Eneide (Caro)/Libro primo: differenze tra le versioni

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<poem>
Quell’io che già tra selve e tra pastori
di Titiro sonai l’umil sampogna,
e che, de’ boschi uscendo. a mano a mano
fei pingui e cólti i campi, e pieni i vóti
d’ogn’ingordo colono, opra che forse{{R|5}}
agli agricoli è grata; ora di Marte
L’armi canto e ’l valor del grand’eroe
che pria da Troia, per destino, a i liti
d’Italia e di Lavinio errando venne;
e quanto errò, quanto sofferse, in quanti{{R|10}}
e di terra e di mar perigli incorse,
come il traea l’insuperabil forza
del cielo, e di Giunon l’ira tenace;
e con che dura e sanguinosa guerra
fondò la sua cittade, e gli suoi dèi{{R|15}}
ripose in Lazio: onde cotanto crebbe
il nome de’ Latini, il regno d’Alba,
e le mura e l’imperio alto di Roma.
 
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Musa, tu che di ciò sai le cagioni,
tu le mi detta. Qual dolor, qual onta{{R|20}}
fece la dea ch’è pur donna e regina
de gli altri dèi, sí nequitosa ed empia
contra un sí pio? Qual suo nume l’espose
per tanti casi a tanti affanni? Ahi! tanto
possono ancor là su l’ire e gli sdegni?{{R|25}}
 
Grande, antica, possente e bellicosa
colonia de’ Fenici era Cartago,
posta da lunge incontr’Italia e ’ncontra
a la foce del Tebro: a Giunon cara
sí, che le fûr men care ed Argo e Samo.{{R|30}}
Qui pose l’armi sue, qui pose il carro,
qui di porre avea già disegno e cura
(se tale era il suo fato) il maggior seggio,
e lo scettro anco universal del mondo.
 
Ma già contezza avea ch’era di Troia{{R|35}}
per uscire una gente, onde vedrebbe
le sue torri superbe a terra sparse,
e de la sua ruina alzarsi in tanto,
tanto avanzar d’orgoglio e di potenza,
che ancor de l’universo imperio avrebbe:{{R|40}}
tal de le Parche la volubil rota
girar saldo decreto. Ella, che téma
avea di ciò, non posto anco in oblio
come, a difesa de’ suoi cari Argivi,
fosse a Troia acerbissima guerriera,{{R|45}}
ripetendone i semi e le cagioni,
se ne sentia nel cor profondamente
or di Pari il giudicio, or l’arroganza
d’Antígone, il concúbito d’Elettra,
lo scorno d’Ebe, alfin di Ganimede{{R|50}}
e la rapina e i non dovuti onori.
 
Da tante, oltre al timor, faville accesa,
quei pochi afflitti e miseri Troiani
ch’avanzaro agl’incendi, a le ruine,
al mare, ai Greci, al dispietato Achille,{{R|55}}
tenea lunge dal Lazio; onde gran tempo,
combattuti da’ vènti e dal destino,
per tutti i mari andâr raminghi e sparsi:
di sí gravoso affar, di sí gran mole
fu dar principio a la romana gente.{{R|60}}
 
Eran di poco, e del cospetto a pena
de la Sicilia navigando usciti,
e già, preso de l’alto, a piene vele
se ne gian baldanzosi, e con le prore
e co’ remi facean l’onde spumose,{{R|65}}
quando, punta Giunon d’amara doglia:
«Dunque, - disse - ch’io ceda? e che di Troia
venga a signoreggiar Italia un re,
ch’io nol distorni? Oh, mi son contra i fati!
Mi sieno: osò pur Pallade, e poteo{{R|70}}
ardere e soffocar già degli Argivi
tanti navili, e tanti corpi ancidere
per lieve colpa e folle amor d’un solo,
Aiace d’Oïlèo. Contra costui
ella stessa vibrò di Giove il tèlo{{R|75}}
giú dalle nubi; ella commosse i vènti
e turbò ’l mare, e i suoi legni disperse:
e quando ei già dal fulminato petto
sangue e fiamme anelava, a tale un turbo
in preda il diè, che per acuti scogli{{R|80}}
miserabil ne fe’ rapina e scempio.
Tanto può Palla? Ed io, io de gli dèi
regina, io sposa del gran Giove e suora,
son di quest’una gente omai tant’anni
nimica in vano? E chi piú de’ mortali{{R|85}}
sarà che mi sacrifichi, e m’adori?»
 
Ciò fra suo cor la dea fremendo ancora,
giunse in Eòlia, di procelle e d’àustri
e de le furie lor patria feconda.
Eolo è suo re, ch’ivi in un antro immenso{{R|90}}
le sonore tempeste e i tempestosi
vènti, sí com’è d’uopo, affrena e regge.
Eglino impetuosi e ribellanti
tal fra lor fanno e per quei chiostri un fremito,
che ne trema la terra e n’urla il monte.{{R|95}}
Ed ei lor sopra, realmente adorno
di corona e di scettro, in alto assiso,
l’ira e gl’impeti lor mitiga e molce.
Se ciò non fosse, il mar, la terra e ’l cielo
lacerati da lor, confusi e sparsi{{R|100}}
con essi andrian per lo gran vano a volo;
ma la possa maggior del padre eterno
provvide a tanto mal serragli e tenebre
d’abissi e di caverne; e moli e monti
lor sopra impose; ed a re tale il freno{{R|105}}
ne diè, ch’ei ne potesse or questi or quelli
con certa legge o rattenere o spingere.
A cui davanti l’orgogliosa Giuno
allor umíle e supplichevol disse:
«Eölo, poi che ’l gran padre del cielo{{R|110}}
a tanto ministerio ti prepose
di correggere i vènti e turbar l’onde,
gente inimica a me, mal grado mio,
naviga il mar Tirreno; e giunta a vista
è già d’Italia, al cui reame aspira;{{R|115}}
e d’Ilio le reliquie, anzi Ilio tutto
seco v’adduce e i suoi vinti Penati.
Sciogli, spingi i tuoi vènti, gonfia l’onde,
aggiragli, confondigli, sommergigli,
o dispergigli almeno. Appo me sono{{R|120}}
sette e sette leggiadre ninfe e belle;
e di tutte piú bella e piú leggiadra
è Deiopèa. Costei vogl’io, per merto
di ciò, che sia tua sposa; e che tu seco
di nodo indissolubile congiunto,{{R|125}}
viva lieto mai sempre, e ne divenga
padre di bella e di te degna prole».
 
Eolo a rincontro: «A te, regina, - disse -
conviensi che tu scopra i tuoi desiri,
ed a me ch’io gli adempia. Io ciò che sono{{R|130}}
son qui per te. Tu mi fai Giove amico,
tu mi dài questo scettro e questo regno;
se re può dirsi un che comandi a’ vènti.
Io, tua mercé, su co’ celesti a mensa
nel ciel m’assido; e co’ mortali in terra{{R|135}}
son di nembi possente e di tempeste».
 
Cosí dicendo, al cavernoso monte
con lo scettro d’un urto il fianco aperse,
onde repente a stuolo i vènti usciro.
Avean già co’ lor turbini ripieni{{R|140}}
di polve e di tumulto i colli e i campi,
quando quasi in un gruppo ed Euro e Noto
s’avventaron nel mare, e fin da l’imo
lo turbâr sí, che ne fêr valli e monti;
monti, ch’al ciel, quasi di neve aspersi,{{R|145}}
sorti l’un dopo l’altro, a mille a mille
volgendo, se ne gian caduchi e mobili
con suono e con ruina i liti a frangere.
Il grido, lo stridore, il cigolare
de’ legni, de le sarte e de le genti,{{R|150}}
i nugoli che ’l cielo e ’l dí velavano,
la buia notte, ond’era il mar coverto,
i tuoni, i lampi spaventosi e spessi,
tutto ciò che s’udia, ciò che vedevasi
rappresentava orror, perigli e morte.{{R|155}}
Smarrissi Enea di tanto, e tale un gelo
sentissi, che tremante al ciel si volse
con le man giunte, e sospirando disse:
 
«O mille volte fortunati e mille
color che sotto Troia e nel cospetto{{R|160}}
de’ padri e de la patria ebbero in sorte
di morir combattendo! O di Tidèo
fortissimo figliuol, ch’io non potessi
cader per le tue mani, e lasciar ivi
questa vita affannosa, ove lasciolla{{R|165}}
vinto per man del bellicoso Achille,
Ettor famoso e Sarpedonte altero?
E se d’acqua perire era il mio fato,
perché non dove Xanto o Simoenta
volgon tant’armi e tanti corpi nobili?»{{R|170}}
 
Cosí dicea; quand’ecco d’Aquilone
una buffa a rincontro, che stridendo
squarciò la vela, e ’l mar spinse a le stelle,
Fiaccârsi i remi; e là ’ve era la prua,
girossi il fianco; e d’acqua un monte intanto{{R|175}}
venne come dal cielo a cader giú.
Pendono or questi or quelli a l’onde in cima;
or a questi or a quei s’apre la terra
fra due liquidi monti, ove l’arena,
non men ch’ai liti, si raggira e ferve.{{R|180}}
 
Tre ne furon dal Noto a l’Are spinte;
- Are chiaman gli Ausoni un sasso alpestro
da l’altezza de l’onde allor celato,
che sorgea primo in alto mare altissimo -
e tre ne fûr dal pelago a le Sirti,{{R|185}}
(miserabile aspetto) ne le secche
tratte da l’Euro, e ne l’arene immerse.
Una, che ’l carco avea del fido Oronte
con le genti di Licia, avanti agli occhi
di lui perí. Venne da Bora un’onda,{{R|190}}
anzi un mar, che da poppa in guisa urtolla,
che ’l temon fuori e ’l temonier ne spinse;
e lei girò sí che ’l suo giro stesso
le si fe’ sotto e vortice e vorago,
da cui rapita, vacillante e china,{{R|195}}
quasi stanco palèo, tre volte volta,
calossi gorgogliando, e s’affondò.
 
Già per l’ondoso mar disperse e rare
le navi e i naviganti si vedevano;
già per tutto di Troia, a l’onde in preda,{{R|200}}
arme, tavole, arnesi a nuoto andavano;
già quel ch’era piú valido e piú forte
legno d’Ilïonèo, già quel d’Acate
e quel d’Abante e quel del vecchio Alete,
ed alfin tutti sconquassati, a l’onde{{R|205}}
micidïali aveano i fianchi aperti;
quando, a tanto rumor, da l’antro uscito
il gran Nettuno, e visto del suo regno
rimescolarsi i piú riposti fondi:
«Oh - disse irato - ond’è questa importuna{{R|210}}
tempesta?» E grazïoso il capo fuori
trasse de l’onde; e rimirando intorno,
per lo mar tutto dissipati e laceri
vide i legni d’Enea; vide lo strazio
de’ suoi ch’a la tempesta, a la ruina{{R|215}}
e del mare e del cielo erano esposti.
E ben conobbe in ciò, come suo frate,
che ne fôra cagion l’ira e la froda
de l’empia Giuno. Euro a sé chiama e Zefiro,
e ’n tal guisa acremente li rampogna:{{R|220}}
 
«Tanta ancor tracotanza in voi s’alletta,
razza perversa? Voi, voi, senza me,
nel regno mio la terra e ’l ciel confondere,
e far nel mare un sí gran moto osate?
Io vi farò... Ma di mestiero è prima{{R|225}}
abbonazzar quest’onde. Altra fiata
in altra guisa il fio mi pagherete
del fallir vostro. Via tosto di qua,
spirti malvagi; e da mia parte dite
al vostro re che questo regno e questo{{R|230}}
tridente è mio, e che a me solo è dato.
Per lui sono i suoi sassi e le sue grotte,
case degne di voi; quella è sua reggia;
quivi solo si vanti; e per regnare,
de la prigion de’ suoi vènti non esca».{{R|235}}
 
Cosí dicendo, in quanto a pena il disse,
la tempesta cessò, s’acquetò ’l mare,
si dileguâr le nubi, apparve il sole.
Cimòtoe e Triton, l’una con l’onde,
l’altro col dorso, le tre navi indietro{{R|240}}
ritirâr da lo scoglio in cui percossero.
Le tre che ne l’arena eran sepolte,
egli stesso, le vaste sirti aprendo,
sollevò col tridente ed a sé trassele.
Poscia sovra al suo carro d’ogn’intorno{{R|245}}
scorrendo lievemente, ovunque apparve,
agguagliò ’l mare, e lo ripose in calma.
 
Come addivien sovente in un gran popolo,
allor che per discordia si tumultua,
e imperversando va la plebe ignobile,{{R|250}}
quando l’aste e le faci e i sassi volano
e l’impeto e ’l furor l’arme ministrano,
se grave personaggio e di gran merito
esce lor contro, rispettosi e timidi,
fatto silenzio, attentamente ascoltano,{{R|255}}
ed al detto di lui tutti s’acquetano;
cosí d’ogni ruina e d’ogni strepito
fu ’l mar disgombro, allor che umíle e placido
a ciel aperto il gran rettor del pelago
co’ suoi lievi destrier volando scórselo.{{R|260}}
Stanchi i Troiani, ai liti ch’eran prossimi
drizzaro il corso, e ’n Libia si trovarono.
 
È di là lungo a la riviera un seno,
anzi un porto; ché porto un’isoletta
lo fa, che in su la bocca al mare opponsi.{{R|265}}
Questa si sporge co’ suoi fianchi in guisa
ch’ogni vento, ogni flutto, d’ogni lato
che vi percuota, ritrovando intoppo,
o si frange, o si sparte, o si riversa.
Quinci e quindi alti scogli e rupi altissime,{{R|270}}
sotto cui stagna spazïoso un golfo
securo e queto: e v’ha d’alberi sopra
tale una scena, che la luce e ’l sole
vi raggia, e non penètra: un’ombra opaca,
anzi un orror di selve annose e folte.{{R|275}}
D’incontro è di gran massi e di pendenti
scogli un antro muscoso, in cui dolci acque
fan dolce suono; e v’ha sedili e sponde
di vivo sasso: albergo veramente
di ninfe, ove a fermar le stanche navi{{R|280}}
né d’àncora v’è d’uopo, né di sarte.
Qui sol con sette, che raccolse a pena
di tanti legni, Enea ricoverossi.
Qui stanchi tutti e maceri, e del mare
ancor paurosi, i liti a pena attinsero,{{R|285}}
che a terra avidamente si gittarono.
Acate fece in pria selce e focíle
scintillar foco, e dièlli esca e fomento.
Altri poscia d’intorno ad altri fuochi
(come quei che di vitto avean disagio,{{R|290}}
e le biade trovâr corrotte e molli)
si diêr con vari studi e vari ordigni
a rasciugarle, a macinarle, a cuocerle.
 
Intanto Enea sovr’un de’ scogli asceso,
quanto si discopria con l’occhio intorno,{{R|295}}
stava mirando s’alcun legno fosse
per alcun luogo apparso, o quel d’Antèo,
o quel di Capi, o pur quel di Caíco
che in poppa avea la piú sublime insegna.
Nïun ne vide: ma ben vide errando{{R|300}}
gir per la spiaggia tre gran cervi, e dietro
d’altri minori innumerabil torma,
che in sembianza d’armenti empian le valli.
Fermossi: e pronto a cotal uso avendo
l’arco e ’l turcasso (ché quest’armi appresso{{R|305}}
gli portava mai sempre il fido Acate),
diè lor di piglio: e saettando prima
i primi tre, che piú vide altamente
erger le teste e inalberar le corna,
contra ’l volgo si volse; e ’l lito e ’l bosco,{{R|310}}
ovunque gli scorgea, folgorò tutto.
Ne cacciò, ne ferí, strage ne fece
a suo diletto; né si vide prima
sazio che, come sette eran le navi,
sette non ne vedesse a terra stesi.{{R|315}}
In questa guisa ritornando al porto,
gli spartí parimente a’ suoi compagni;
e con essi del vin, che ’l buon Aceste
a l’uscir di Sicilia in don gli diede,
molt’urne dispensò per ricrearli;{{R|320}}
poscia a conforto lor cosí lor disse:
 
«Compagni, rimembrando i nostri affanni,
voi n’avete infiniti omai sofferti
vie piú gravi di questi. E questi fine,
(quando che sia) la dio mercede, avranno.{{R|325}}
Voi la rabbia di Scilla, voi gli scogli
di tutti i mari omai, voi de’ Ciclopi
varcaste i sassi; ed or qui salvi siete.
Riprendete l’ardir, sgombrate i petti
di téma e di tristizia. E’ verrà tempo{{R|330}}
un dí che tante e cosí rie venture,
non ch’altro, vi saran dolce ricordo.
Per vari casi e per acerbi e duri
perigli è d’uopo far d’Italia acquisto.
Ivi riposo, ivi letizia piena{{R|335}}
vi promettono i fati, e nuova Troia
e nuovi regni al fine. Itene intanto:
soffrite, mantenetevi, serbatevi
a questo, che dal ciel si serba a voi,
sí glorioso e sí felice stato».{{R|340}}
 
Cosí dicendo a’ suoi, pieno in se stesso
d’alti e gravi pensier, tenea velato
con la fronte serena il cuor doglioso.
 
Fecer tutti coraggio; e di cibo avidi
già rivolti a la preda, altri le tèrgora{{R|345}}
le svelgon da le coste, altri sbranandola
mentre è tiepida ancor, mentre che palpita,
lunghi schidioni e gran caldaie apprestano,
e l’acqua intorno e ’l fuoco vi ministrano.
Poscia d’un prato e seggio e mensa fattisi,{{R|350}}
taciti prima sopra l’erba agiandosi,
d’opima carne e di vin vecchio empiendosi,
quanto puon lietamente si ricreano.
 
Poiché fûr sazi, a ragionar si diêro,
con voce or di timore or di cordoglio,{{R|355}}
de’ perduti compagni, in dubbio ancora
se fosser vivi, e se pur giunti al fine
piú de’ richiami lor nulla curassero.
Enea vie piú di tutti e di pietate
e di dolor compunto, il caso acerbo{{R|360}}
or d’Àmico, or d’Oronte, e Lico e Gía
ne’ sospir richiamava e ’l buon Cloanto.
 
Erano al fine omai; quando il gran Giove
da l’alta spera sua mirando in giuso
la terra e ’l mar di questo basso globo,{{R|365}}
mentre di lito in lito, e d’uno in altro
scerne i popoli tutti, al cielo in cima
fermossi, e ne la Libia il guardo affisse.
Venere, allor ch’a le terrene cose
lo vide intento, dolcemente afflitta{{R|370}}
il volto, e molle i begli occhi lucenti,
gli si fece davanti, e cosí disse:
 
« Padre, che de’ mortali e de’ celesti
siedi eterno monarca, e folgorando
empi di téma e di spavento il mondo,{{R|375}}
e quale ha contra te fallo sí grave
commesso Enea mio figlio, o i suoi Troiani,
che, dopo tanti affanni e tante stragi,
c’han di lor fatto il ferro, il fuoco e il mare,
non trovin pace, né pietà, né loco{{R|380}}
pur che gli accetti? In cotal guisa omai
del mondo son, non che d’Italia, esclusi.
Io mi credea, signor (quel che promesso
n’era da te), che tornasse anco un giorno,
quando che fosse, il generoso germe{{R|385}}
di Dardano a produr quei glorïosi
eroi, quei duci invitti, quei Romani
de l’universo domatori e donni:
e tu ne ’l promettesti. Or come, padre,
il ciel cangia destino, e tu consiglio?{{R|390}}
Questa sola credenza era cagione
di consolarmi in parte de l’eccidio
de la mia Troia, ch’io soffrissi in pace
tante ruine sue, fato con fato
ricompensando. Or la fortuna stessa{{R|395}}
e vie piú fera la persegue e dura.
E quanto durerà, signore, ancora?
Tal non fu già d’Antènore l’esilio;
ch’ei non piú tosto de l’achive schiere
per mezzo uscio, che con felice corso{{R|400}}
penetrò d’Adria il seno; entrò securo
nel regno de’ Liburni; andò fin sopra
al fonte di Timavo; e là ’ve il fiume
fremendo il monte intuona, e là ’ve aprendo
fa nove bocche un mare, e, mar già fatto,{{R|405}}
inonda i campi e rumoreggia e frange,
Padoa fondò, pose de’ Teucri il seggio,
e diè lor nome e le lor armi affisse.
Ivi ridotto il suo regno, e composto
quïetamente, or lo si gode in pace.{{R|410}}
E noi, noi del tuo sangue, e che da te
avemo anco del cielo arra e possesso,
ad una sola indegnamente in ira,
perdute, ohimè! le proprie navi, fuori
siamo d’Italia e di speranza ancora{{R|415}}
di non mai piú vederla. Or questo è ’l pregio
che si deve a pietade? E questo è il regno
che da te, padre mio, ne si promette?»
 
Sorrise Giove, e con quel dolce aspetto
con che ’l ciel rasserena e le tempeste,{{R|420}}
rimirolla, basciolla, e cosí disse:
 
«Non temer, Citerèa, ché saldi e certi
stanno i fati de’ tuoi. S’adempieranno
le mie promesse; sorgeran le torri
de la novella Troia; vedrai le mura{{R|425}}
di Lavinio; porrai qui fra le stelle
il magnanimo Enea. Ché né ’l destino
in ciò si cangerà, né ’l mio consiglio.
Ma per trarti d’affanni, io te ’l dirò
piú chiaramente; e scoprirotti intanto{{R|430}}
de’ fati i piú reconditi secreti.
Figlia, il tuo figlio Enea tosto in Italia
sarà; farà gran guerra, vincerà:
domerà fere genti: imporrà leggi:
darà costumi, e fonderà città:{{R|435}}
e di già, vinti i Rutuli, tre verni
e tre stati regnar Lazio vedrallo.
Ascanio giovinetto, or detto Iulo,
ed Ilo prima infin ch’Ilio non cadde,
succederagli; e trenta giri interi{{R|440}}
del maggior lume, il sommo imperio avrà.
Trasferirallo in Alba: Alba la lunga
sarà la reggia sua possente e chiara.
Qui regneranno poi sotto la gente
d’Ettorre un dopo l’altro un corso d’anni{{R|445}}
tre volte cento; finch’Ilia regina
d’un parto produrrà gemella prole.
Indi capo ne fia Romolo invitto.
Questi, in vece di manto, adorno il tergo
de la sua marzïal nudrice lupa,{{R|450}}
di Marte fonderà la gran cittade:
e dal nome di lui Roma diralla.
A Roma non pongo io termine o fine:
ché fia del mondo imperatrice eterna.
E l’aspra Giuno, ch’or la terra e ’l mare{{R|455}}
e ’l ciel per téma intorbida e scompiglia,
con piú sano consiglio al mio conforme,
procurerà che la romana gente
in arme e ’n toga a l’universo imperi.
E cosí stabilisco: e cosí tempo{{R|460}}
ancor sarà ch’Argo, Micene e Ftia
e i Greci tutti tributari e servi
de la casa di Assàraco saranno.
Di questa gente, e de la Iulia stirpe,
che da quel primo Iulo il nome ha preso,{{R|465}}
Cesare nascerà, di cui l’impero
e la gloria fia tal, che per confine
l’uno avrà l’Oceàno, e l’altra il cielo.
Questi, già vinto il tutto, poi che onusto
de le spoglie sarà de l’Orïente,{{R|470}}
anch’egli avrà da te qui seggio eterno,
e là giú fra’ mortali incensi e vóti.
L’aspro secolo allor, l’armi deposte,
si farà mite. Allor la santa Vesta
e la candida Fede e ’l buon Quirino{{R|475}}
col frate Remo il mondo in cura avranno.
Allor con salde e ben ferrate sbarre
de la guerra saran le porte chiuse:
e dentro in fra la ruggine sepolto
con cento nodi incatenato e stretto{{R|480}}
gran tempo si starà l’empio Furore;
e rabbioso fremendo orribilmente,
con fuoco a gli occhi, e bava e sangue a i denti
morderà l’armi e le catene indarno».
 
Cosí detto, spedí tosto da l’alto{{R|485}}
di Maia il figlio a far sí ch’a’ Troiani
fosse Cartago e il suo paese amico,
perché del fato la regina ignara,
non fosse lor, per ferità de’ suoi
o per sua téma, inospitale e cruda.{{R|490}}
Vassene il messaggier per l’aria a volo
velocemente, e ne la Libia giunto,
quel ch’imposto gli fu ratto eseguisce.
E già, la dio mercé, lasciano i Peni
la lor fierezza; e la regina in prima{{R|495}}
s’imbeve d’un affetto e d’una mente
verso i Troiani affabile e benigna.
 
La notte intanto, del pietoso Enea
molti furo i sospir, molti i pensieri.
Conchiuse alfin ch’a l’apparir del giorno{{R|500}}
spïar dovesse, e riportarne avviso
a suoi compagni, in qual paese il vento
gli avesse spinti; e s’uomini o pur fere
(perché incolto il vedea) quivi abitassero.
Cosí tra selve ombrose e cave rupi{{R|505}}
fatti i legni appiattar, sol con Acate,
e con due dardi in mano in via si pose.
 
In mezzo de la selva una donzella,
ch’era sua madre, sí com’era avanti
che madre fosse incontro gli si fece.{{R|510}}
Donzella a l’armi, a l’abito, al sembiante
parea di Sparta, o quale in Tracia Arpàlice
leggiera e sciolta, il dorso affaticando
di fugace destrier, l’Ebro varcava.
Al collo avea di cacciatrice un arco{{R|515}}
abile e lesto, i crini a l’aura sparsi,
nudo il ginocchio; e con bel nodo stretto
tenea raccolto della gonna il seno.
 
Ella fu prima a dire: «Avreste voi,
giovani, de le mie sorelle alcuna{{R|520}}
vista errar quinci, o ch’aggia l’arco al fianco,
o che gli omeri vesta d’una pelle
di cervier maculato, o che gridando
d’un zannuto cignal segua la traccia?»
Cosí Venere disse. Ed, a rincontro,{{R|525}}
di Venere il figliuol cosí rispose:
 
«Nïuna ho de le tue veduta, o ’ntesa,
vergine... qual ti dico, e di che nome
chiamar ti deggio? Ché terreno aspetto
non è già ’l tuo, né di mortale il suono.{{R|530}}
Dea sei tu veramente, o suora a Febo,
o figlia a Giove, o de le ninfe alcuna:
e chïunque tu sii, propizia e pia
vèr noi ti mostra, e i nostri affanni ascolta.
Dinne sotto qual cielo, in qual contrada{{R|535}}
siamo or del mondo: ché raminghi andiamo;
e qui dal vento e da fortuna spinti
nulla o de gli abitanti o de’ paesi
notizia abbiamo. A te, s’a ciò m’aíti,
di nostra man cadrà piú d’una vittima».{{R|540}}
 
Venere allor soggiunse: «Io non m’arrogo
celeste onore. In Tiro usan le vergini
di portar arco, e di calzar coturni;
e di Tiro e d’Agènore le genti
traggon principio, che qui seggio han posto:{{R|545}}
ma ’l paese è di Libia, ed avvi in guerra
gente feroce. Or n’è capo e regina
Dido che, da l’insidie del fratello
fuggendo, è qui venuta. A dirne il tutto
lunga fôra novella e lungo intrico.{{R|550}}
Ma toccandone i capi, avea costei
Sichèo per suo consorte, uno il piú ricco
di terra e d’oro, che in Fenicia fosse,
da la meschina unicamente amato,
anzi il suo primo amore. Il padre intatta{{R|555}}
nel primo fior di lei seco legolla.
Ma del regno di Tiro avea lo scettro
Pigmalïon suo frate, un signor empio,
un tiranno crudele e scellerato
piú ch’altri mai. Venne un furor fra loro{{R|560}}
tal, che Sichèo da questo avaro e crudo,
per sete d’oro, ove men guardia pose,
fu tra gli altari ucciso; e non gli valse
che la germana sua tanto l’amasse.
Ciò fe’ celatamente: e per celarlo{{R|565}}
vie piú, con finzïoni e con menzogne
deluse un tempo ancor l’afflitta amante.
Ma nel fin, di Sichèo la stessa imago,
fuor d’un sepolcro uscendo, sanguinosa,
pallida, macilenta e spaventevole,{{R|570}}
le apparve in sogno, e presentolle, avanti
gli empi altari ove cadde, il crudo ferro
che lo trafisse, e del suo frate tutte
l’occulte scelleraggini le aperse.
Poscia: "Fuggi di qua, fuggi" le disse{{R|575}}
"tostamente, e lontano". E per sussidio
de la sua fuga, le scoperse un loco
sotterra, ov’era inestimabil somma
d’oro e d’argento, di molt’anni ascoso.
Quinci Dido commossa, ordine occulto{{R|580}}
di fuggir tenne, e d’adunar compagni;
ché molti n’adunò, parte per odio,
parte per téma di sí rio tiranno.
Le navi che trovâr nel lito preste,
caricâr d’oro, e fêr vela in un súbito.{{R|585}}
Cosí ’l vento portossene la speme
de l’avaro ladrone. E fu di donna
questo sí degno e memorabil fatto.
 
Giunsero in questi luoghi, ov’or vedrai
sorger la gran cittade e l’alta ròcca{{R|590}}
de la nuova Cartago, che dal fatto
Birsa nomossi, per l’astuta merce
che, per fondarla, fêr di tanto sito
quanto cerchiar di bue potesse un tergo.
 
Ma voi chi siete? onde venite? e dove{{R|595}}
drizzate il corso vostro?» A tai richieste
pensando Enea, dal piú profondo petto
trasse la voce sospirosa, e disse:
«O dea, se da principio i nostri affanni
io contar ti volessi, e tu con agio{{R|600}}
udissi una da me sí lunga istoria,
non finirei che fine avrebbe il giorno.
Noi siam Troiani (se di Troia antica
il nome ti pervenne unqua a gli orecchi),
e la tempesta che per tanti mari{{R|605}}
già cotant’anni ne travolve e gira,
n’ha qui, come tu vedi, al fin gittati.
Io sono Enea, quel pio che da’ nemici
scampati ho meco i miei patrii Penati,
fino a le stelle ormai noto per fama.{{R|610}}
Italia vo cercando, che per patria
Giove m’assegna, autor del sangue mio.
Con diece e diece ben guarnite navi
uscii di Frigia, il mio destin seguendo
e lo splendor de la materna stella.{{R|615}}
Or sette me ne son restate appena,
scommesse, aperte e disarmate tutte.
Ed io mendíco, ignoto e peregrino,
de l’Asia in bando, da l’Europa escluso,
e ’n fin dal mar gittato or ne la Libia{{R|620}}
vo per deserti inospiti e selvaggi.
E qual m’è piú del mondo or luogo aperto?»
 
Venere intenerissi; e nel suo figlio
tant’amara doglienza non soffrendo,
cosí ’l duol con la voce gl’interruppe:{{R|625}}
 
«Chïunque sei, tu non sei già, cred’io,
al cielo in ira; poi ch’a sí grand’uopo
ti diè ricovro a sí benigno ospizio.
Segui pur francamente: e quinci in corte
va’ di questa magnanima regina;{{R|630}}
ch’io già t’annunzio le tue navi, e i tuoi
da miglior vènti in miglior parte addotti
salvi e securi omai, se i miei parenti
non m’ingannâr quando gli augúri appresi.
Mira là sovra a quel tranquillo stagno{{R|635}}
dodici allegri cigni, che pur dianzi
confusi e dissipati a cielo aperto
erano in preda al fero augel di Giove,
com’or sottratti dal suo crudo artiglio
rimessi in lunga ed ozïosa riga{{R|640}}
si rivolgono a terra, e già la radono.
E sí com’essi con gioiose ruote
trattando l’aria, col cantar, col plauso
mostrato han d’allegria segno e di scampo;
cosí, placato il mare, a piene vele,{{R|645}}
e le tue navi e gli tuoi naviganti
o preso han porto, o tosto a prender l’hanno:
vattene or lieto ove ’l sentier ti mena».
 
Ciò detto, nel partir, la neve e l’oro
e le rose del collo e de le chiome,{{R|650}}
come l’aura movea, divina luce
e divino spirâr d’ambrosia odore:
e la veste, che dianzi era succinta,
con tanta maestà le si distese
infino a’ piè, ch’a l’andar anco, e dea{{R|655}}
veracemente e Venere mostrossi.
 
Poscia che la conobbe, e la sua fuga
o fermare, o seguir piú non poteo,
con un rammarco tal dietro le tenne:
 
«Ahi! madre, ancora tu vèr me crudele,{{R|660}}
a che tuo figlio con mentite larve
tante volte deludi? A che m’è tolto
di congiunger la mia con la tua destra?
Quando fia mai ch’io possa a viso aperto
vederti, udirti, ragionarti, e vera{{R|665}}
riconoscerti madre?» Egli in tal guisa
si querelava; e verso la cittade
se ne giano invisibili ambidue:
ché la dea, sospettando non tra via
fossero distornati o trattenuti,{{R|670}}
di folta nebbia intorno gli coverse.
Ella in alto levossi, e Cipri e Pafo
lieta rivide, ov’entro al suo gran tempio
da cento altari ha cento volte il giorno
d’incensi e di ghirlande odori e fumi.{{R|675}}
Ed essi intanto in vèr le mura a vista
giunser de la città, ch’al colle incontro
fe’ lor superba e specïosa mostra.
 
Maravigliasi Enea che sí gran macchina
già sorga, ove pur dianzi non vedevasi{{R|680}}
fors’altro che foreste, o che tuguri.
Mira il travaglio, mira la frequenzia
e le porte e le vie piene di strepito.
Vede con quanto ardor le turbe tirie
altri a le mura, altri a la ròcca intendono{{R|685}}
e i gravi legni e i gran sassi che volgono
questi, che i siti ai propri alberghi insolcano;
e quei, che del senato e de gli offici
piantan le curie e i fòri e le basiliche.
Scorge là presso al mar che ’l porto cavano,{{R|690}}
qua, sotto al colle, che un teatro fondano,
per le cui scene i gran marmi che tagliano,
e le colonne, che tant’alto s’ergono,
le rupi e i monti, a cui son figli, adeguano.
 
Con tal sogliono industria a primavera{{R|695}}
le sollecite pecchie al sole esposte
per fiorite campagne esercitarsi,
quando le nuove lor cresciute genti
mandano in campo a côr manna e rugiada,
di celeste liquor le celle empiendo;{{R|700}}
o quando incontro a scaricare i pesi
van de l’altre compagne; o quando a stuolo
scacciano i fuchi, ingorde bestie e pigre,
che, solo intente a logorar l’altrui,
de le conserve lor si fan presepi,{{R|705}}
allor che l’opra ferve, allor che ’l mèle
sparge di timo d’ogn’intorno odore.
 
«O fortunati voi, di cui già sorge
il desïato seggio!», Enea dicendo,
a parte a parte lo contempla e loda.{{R|710}}
Arriva intanto a la muraglia, e chiuso
ne la sua nube, maraviglia a dirlo!
tra gente e gente va, che non è visto.
Era nel mezzo a la cittade un bosco
di sacro rezzo e grato, ove sospinti{{R|715}}
da la tempesta capitaro i Peni
primieramente; e nel fondar trovaro
quel che pria da Giunon fu lor predetto
di barbaro destrier teschio fatale,
la cui sembianza imagine e presagio{{R|720}}
fu poi che quella gente e quella terra
saria per molte età ferace e fera.
Qui fabbricava la sidonia Dido
un gran tempio a Giunone, il cui gran nume
e i doni e la materia e l’artificio{{R|725}}
lo facean prezïoso e venerando.
Mura di marmo avea; colonne e fregi
di mischi, e gradi e travi e soglie e porte
di risonante e solido metallo.
Qui si ristette Enea: qui vide cosa{{R|730}}
che téma gli scemò, speme gli accrebbe,
e di pace affidollo e di salute;
ché mentre, in aspettando la regina
ch’ivi s’attende, la città vagheggia,
mentre nel tempio l’apparato e l’opre{{R|735}}
e ’l valor degli artefici contempla,
a gli occhi una parete gli s’offerse,
in cui tutta per ordine dipinta
era di Troia la famosa guerra.
E, conosciuti a le fattezze conte{{R|740}}
prima il troiano re, poscia l’argivo
e ’l fero d’ambidue nimico Achille,
fermossi, e lagrimando: «Oh, - disse - Acate,
mira fin dove è la notizia aggiunta
de le nostre ruine! Or quale ha ’l mondo{{R|745}}
loco che pien non sia de’ nostri affanni?
Ecco Priamo, ecco Troia; e qui si pregia
ancor virtú; ché ferità non regna
là ’ve umana miseria si compiagne.
Or ti conforta, ché tal fama ancora{{R|750}}
di pro ti fia cagione e di salvezza».
 
Cosí dicendo, e la già nota istoria
mirando, or con sospiri, ed or con lutto
va di vana pittura il cor pascendo.
E come quei ch’a Troia il tutto vide,{{R|755}}
i siti rammentandosi e le zuffe,
col sembiante riscontra il vivo e ’l vero.
Quinci vede fuggir le greche schiere,
quindi le frigie: a quelle Ettorre infesto,
a queste Achille, a cui parea d’intorno{{R|760}}
che solo il suon del carro e solo il moto
del cimiero avventasse orrore e morte.
 
Né senza lagrimar Reso conobbe
ai destrier bianchi, ai bianchi padiglioni,
fatti di sangue in mille parti rossi:{{R|765}}
che sotto v’era Dïomede, anch’egli
insanguinato; e si facea d’intorno
alta strage di gente che nel sonno,
prima che da lui morta, era sepolta.
Vedea quindi i cavalli al campo addotti,{{R|770}}
che non potêr (fato a’ Troiani avverso!)
di Troia erba gustare, o ber del Xanto.
 
Scorge d’un’altra parte in fuga vòlto
Troïlo, già senz’armi e senza vita:
giovinetto infelice, che di tanto{{R|775}}
diseguale ad Achille, ebbe ardimento
di stargli a fronte. Egli in su ’l vòto carro
giacea rovescio, e strascinato e lacero
da’ suoi cavalli, avea la destra ancora
a le redini involta, e ’l collo e i crini{{R|780}}
traea per terra; e l’asta, onde trafitto
portava il petto, con la punta in giuso
scrivea note di sangue in su la polve.
 
Ecco intanto venir di Palla al tempio
in lunga schiera ed ordinata pompa{{R|785}}
le donne d’Ilio a far del peplo offerta.
Battonsi i petti, e scapigliate e scalze
paion pregar divotamente afflitte
perdóno e pace; ed ella irata e fera,
vòlte le luci a terra e ’l tergo a loro,{{R|790}}
mostra fastidio di mirarle e sdegno.
Vede il misero Ettòr che già tre volte
tratto era d’Ilio a la muraglia intorno.
Vede il padre piú misero, ch’in forza
del dispietato e suo nimico Achille,{{R|795}}
oro in premio gli dà del suo cadavero;
spettacolo crudel che gli trafigge
profondamente e piú d’ogn’altro il core,
ove il carro, gli arnesi e ’l corpo stesso
vede d’un tanto amico, ed un re tale,{{R|800}}
che solo e disarmato e supplichevole
stassi a l’ucciditor del figlio avanti.
 
Vi riconobbe ancor se stesso, ov’era
a dura mischia incontro a’ greci eroi.
Riconobbe lo stuol che d’Orïente{{R|805}}
addusse de l’Aurora il negro figlio:
e lui raffigurò, che di Vulcano
avea lo sbergo e l’armatura in dosso.
 
Scorge d’altronde di lunati scudi
guidar Pentesilèa l’armate schiere{{R|810}}
de l’Amazzoni sue: guerriera ardita,
che succinta, e ristretta in fregio d’oro
l’adusta mamma, ardente e furïosa
tra mille e mille, ancor che donna e vergine,
di qual sia cavalier non teme intoppo.{{R|815}}
 
Stava da tante meraviglie ad una
sola vista ristretto, attento e fiso
Enea pien di vaghezza e di stupore:
quand’ecco la regina accompagnata
da real corte, con real contegno{{R|820}}
entro al tempio bellissima comparve.
Qual su le ripe de l’Eurota suole,
o ne’ gioghi di Cinto, allor Dïana
ch’a l’Orèadi sue la caccia indíce,
a mille che le fan cerchio d’intorno,{{R|825}}
divisar vari offici, e faretrata
da la faretra in su gir sovra l’altre
neglettamente altera, onde a Latona
s’intenerisce per dolcezza il core;
tale era Dido, e tal per mezzo a’ suoi{{R|830}}
se ne gia lieta, e dava ordine e forma
al nuovo regno, a i magisteri, a l’opre.
Giunta al cospetto de la diva, in mezzo
de la maggior tribuna, in alto assisa,
cinta d’armati, in maestà si pose:{{R|835}}
e mentre con dolcezza editti e leggi
porge a la gente, e con egual compenso
l’opre distribuisce e le fatiche;
rivolgendosi Enea, nel tempio stesso
vede da gran concorso attorneggiati{{R|840}}
entrar Sergesto, Anteo, Cloanto e gli altri
Troiani, che da sé disgiunti e sparsi
avea dianzi del mar l’aspra tempesta.
Stupor, timor, letizia, tenerezza
e disio d’abbracciarli e di mostrarsi{{R|845}}
assaliro in un tempo Acate e lui.
Ma, dubii del successo, entro la nube
dissimulando se ne stêro, e cheti,
per ritrar che seguisse e che seguito
fosse già de le navi e de’ compagni,{{R|850}}
di cui questi eran primi e li piú scelti
di ciascun legno. E già pieno era il tempio
di tumulto e di vóti ch’altamente
si sentian vènia risonare e pace.
 
Poiché furo entromessi, e ch’udïenza{{R|855}}
fur lor concessa, il saggio Ilïoneo
prese umilmente in cotal guisa a dire:
 
«Sacra regina, a cui dal cielo è dato
fondar nuova cittade, e con giustizia
por freno a gente indomita e superba,{{R|860}}
noi miseri Troiani, a tutti i vènti,
a tutti i mari omai ludibrio e scherno,
caduti dopo l’onde in preda al foco
che da’ tuoi si minaccia ai nostri legni,
preghiamti a proveder che nel tuo regno{{R|865}}
non si commetta un sí nefando eccesso.
Fa cosa di te degna, abbi di noi
pietà, che pii, che giusti, ch’innocenti
siamo, non predatori, non corsari
de le vostre marine o de l’altrui:{{R|870}}
tanto i vinti d’ardire, e gl’infelici
d’orgoglio e di superbia, ohimè! non hanno.
 
Una parte d’Europa è, che da’ Greci
si disse Esperia, antica, bellicosa
e fertil terra, dagli Enotrei cólta.{{R|875}}
Prima Enotria nomossi, or, come è fama,
preso d’Italo il nome, Italia è detta.
Qui ’l nostro corso era diritto, quando
Orïon tempestoso i vènti e ’l mare
sí repente commosse, e mar sí fero,{{R|880}}
vènti sí pertinaci, e nembi e turbi
cosí rabbiosi, che sommersi in parte
e dispersi n’ha tutti: altri a le secche,
altri a gli scogli, ed altri altrove ha spinti:
e noi pochi, di tanti, ha qui condotti.{{R|885}}
Ma qual sí cruda gente, qual sí fera
e barbara città quest’uso approva,
che ne sia proibita anco l’arena?
Che guerra ne si muova, e ne si vieti
di star ne l’orlo de la terra a pena?{{R|890}}
Ah! se de l’armi e de le genti umane
nulla vi cale, a dio mirate almeno,
che dal ciel vede e riconosce i meriti
e i demeriti altrui. Capo e re nostro
era pur dianzi Enea, di cui piú giusto,{{R|895}}
piú pio, piú pro’ ne l’armi, piú sagace
guerrier non fu già mai. Se questi è vivo,
se spira, se il destin non ce l’invidia,
quanto ne speriam noi, tanto potresti
tu non pentirti a provocarlo in prima{{R|900}}
a cortesia. Ne la Sicilia ancora
avem terre, avem armi, avemo Aceste
che n’è signore, ed è de’ nostri anch’egli.
Quel che vi domandiamo è spiaggia, è selva,
è vitto da munir, da risarcire{{R|905}}
i vòti e stanchi e sconquassati legni,
per poter lieti (ritrovando il duce
e gli altri nostri, o se pur mai n’è dato
veder l’Italia) ne l’Italia addurne;
ma se nostra salute in tutto è spenta,{{R|910}}
se te, nostro signor, nostro buon padre,
di Libia ha ’l mare, e piú speranza alcuna
non ci riman del giovinetto Iulo,
almen tornar ne la Sicania, ond’ora
siam qui venuti e dove il buon Aceste{{R|915}}
n’è parato mai sempre ospite e rege».
 
Al dir d’Ilïoneo fremendo tutti
assentirono i Teucri, e la regina
con gli occhi bassi e con benigna voce
brevemente rispose: «O miei Troiani,{{R|920}}
toglietevi dal cuore ogni timore,
ogni sospetto. Gli accidenti atroci,
la novità di questo regno a forza
mi fan sí rigorosa, e sí guardinga
de’ miei confini. E chi di Troia il nome,{{R|925}}
chi de’ Troiani i valorosi gesti,
e l’incendio non sa di tanta guerra?
Non han però sí rozzo core i Peni:
non sí lunge da lor si gira il sole,
che né pietà né fama unqua v’arrive.{{R|930}}
Voi di qui sempre, o de la grand’Esperia
e di Saturno che cerchiate i campi,
o che vogliate pur d’Aceste e d’Èrice
tornare ai liti, in ogni caso liberi
ve n’andrete e sicuri. Ed io d’aíta{{R|935}}
scarsa non vi sarò, né di sussidio:
e se qui dimorar meco voleste,
questa è vostra città. Tirate al lito
vostri navili: ché da’ Teucri a’ Tiri
nulla scelta farò, nullo divario.{{R|940}}
Cosí qui fosse il vostro re con voi!
cosí ci capitasse! Ma cercando
io manderò di lui fino a l’estremo
de’ miei confini la riviera tutta,
se per sorte gittato in queste spiagge{{R|945}}
per selve errando o per cittadi andasse».
 
Rincorossi a tal dire il padre Enea
e ’l forte Acate; e di squarciare il velo
stavan già disïosi. Acate il primo
mosse dicendo: «Omai, signor, che pensi?{{R|950}}
Tutto è sicuro, e tutti a salvamento
i nostri legni e i nostri amici avemo.
Sol un ne manca; e questo a noi davanti
il mar sorbissi. Ogni altra cosa al detto
di tua madre risponde». A pena Acate{{R|955}}
ciò disse, che la nugola s’aperse,
assottigliossi e col ciel puro unissi.
Rimase in chiaro Enea, tale ancor egli
di chiarezza e d’aspetto e di statura,
che come un dio mostrossi: e ben a dea{{R|960}}
era figliuol, che di bellezza è madre.
Ei degli occhi spirava e de le chiome
quei chiari, lieti e giovenili onori
ch’ella stessa di lui madre gl’infuse.
Tale aggiunge l’artefice vaghezza{{R|965}}
a l’avorio, a l’argento, al pario marmo,
se di fin oro li circonda e fregia.
Cotal, comparso d’improvviso a tutti,
si fece avanti a la regina, e disse:
 
«Quegli che voi cercate, Enea troiano,{{R|970}}
son qui, dal mar ritolto. A te ricorro,
vera regina, a te sola pietosa
de le nostre ineffabili fatiche.
Tu noi, rimasi al ferro, al fuoco, a l’onde
d’ogni strazio bersaglio, d’ogni cosa{{R|975}}
bisognosi e mendíci, nel tuo regno
e nel tuo albergo umanamente accogli.
A renderti di ciò merito eguale
bastante non son io, né fôran quanti
de la gente di Dardano discesi{{R|980}}
vanno per l’universo oggi dispersi.
Ma gli dèi (s’alcun dio de’ buoni ha cura,
se nel mondo è giustizia, se si truova
chi d’altamente adoperar s’appaghe)
te ne dian guiderdone. Età felice!{{R|985}}
Avventurosi genitori e grandi
che ti diedero al mondo! Infin che i fiumi
si rivolgono al mare, infin ch’a’ monti
si giran l’ombre, infin c’ha stelle il cielo,
i tuoi pregi, il tuo nome e le tue lodi{{R|990}}
mi saran sempre, ovunque io sia, davanti».
 
Ciò detto, lietamente a’ suoi rivolto,
al caro Ilïonèo la destra porse,
la sinistra a Sergesto, e poscia al forte
Cloanto, al forte Gía: l’un dopo l’altro{{R|995}}
tutti gli salutò. Stupí Didone
nel primo aspetto d’un sí nuovo caso,
e d’un uom tale; indi riprese a dire:
 
«Qual forza o qual destino a tanti rischi
t’hanno in sí strani, in sí feri paesi{{R|1000}}
esposto, o de la dea famoso figlio?
E sei tu quell’Enea che in su la riva
di Simoenta il gran dardanio Anchise
di Venere produsse? Io mi ricordo
quel che n’intesi già da Teucro, quando,{{R|1005}}
fuor di sua patria, il suo padre fuggendo,
nuovi regni cercava. Egli a Sidone
venne in quel tempo a dar sussidio a Belo.
Belo mio padre allor facea l’impresa
e ’l conquisto di Cipro. Infin d’allora{{R|1010}}
io del caso di Troia e del tuo nome
e de l’oste de’ Greci ebbi notizia.
Ed ei ch’era sí rio nimico vostro,
celebrava il valor di voi Troiani,
e trar volea da Troia il suo legnaggio.{{R|1015}}
Voi da me dunque amico e fido ospizio,
giovini, arete. E me fortuna ancora,
a la vostra simíle, ha similmente
per molti affanni a questi luoghi addotta:
sí che natura e sofferenza e pruova{{R|1020}}
de’ miei stessi travagli ancor me fanno
pietosa e sovvenevole a gli altrui».
 
Ciò detto, Enea cortesemente adduce
ne la sua reggia. In ogni tempio indíce
feste e preci solenni. Ordina appresso{{R|1025}}
che si mandino al mar venti gran tori,
cento gran porci, cento grassi agnelli,
con cento madri, e ciò ch’a’ suoi compagni
per vitto e per letizia è di mestiero.
Dentro al real palagio, realmente,{{R|1030}}
de’ piú gentili e sontuosi arnesi
il convito e le stanze orna e prepara;
cuopre d’ostro le mura; empie le mense
d’argento e d’oro, ove per lunga serie
son de’ padri e degli avi i fatti egregi.{{R|1035}}
 
Enea, cui la paterna tenerezza
quetar non lascia, a le sue navi innanzi
ratto spedisce Acate, che di tutto
Ascanio avvisi, ed a sé tosto il meni;
ché in Ascanio mai sempre intento e fiso{{R|1040}}
sta del suo caro padre ogni pensiero.
Gli comanda, oltre a ciò, ch’a la regina
porti alcune a donar spoglie superbe
che si salvâr da la ruina appena
e dal foco di Troia: un ricco manto{{R|1045}}
ricamato a figure, e di fin’oro
tutto contesto: un prezïoso velo,
cui di pallido acanto un ampio fregio
trapunto era d’intorno: ambi ornamenti
d’Elena argiva, e di sua madre Leda{{R|1050}}
mirabil dono. In questo avea le bionde
sue chiome avvolte il dí che di Micene
a nuove nozze, e non concesse, uscio;
e porti anco lo scettro, onde superba
Ilïone di Prïamo sen giva{{R|1055}}
primogenita figlia, e ’l suo monile
di gran lucide perle; e quella stessa,
onde ’l fronte cingea, doppia corona,
di gemme orïentali ornata e d’oro.
Tutto ciò procurando il fido Acate{{R|1060}}
in vèr le navi accelerava il piede.
 
Venere in tanto con nuov’arte e nuovi
consigli s’argomenta a far che in vece
e ’n sembianza d’Ascanio il suo Cupído
se ne vada in Cartago; e con quei doni,{{R|1065}}
con le dolcezze sue, con la sua face
alletti, incenda, amor desti e furore
nel petto a la regina, onde sospetto
piú non aggia o ’l suo regno, o ’la perfidia
de la sua gente, o di Giunon l’insidie,{{R|1070}}
che da pensare e da vegghiar le danno
tutte le notti. E fatto a sé venire
l’alato dio, cosi seco ragiona:
 
«Figlio, mia forza e mia maggior possanza:
figlio, che del gran padre anco non temi{{R|1075}}
l’orribil tèlo, onde percosso giacque
chi ne diè fin nel ciel briga e spavento,
a te ricorro e dal tuo nume aíta
chieggio a l’altro mio figlio Enea tuo frate.
Come Giuno il persegua, e come l’aggia{{R|1080}}
per tutti i mari omai spinto e travolto,
tu ’l sai che del mio duol ti sei doluto
piú volte meco. Or la sidonia Dido
l’ave in sua forza, e con benigni e dolci
modi fin qui l’accoglie e lo trattiene.{{R|1085}}
Ma là dov’è, lassa! che val, comunque
sia caramente accolto? in casa a Giuno
da le carezze ancor chi m’assicura?
Ch’ella piú neghittosa o meno atroce,
in un caso non fia di tanto affare.{{R|1090}}
E però con astuzia e con inganno
cerco di prevenirla, e del tuo foco
ardere il cuor de la regina in guisa,
ch’altro nume nol mute, e meco l’ami
d’immenso affetto. Or come agevolmente{{R|1095}}
ciò porre in atto e conseguir si possa,
ascolta. Enea manda testé chiamando
il suo regio fanciullo, amor supremo
del caro padre, e mio sommo diletto,
perché de’ Tiri a la città sen vada{{R|1100}}
con doni a la regina, che di Troia
a l’incendio avanzarono ed al mare.
Questo vinto dal sonno, o sopra l’alta
Citèra, o dentro al sacro bosco Idalio
terrò celato sí ch’ei non s’accorga,{{R|1105}}
ed accorto di ciò non faccia altrui
con alcun suo rintoppo. E tu che puoi,
fanciullo, il noto fanciullesco aspetto
mentire acconciamente, in lui ti cangia
sola una notte, e gli suoi gesti imita.{{R|1110}}
E quando Dido al suo real convito
riceveratti, e, come a mensa fassi,
sarà, bevendo e ragionando, allegra;
quando, come farà, cortese in grembo
terratti, abbracceratti, e dolci baci{{R|1115}}
porgeratti sovente, a poco a poco
il tuo foco le spira e ’l tuo veleno».
 
Al voler della sua diletta madre
pronto mostrossi e baldanzoso Amore,
e gittò l’ali; ed in un tempo l’abito{{R|1120}}
e ’l sembiante e l’andar prese di Iulo.
Ciprigna intanto al giovinetto Ascanio
tale un profondo e dolce sonno infuse,
e ’n guisa l’adattò, che agiatamente
in grembo lo si tolse; e ne la cima{{R|1125}}
de la selvosa Idalia, entro un cespuglio
di lieti fiori e d’odorata persa,
a la dolce aura, a la fresc’ombra il pose.
Cupído co’ suoi doni allegramente,
per far quanto gli avea la madre imposto,{{R|1130}}
con la guida si pon d’Acate in via.
Giunse che giunta era Didone appunto
ne la gran sala, che di fini arazzi,
di fior, di frondi e di festoni intorno
era tutta vestita, ornata e sparsa.{{R|1135}}
E già sopra la sua dorata sponda
con real maestà s’era nel mezzo
a tutti gli altri alteramente assisa.
Appresso Enea, poscia di mano in mano
sopra drappi di porpora e di seta{{R|1140}}
si stendea la troiana gioventute.
Già con l’acqua e con Cerere a le mense
gli aurati vasi e i nitidi canestri
e i bianchissimi lini eran comparsi.
Stavano dentro, a le vivande intorno,{{R|1145}}
intorno a’ fuochi, a dar ordine a’ cibi,
cinquanta ancelle, ed altre cento fuori
con altrettanti di una stessa etade
tra scudieri e pincerni; e gli atrii tutti
si rïempiêr di Tiri, a cui le mense{{R|1150}}
di tappeti dipinti eran distese.
 
A l’apparir del giovinetto Iulo
corser tutti a mirare il manto e ’l velo
e gli altri ch’adducea leggiadri arnesi,
a sentir quelle sue finte parole,{{R|1155}}
a contemplar quel grazïoso aspetto,
ch’ardore e deità raggiava intorno.
Ma sopra tutti l’infelice Dido
non potea né la vista, né ’l pensiero
saziar, mirando or gli suoi doni, or lui;{{R|1160}}
e com’ piú gli rimira, e piú s’accende.
 
Poiché lunga fïata umile e dolce
del non suo genitor pendé dal collo,
e finse di figliuol verace affetto,
si volse a la regina. Ella con gli occhi,{{R|1165}}
col pensier tutto lo contempla e mira:
lo palpa, e ’l bacia, e ’n grembo lo si reca.
Misera! che non sa quanto gran dio
s’annidi in seno. Ei de la madre intanto
rimembrando il precetto, a poco a poco{{R|1170}}
de la mente Sichèo comincia a trarle,
con vivo amore e con visibil fiamma
rompendole del core il duro smalto,
e ’ntroducendo il suo già spento affetto.
 
Cessati i primi cibi, e da’ ministri{{R|1175}}
già le mense rimosse, ecco di nuovo
comparir nuove tazze e vino e fiori,
per lietamente incoronarsi e bere.
 
Quinci un rumoreggiare, un riso, un giubilo
che d’allegrezza empian le sale e gli atrii.{{R|1180}}
E i torchi e le lumiere che pendevano
da i palchi d’oro, poiché notte fecesi,
vinceano ’l giorno e ’l sol, non che le tenebre.
Qui fattosi Didone un vaso porgere
d’oro grave e di gemme, ov’era solito{{R|1185}}
ne’ conviti e ne’ dí solenni e celebri
ber Belo, e gli altri che da Belo uscirono,
di fiori ornollo, e di vin vecchio empiendolo,
orò, cosí dicendo: «Eterno Giove,
che, Albergator nomato, hai de gli alberghi{{R|1190}}
e de le cortesie cura e diletto,
priegoti ch’a’ Fenici ed a’ Troiani
fausto sia questo giorno, e memorando
sempre a’ posteri loro. E te, Lièo,
largitor di letizia, e te, celeste{{R|1195}}
e bionda Giuno, a questa prece invoco.
Voi co’ vostri favori, e Tiri e Peni,
prestate a’ prieghi miei divoto assenso».
 
Ciò detto, riversollo, e lievemente
del sacrato liquor la mensa asperse,{{R|1200}}
poscia ella in prima con le prime labbia
tanto sol ne sorbí quanto n’attinse.
Indi con dolce oltraggio e con rampogne
a Bizia il diè, che valorosamente
a piena bocca infino a l’aureo fondo{{R|1205}}
vi si tuffò col volto, e vi s’immerse.
Ciò seguîr gli altri eroi. Comparve intanto
co’ capei lunghi e con la cetra d’oro
il biondo Iopa: e, qual Febo novello,
cantò del ciel le meraviglie e i moti{{R|1210}}
che dal gran vecchio Atlante Alcide apprese.
Cantò le vie che drittamente torte
rendon vaga la luna e buio il sole;
come prima si fêr gli uomini e i bruti;
com’or si fan le piogge e i venti e i folgori:{{R|1215}}
cantò l’Iade e l’Orse e ’l Carro e ’l Corno,
e perché tanto a l’Oceàno il verno
vadan veloci i dí, tarde le notti.
 
Un novo plauso incominciaro i Tiri:
seguiro i Teucri: e l’infelice Dido,{{R|1220}}
che già fea dolce con Enea dimora,
quanto bevesse amor non s’accorgendo,
a lungo ragionar seco si pose
or di Priamo, or d’Ettorre, or con qual’armi
venisse a Troia de l’Aurora il figlio,{{R|1225}}
or qual fosse Diomede, or quanto Achille.
«Anzi, se non t’è grave, - al fin gli disse -
incomincia a contar fin da principio
e l’insidie de’ Greci e la ruina
e l’incendio di Troia, e ’l corso intero{{R|1230}}
de gli errori vostri: già che ’l settim’anno
e per terra e per mar raminghi andate»
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