Brani di vita/Libro primo/Il primo passo: differenze tra le versioni

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Nell’inverno del 1868 io dava ad intendere alla mia famiglia di studiar legge; anzi, per confermarla vie più nell’errore, alla fine di quell’anno mi laureai.
(Parentesi. Mi ricordo che ci chiusero nell'''Aula Magna'' dell’Università. Eravamo otto o dieci candidati, e, allegri come quelli non se ne trovano più. Venne il professore di Diritto Canonico, munito di una borsa gigantesca che conteneva la bellezza di sessanta palle. Ognuno di noi immerse la mano nel venerando borsone ed estrasse una palla sola, il cui numero corrispondeva a quello di una tesi da svolgere in iscritto. A me toccò una tesi laconica: ''Del Comune''; una tesi che non conoscevo nemmeno di saluto. Il professore se ne andò e noi ordinammo la colazione. Pensammo che il vino (era buono!) dovesse rischiararci le idee, e ne bevemmo.... si sa.... ne bevemmo.... con molto piacere. Mi ricordo anche, un po’ confusamente, di aver ballato con molta energia, insieme ai colleghi, intorno ad un mappamondo in mezzo all’aula, e di aver riscossi unanimi applausi per l’esecuzione brillante dell’esercizio ginnastico detto l’albero forcuto. Sul tardi ci decidemmo a lavorare, ed io comunicai i miei bollenti spiriti all’opera della mia sapienza giuridica. Cominciai coprendo di vituperi il cranio di papa Clemente VII perchè distrusse la repubblica fiorentina, e finii rimproverando il ministro {{AutoreCitato|Luigi Federico Menabrea|Menabrea}} perchè dopo Mentana non era andato a Roma. Domando io che cosa c’entrava questa borra in una tesi di diritto amministrativo? E tra il principio e la fine, era una tempesta di punti ammirativi, di apostrofi, di sarcasmi, d’esclamazioni; c’erano dentro tutte le più calde figure rettoriche possibili. Era insomma una tesi un poco brilla.
Cinque o sei giorni dopo, la mattina a digiuno, coll’abito a coda di rondine e la cravatta bianca, dovetti recarmi all’Università per leggere e sostenere pubblicamente la tesi davanti alla Facoltà ed agli ascoltatori. Lessi, ma in parola d’onore, avrei preferito di non leggere. Mi vergognavo. Tutto quel lirismo bacchico recitato a bassa voce da un giovine a digiuno, in soggezione e colla voce spaurita, doveva fare un bell’effetto! Alle interrogazioni dei professori m’impaperai, dissi degli spropositi cavallini, feci una figura nefanda, e forse mossa da un delicato senso di compassione, la Facoltà mi approvò a pieni voti. Vorrei esprimere la mia gratitudine ai benefattori, ma credo che sia tempo di chiudere la parentesi).