le sfere fossero complete, sarebbero intersecate, o interrotte l'una dall'altra; ma ciò non potrebbe mai avvenire, perchè le api costruiscono delle parti di cera perfettamente piane, fra le sfere che tenderebbero ad intersecarsi. Ogni cella, quindi, si compone di una porzione sferica esterna e di due, tre, o più altre celle. Quando una cella viene in contatto di tre altre celle (locchè avviene frequentemente e necessariamente), perchè le sfere sono quasi della stessa grandezza, le tre superfici piane si intersecano, formando una piramide. Questa piramide, come osservò Huber, è manifestamente una grossolana imitazione della base piramidale a tre faccie della cella dell'ape domestica, le tre superfici piane entrando necessariamente nella costruzione delle tre celle adiacenti. È evidente che la Melipona risparmia della cera col metodo delle sue costruzioni;
Riflettendo a questi fatti pensai che se la Melipona avesse fabbricato le sue sfere a una data distanza fra loro e le avesse formate di uguale grandezza e con disposizione simmetrica sopra un doppio strato, la struttura risultante sarebbe stata probabilmente perfetta quanto quella del favo dell'ape domestica. Coerentemente scrissi ai prof. Miller di Cambridge, e questo geometra, appoggiandosi alle mie informazioni, giunse al seguente risultato, che cortesemente mi comunicò e del quale mi dichiarò la rigorosa esattezza.
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Se un numero qualunque di sfere uguali siano descritte poste coi loro centri in due piani paralleli e in modo che il centro di ogni sfera non sia distante dalle sei sfere contigue, poste nello stesso strato, più del prodotto che si ottiene moltiplicando il raggio per (2, vale a dire per 1,41421; e che inoltre ogni sfera sia alla medesima distanza dai centri delle altre sfere vicine poste nell'altro strato parallelo; se si conducono i piani di intersezioni delle sfere di ambi gli strati, ne risulterà un doppio strato di prismi esagoni congiunti fra loro per mezzo di basi piramidali formate da tre rombi; e i rombi non meno che le faccie dei prismi esagoni avranno i loro angoli identici a quelli che ci sono dati dalle più esatte misure prese sulle celle dell'ape domestica. Mi viene però fatto conoscere dal professore Wyman, il quale ha eseguito numerose e diligenti misurazioni, che la esattezza del lavoro delle api fu notevolmente esagerata, al punto che egli sostiene che la forma tipica della cellula, se pur viene realizzata, lo è al certo raramente.
Noi possiamo dunque conchiudere con sicurezza che se potessimo modificare gli attuali istinti della Melipona, i quali in se stessi non sono poi tanto straordinari, quest'ape potrebbe raggiungere una struttura non meno perfetta di quella dell'ape domestica. Supponiamo che la Melipona fabbricasse celle esattamente sferiche e di uguale grandezza: nè ciò sarebbe a reputarsi sorprendente, mentre queste celle sono quasi uguali e sferiche, e conosciamo molti insetti che forano nel legno dei buchi perfettamente cilindrici, e come sembra col girare intorno ad un punto fisso. Supponiamo inoltre che la Melipona disponesse le sue celle su piani livellati, come essa lo fa nel costruire le sue celle cilindriche; ammettiamo poi, e ciò è assai più difficile a credersi, che la medesima sappia in qualche modo apprezzare giustamente la distanza che la separa dalle altre lavoratrici, quando molte stanno formando le loro sfere. Ma sembra che questo insetto sia già capace di valutare tale distanza,
Ma questa teoria può convalidarsi con una esperienza. Dietro lo esempio del Tegetmeier, ho separato due favi ed ho collocato fra essi una striscia di cera lunga, grossa e rettangolare: le api cominciarono immediatamente a forarvi dei piccoli incavi circolari, e quanto più esse progredivano nel lavoro fino a ridurli a foggia di bacini profondi, questi apparivano all'occhio come perfetti segmenti di sfera e di un diametro quasi eguale a quello cella. Era del più grande interesse per me l'osservare che in tutti i punti, nei quali parecchie api avevano cominciato ad escavare questi bacini gli uni presso gli altri, essi erano disposti precisamente ad una tale distanza fra loro, che quando erano giunti alla larghezza assegnata (cioè quella di una cella ordinaria) e ad una profondità corrispondente ad un sesto circa del diametro della sfera di cui essi formavano una parte, i bordi dei bacini si intersecavano e si interrompevano. Appena ciò si verificava le api si arrestavano e si davano a costruire delle pareti piane di cera sulle linee d'intersezione dei bacini, così che ogni prisma esagono fu eretto sul margine ondulato del bacino appianato invece degli spigoli retti della piramide a tre faccie che si trova nelle cellette ordinarie.
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Io posi allora nell'alveare in luogo della grossa striscia rettangolare un'altra striscia di cera sottile e stretta come la costa di un coltello e colorata colla cocciniglia. Le api cominciarono subito ad escavare da ambe le parti i piccoli bacini a poca distanza fra loro, come prima avevano fatto; ma la striscia di cera era tanto sottile, che se i fondi dei bacini fossero stati approfondati come nella esperienza precedente, avrebbero traversato la cera da una parte all'altra. Le api però seppero prevenire questo risultato e arrestarono in tempo debito le loro escavazioni; e appena i bacini furono leggermente abbozzati, esse resero piani i loro fondi, i quali, così formati di un sottilissimo strato di cera colorata che non era stata intaccata, erano situati (per quanto l'occhio poteva giudicare) esattamente lungo i piani della intersezione che poteva immaginarsi prodotta fra i bacini sugli opposti lati della striscia di cera. In alcune parti avevano lasciato soltanto piccoli frammenti dei piani romboidali, in altre parti invece si osservavano grandi porzioni di questi piani, ma l'opera non era stata compiuta a dovere per le condizioni anormali in cui si trovavano. Convien dire che le api lavorarono contemporaneamente da ambi i lati della striscia di cera colorata ed escavarono circolarmente ad uguali profondità i bacini dalle due parti, per riuscire così a formare gli strati piani esistenti fra i bacini stessi, prima di sospendere il lavoro, non appena erano giunte ai piani intermedi o piani di intersezione.
Considerando quanto è pieghevole la cera sottile, non saprei trovare in questo caso alcuna difficoltà ad intendere come le api, nel lavorare ai due lati della lamina di cera, si accorgessero quando la cera fosse incavata fino ad una grossezza conveniente e allora sospendessero il lavoro. Nei favi ordinari mi parve che le api non giungessero sempre a formare esattamente nello stesso tempo le loro celle nelle direzioni opposte;
Dal fatto della striscia di cera colorata possiamo rilevare chiaramente che, se le api avessero a costruire per sè una sottile parete di cera, formerebbero le loro celle della grandezza consueta, collocandole alla distanza determinata fra loro ed escavandole contemporaneamente e studiandosi di fare le loro vaschette esattamente sferiche; ma non le prolungherebbero approfondandole al punto di intersecarle scambievolmente. Ora le api fanno una parete rozza e periferica, una specie di bordo intorno al favo; e vi scolpiscono poi dai lati opposti le loro celle, che incavano sempre più lavorando circolarmente, come può vedersi chiaramente se si guardi il lembo del favo che stanno costruendo. Così esse non formano nello stesso tempo l'intera base piramidale a tre faccie, ma soltanto quello strato romboidale che si trova sull'estremo margine del favo od anche due faccie, come può osservarsi; ed esse non compiono mai gli spigoli superiori delle faccie romboidali,
L'opinione di Huber, che la prima cellula sia scavata in una piccola parete di cera a lati paralleli, non è pienamente fondata, per quanto mi fu dato di osservare;
Sembra sulle prime che si renda maggiore la difficoltà di comprendere la costruzione delle celle, dal vedere che una moltitudine di api vi è applicata al lavoro: e che un'ape, dopo di avere atteso per breve tempo ad una cella, passa ad un'altra; per cui una ventina di individui partecipano sino dal principio alla costruzione della prima cella, come constatò Huber. Io giunsi ad osservare praticamente questo fatto, coprendo gli spigoli delle pareti esagone di una cella, oppure l'estremo lembo del bordo periferico di un favo incipiente, con uno strato estremamente sottile di cera fusa colorata di rosso; e trovai sempre che il colore veniva più uniformemente steso dalle api, come potrebbe ottenerlo un pittore col suo pennello, quando esse prendevano degli atomi di codesta cera colorata dal punto in cui io l'avevo posta, e la impiegavano sulle pareti di tutte le celle vicine. L'opera di costruzione sembra una specie di bilancia che si stabilisca fra molte api, le quali tengonsi tutte alla medesima distanza relativa fra loro, e con uguale tendenza di scavare delle sfere identiche, di costruirvi sopra i loro prismi e di arrestarsi dall'incavare i piani di intersezione esistenti fra queste sfere. Era in verità cosa curiosissima il notare nei casi difficili, come quando due pezzi di favo si incontrano ad angolo, quanto spesso le api rovesciavano e ricostruivano la medesima cellula, talvolta adottando di nuovo una forma da esse reietta.
Quando le api si trovano in un luogo in cui possano stare nelle posizioni convenienti per le loro costruzioni, per esempio, sopra un tavolato che sia collocato direttamente sotto il punto centrale di un favo in costruzione all'ingiù, per modo che il favo debba costruirsi sopra una faccia del tavolato, in tal caso le api possono mettere le fondazioni della parete di un nuovo esagono nella situazione rigorosamente voluta, proiettandolo verso le altre celle finite. Basta che le api sappiano tenersi alle convenienti distanze relative fra loro e dalle pareti delle celle ultimamente compiute,
Come l'elezione naturale agisce solamente per l'accumulazione di piccole modificazioni nella struttura o nell'istinto, quando ognuna di esse sia vantaggiosa all'individuo nelle sue condizioni vitali, così potrebbe ragionevolmente chiedersi in che modo una lunga e graduale successione di istinti architettonici modificati, tutti tendenti al presente piano perfetto di costruzione, abbia potuto giovare ai progenitori dell'ape domestica. La risposta non è difficile; infatti noi sappiamo che le api sono spesso duramente stimolate a produrre del nèttare a sufficienza. Il Tegetmeier mi ha informato che si trovò sperimentalmente non consumarsi meno di dodici a quindici libbre di zucchero secco da uno sciame di api, per la secrezione di ogni libbra di cera. Deve dunque raccogliersi e consumarsi una prodigiosa quantità di nèttare liquido dalle api di un alveare, per la secrezione della cera necessaria alla costruzione dei loro favi. Inoltre molte api debbono rimanere oziose per molti giorni, durante il processo di secrezione. È poi necessaria una grande provvista di miele per mantenere una grande quantità di api nell'inverno; e la sicurezza dell'arnia dipende principalmente, come sappiamo, dal numero delle api che vi possono soggiornare. Quindi in ogni famiglia di api il risparmio della cera, servendo ad accrescere la provvigione del miele, deve essere il più importante elemento di successo. Naturalmente, il successo di ogni specie di api deve anche dipendere dal numero dei loro parassiti, o di altri loro nemici, od anche da cause affatto distinte: e per conseguenza può essere affatto indipendente dalla quantità del miele che esse possono raccogliere. Ma supponiamo per un momento che quest'ultima circostanza determini, come probabilmente deve spesso determinare, il numero dei pecchioni che possono esistere in un paese; e supponiamo inoltre (al contrario di quanto realmente avviene), che lo sciame viva per tutto l'inverno e quindi vada in traccia di una provvista di miele; in questo caso non potrebbe dubitarsi che sarebbe profittevole ai nostri pecchioni che il loro istinto, modificandosi leggermente, li determinasse a fabbricare le loro celle di cera tanto vicine fra loro da intersecarsi un poco;
In questo modo può spiegarsi, a mio credere, il più portentoso di tutti gli istinti conosciuti, quello dell'ape domestica: cioè, coll'ammettere che la elezione naturale abbia saputo approfittare delle modificazioni piccole, numerose e successive di istinti più semplici. L'elezione naturale può dunque avere spinto le api, per gradi lenti e con crescente perfezione, a costruire delle sfere uguali, ad una data distanza fra loro in uno strato doppio; e a fabbricare ed escavare la cera, seguendo i piani di intersezione. Le api in verità non sanno di scolpire le loro sfere ad una determinata distanza fra esse, più di quello che conoscano i vari angoli dei prismi esagoni e delle faccie piane dei rombi delle basi. La causa impellente del processo di elezione naturale fu quella di ottenere risparmio di cera, conservando insieme alle celle la dovuta solidità, e la grandezza e forma adatte per le larve, e perciò quello sciame particolare che formò le migliori celle, e consumò meno miele nella secrezione della cera, riuscì meglio degli altri, e trasmise per eredità i suoi istinti economici acquistati ai nuovi sciami, i quali, alla loro volta, avranno goduto di una maggiore probabilità di trionfare nella lotta per l'esistenza.
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