Su un presunto diritto di mentire per amore degli esseri umani: differenze tra le versioni

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| Nome e cognome dell'autore = Immanuel Kant
| Titolo = Su un presunto diritto di mentire per amore degli esseri umani
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Qui il ''proton pseudos''<ref>"Prima fallacia" [N.d.T].
</ref> sta nella tesi: «Dire la verità è un dovere ma solo verso chi ha diritto alla verità.»
 
[[http://korpora.org/kant/aa08/426.html 426]] Si deve notare in primo luogo che l'espressione "avere un diritto alla verità" è un discorso senza senso. Si deve piuttosto dire: l'essere umano ha diritto alla sua propria ''veridicità'' (''veracitas''), cioè alla verità soggettiva nella sua persona. Infatti avere oggettivamente un diritto a una verità sarebbe come dire che dipende dalla sua volontà, come nel caso del mio e del tuo in generale, se una data tesi debba essere vera o falsa, cosa che rappresenterebbe una logica davvero insolita.
 
Quindi la ''prima questione'' è se l'essere umano nei casi in cui non può evitare una risposta con sì o no abbia la ''facoltà'' di non essere veridico. La ''seconda questione'' è se egli non sia tenuto a essere insincero in una certa dichiarazione a cui lo necessita una coercizione ingiusta, per evitare a se stesso o a un altro un misfatto che lo minaccia.
 
La veridicità nelle dichiarazioni che non si possono eludere è un dovere formale dell'essere umano nei confronti di ognuno,<ref>Qui non voglio acuire questo principio fino al punto di dire: "La non veridicità è violazione del dovere verso se stessi". Infatti questo fa parte dell'etica; qui però si tratta di un dovere di diritto. La dottrina della virtù bada in quella trasgressione solo all'indegnità il cui biasimo il mentitore attira su di sé.
</ref> per quanto grande possa essere lo svantaggio che ne deriva; e anche se non faccio ingiustizia (''Unrecht'') a chi ingiustamente mi necessita alla dichiarazione, quando la falsifico, tuttavia tramite tale falsificazione, che perciò può anche essere chiamata menzogna (sebbene non nel senso dei giuristi), commetto ingiustizia verso il dovere ''in generale'' nella sua parte più essenziale: cioè, per quanto dipende da me, faccio in modo che le dichiarazioni in generale non trovino fede e quindi cadano e perdano la loro forza anche tutti i diritti fondati su contratti - cosa che è un'ingiustizia arrecata all'umanità in generale.
 
Dunque, definita la menzogna semplicemente come una dichiarazione a un altro essere umano deliberatamente non vera, non occorre l'aggiunta che debba danneggiare un altro, come pretendono i giuristi (''mendacium est falsiloquium in praeiudicium alterius''). Infatti essa danneggia sempre altri, sebbene non un altro essere umano, bensì l'umanità in generale, in quanto rende inutilizzabile la sorgente del diritto. Questa menzogna benevola ''può'' anche però diventare punibile per ''accidente'' (''casus'') secondo leggi pubbliche; ma ciò che [[http://korpora.org/kant/aa08/427.html 427]] sfugge alla punibilità solo per caso può essere condannato come contrario al diritto anche secondo leggi esterne. Cioè, se hai ostacolato di fatto ''con una menzogna'' uno che stava appunto meditando un tentativo di assassinio, ne sei giuridicamente responsabile per tutte le conseguenze che potrebbero derivarne.
 
Ma se sei rimasto con rigore nella verità, la giustizia pubblica non può contestarti nulla, qualsiasi siano le conseguenze impreviste. È anche possibile che, dopo che tu hai risposto sinceramente di sì all'assassino che ti chiede se il suo nemico è in casa, questi sia uscito senza farsi vedere, non si sia imbattuto nell'assassino e così il delitto non sia avvenuto; ma se hai detto mentendo che non è in casa e questi è in realtà uscito (però senza che tu ne sia consapevole), qualora l'assassinio andandosene lo incontri e commetta il suo misfatto, tu puoi a buon diritto essere accusato di aver promosso la sua morte. Infatti, se avessi detto la verità, per quanto ne sapevi, forse l'assassino sarebbe stato preso, mentre cercava il suo nemico in casa, dal vicinato accorso in aiuto e sarebbe stato impedito il misfatto. Quindi chi mente, per quanto benevolmente possa essere disposto, deve rispondere delle conseguenze e pagare per esse, per quanto impreviste possano essere, anche davanti al tribunale civile: perché la veridicità è un dovere che deve essere considerato come base di tutti i doveri fondati sul contratto, la cui legge è resa instabile e vana se solo si concede la pur minima eccezione.
 
Dunque essere ''veridici'' (onesti) in tutte le dichiarazioni è un sacro comandamento della ragione, incondizionatamente vincolante e non limitabile da nessuna convenienza.
 
Saggia e nello stesso tempo giusta è, a questo proposito, l'osservazione del signor Constant sul discredito di simili princípi rigidi, che si perdono in idee presumibilmente irrealizzabili e che sono perciò da respingere.
<blockquote>Ogni volta che un principio - scrive Constant a p. 123 in basso - provato come vero appare inapplicabile, ciò deriva dal fatto che non conosciamo il ''principio intermedio'' che contiene il mezzo della sua applicazione.
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</blockquote>
(Eppure il brav'uomo aveva egli stesso abbandonato il principio incondizionato della veridicità a causa del pericolo che produrrebbe per la società in sé: perché non era riuscito a scoprire nessun principio intermedio che servisse a evitare questo pericolo - e qui in effetti non se ne può inserire nessuno.)
 
Il "filosofo francese" - per conservare il suo modo di menzionare i nomi delle persone - ha scambiato l'azione attraverso la quale qualcuno ''danneggia'' un altro (''nocet''), dicendo una verità la cui confessione non può eludere, con quella attraverso la quale gli fa ''ingiustizia'' (''laedit''). Che la veridicità della dichiarazione abbia danneggiato chi era in casa è stato soltanto un ''caso'' (''casus''), non una ''azione'' libera (in senso giuridico). Infatti dal suo diritto di esigere da un altro una menzogna a suo favore seguirebbe una pretesa contrastante con ogni legittimità. Anzi, ogni essere umano non ha soltanto il diritto ma anche il più rigoroso dovere alla veridicità delle dichiarazioni che non può evitare, per quanto danneggino lui stesso o altri. Egli stesso, dunque, non ''fa'' con ciò propriamente danno a chi lo patisce, bensì lo ''causa'' il caso. Infatti egli non è affatto libero di scegliere: perché la veridicità (se proprio non può fare a meno di parlare) è un dovere incondizionato. - Il "filosofo tedesco" dunque non accoglierà fra i suoi princípi la tesi: «dire la verità è un dovere ma solo verso chi ''ha diritto alla verità''» (p. 124): in primo luogo per la sua formula indistinta, in quanto la verità non è un possesso sul quale all'uno possa essere accordato il diritto e all'altro rifiutato; ma soprattutto perché il [[http://korpora.org/kant/aa08/429.html 429]] dovere della veridicità (di questo soltanto si parla qui) non fa distinzione fra persone verso le quali si ha questo dovere e persone verso le quali si possa anche abbandonarlo, bensì è un ''dovere incondizionato'' che vale in tutte le situazioni.
 
Allora, per pervenire da una ''metafisica'' del diritto (che astrae da tutte le condizioni empiriche) a un principio della ''politica'' (che applica questi concetti a casi empirici) e, per suo tramite, alla soluzione di un problema di quest'ultima conformemente al principio universale del diritto, il filosofo offrirà:
 
*# un ''assioma'', cioè una proposizione apoditticamente certa che deriva immediatamente dalla definizione del diritto esterno (armonia della ''libertà'' di ciascuno con quella di ogni altro secondo una legge universale)
*# un ''postulato'' della legge pubblica esterna come volontà unita di tutti secondo il principio dell' ''uguaglianza'', senza il quale non avrebbe luogo la libertà di ciascuno
*# un ''problema'': come far sì che in una società così grande si mantenga nondimeno la concordia secondo i princípi della libertà e dell'uguaglianza (cioè mediante un sistema rappresentativo); la qual cosa sarà allora un principio di ''politica'', il cui allestimento e ordinamento conterrà decreti che, tratti dalla conoscenza empirica degli esseri umani, abbiano di mira solo il meccanismo dell'amministrazione del diritto e la sua organizzazione funzionale. - Il diritto non deve mai conformarsi alla politica, ma sempre la politica al diritto.
 
L'autore dice: «Non si deve mai abbandonare un principio riconosciuto - io aggiungo: riconosciuto ''a priori'' e dunque apodittico - come vero, per quanto rischioso esso possa apparire.» Qui, però, non si deve intendere il pericolo come pericolo di ''nuocere'' (casualmente), bensì di ''commettere ingiustizia'' in generale; cosa che accadrebbe se io rendessi condizionato e subordinato a riguardi ulteriori il dovere della verità, che è interamente incondizionato e rappresenta, nelle dichiarazioni, la condizione giuridica suprema, e, anche se con una certa menzogna non faccio ingiustizia a nessuno, ledo però ''in generale'' il principio del diritto in considerazione di tutte le dichiarazioni inevitabilmente necessarie (faccio ingiustizia ''formaliter'' anche se non ''materialiter''); ciò sarebbe molto peggiore di commettere un'ingiustizia nei confronti di qualcuno perché un'azione simile non sempre presuppone nel soggetto un principio indirizzato a essa.
 
[[http://korpora.org/kant/aa08/430.html 430]] Chi non accoglie già con sdegno la domanda di un altro che gli chiede se nella dichiarazione che sta per fare vuol essere o no veridico, per il sospetto, in essa espresso, che possa anche essere un mentitore, ma richiede, in primo luogo, di rammentarsi di possibili eccezioni, è già un mentitore (''in potentia''); perché mostra che non riconosce la veridicità come dovere in sé, bensì si riserva eccezioni su una regola che è per sua natura incapace di eccezioni, perché chiaramente contraddirebbe se stessa.
 
Tutti i princípi giuridico-pratici devono contenere una verità rigorosa e quelli qui detti intermedi devono contenere solo una determinazione più precisa della loro applicazione ai casi che succedono (secondo le regole della politica), ma mai eccezioni: perché queste annullano l'universalità per la quale soltanto essi portano il nome di princípi.