Osservazioni, progetti, e consigli risguardanti l'agricoltura nel Trentino ora Tirolo italiano: differenze tra le versioni

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<big>OSSERVAZIONI PROGETTI E CONSIGLI RIGUARDANTI L’AGRICOLTURA NEL TRENTINO</big><br/>ORA TIROLO ITALIANO
 
<pages index="Osservazioni progetti e consigli risguardanti l agricoltura 1839.djvu" from=6 to=80/>
del sacerdote Gioseffo dei Pinamonti
 
<small>Trento – dall’I. R. Stamperia Monauni – 1839</small>
</center>
 
''Sforzare la natura del Paese è stoltezza; tentar di perfezionare i vantaggi suoi naturali, e di scegliere il maggior partito possibile, è abbietto dell'attenzione del Saggio.''<br/>
:''Bertrand''
 
===PREFAZIONE===
 
Io che, dopo i Nauni Cristiani, e Tecini, le opere dei quali raccomandava che si leggessero, accennai, forse primo, a non pochi difetti ed ai rimedii in riguardo alle nostre agrarie operazioni, e ch'esternai il desiderio di veder sorgere tra noi un'agraria Accademia, ora che questa si è di colti periti individui composta col nome di Società, pago di vedere il voto mio esaudito, dovrei starmi in aspettazione, e sperare.
 
Ma, sia amor proprio, o sia brama di essere giovevole ancor io, di che lascio giudice chiunque sa e vuole essere giusto, non posso non secondare la voglia che sento di pubblicar intorno alle cose spettanti alla nostra coltura delle terre alcune brevi scritture che ho in varii tempi abbozzate a fine di persuadere a me stesso che d'agricoltura parlando non direi tutto a sproposito.
 
Non scrivo, e non saprei, per gli uomini scienziati, mancami dottrina, erudizione, eloquenza degne della loro attenzione. Parlo a' miei Concittadini non affatto idioti; i quali spero che, appunto perché il mio dire è semplice e piano, potranno intendermi facilmente, e forse anche un qualche poco approfittare.
 
Perché credo che la voce: Terrecoltura spieghi meglio e sia più facilmente intesa dai nostri Villici che l'usitata: Agricoltura, senza guardare s'ella sia registrata nel dizionario la userà senza scrupolo.
 
==DELLO STATO NEL QUALE FU ED E' LA TERRECOLTURA NEL TERRITORIO DEL PRINCIPATO==
 
Sin verso la fine del passato secolo decimottavo fu la Terrecoltura in questo paese, che la natura con invidiata parzialità favorisce, per un certo abitual languore degli abitanti, da più cause prodotto, con grave nostro danno trascurata anzi che no.
La gente di campagna lavorava, ma i lavori eseguivansi dietro metodi imperfetti, con dichiarata avversione ad ogni novità, senz'altre cognizioni che quelle dell'inveterata, pratica, e senza viste di utili maggiori. Quello che i giovani avevan veduto farsi dai vecchi era tutto ciò che potevasi; non si pensava neppure che fosse possibile fare meglio o di più, Sarebbe stato pensar male de' buoni vecchi; i quali, essendo buoni, dovevano anche sapere e fare tutto in eccellenza.
 
I ricchi possidenti di terreni erano intenti a tutt'altro che al lavoro delle campagne. Alcuni di essi ignoravano dove i proprii fondi un poco lontani fossero situati. I loro affittuali e coloni ricevevano documenti nelle scritture, dette di Locazione, che i padroni non leggevano, ed essi non sapevano leggere. Se qualche Signore faceva eseguire un'opera agraria, la spesa era grande, e l'opera si faceva male, perché gli operai erano inabili; e male o ben fatta, si trascurava direi quasi dai più. Per ciò era divenuta massima generale che al ricco non torna a conto lavorare a sue spese la campagna. Si potea dire, e dicevasi, qual che ne fosse poi la cagione, che i terreni più male coltivati erano in generale quelli de' ricchi.
 
Molti fra gli Ecclesiastici lasciavano anch'essi in abbandono i fondi spettanti ai loro benefizii o per indolenza, o per timore di spendere, o per ignoranza, di un'arte la quale, a fine di porgere esempi di operosità, di promuovere il benessere nel popolo, e con ciò scemare i disordini causati dalla povertà, esser dovrebbe la più ricercata e cara ricreazione del Sacerdote.
 
I Comuni, allora liberissimi di fare del proprio tutto ciò che volevano, lasciavano scemarsi per frane, o volevano ad uso di pascolo, credendo ciò necessario, i pubblici terreni; e abbandonavano a marcire nelle selve travi e legname, oppur facevano de' boschi inutili guasti, o li vendevano per sostenere lunghe liti. Ovvero per comperare grani, di cui potevano avere abbondanza coltivando in maggiore quantità e meglio le proprie terre. Ad aver buone, brevi e comode vie sul piano e ne' monti si pensava in pochi luoghi; e così poca era la cura che se n'avea, che al presente il voler renderle praticabili costa ai paesi incredibili somme.
 
A praticare acquedotti non s'induceva la gente perché si dipingeva la impresa impossibile, o per le enormi somme che sarebbonsi dovute esporre, al tutto ruinosa. I torrenti e i fiumi avevano pochi e malfermi ripari, ovvero tali che apportavano danni invece di giovamento; sicché vedevansi tratti assai vasti di buon terreno o rapiti dalle correnti, o coperti di ghiaje, o ridotti a paludi.
 
Da siffatta indolenza e trascuranza, da tal languore quasi universale dell'inesperta popolazione, avevano origine mali gravissimi; tra i quali il non minore era deficienza di numerario, perché il commercio, ch'esser poteva in molti rami attivo, e quindi sorgente di nuova industria, e d'utile sempre crescente, era per necessità passivo, e le genti invece di vantaggiarsi contraevano debiti, e dovevano ancora talvolta, soffrire penuria, e starsi affamate.
 
Questo misero stato, che non impediva ciò che suole avvenire quasi dappertutto, il crescere della popolazione, (perché, la salubrità del clima nelle valli alte, e lo starsi nella solitudine contenti al poco, e non assuefatti ad alcuna sorte di lusso, e segnatamente la religiosità madre del buon costume, favorivano e facean prosperare i matrimonii) costrinse una parte del popolo ad emigrare per più mesi dell'anno; e questa emigrazione, oltre all'utile del minore consumo che ne risultava, portò in paese denaro, esperienza, operosità, emulazione. I contadini, fatti coraggiosi dalla speranza di migliorar condizione, diedero mano a lavorar meglio i loro campi, e da essi, specialmente nelle valli, dove quasi ognuno possede poco o molto in terreni, cominciò (verità notabile) il movimento, e 'l progresso. Qualche Signore, non atterrito dall'insensato e funesto: non torna a conto: diede col suo esempio eccitamento all'operare più, e meglio; alcuni benemeriti Ecclesiastici fecero altrettanto sprezzando le calunnie de' poltroni, e invidiosi; ma il progresso non sarebbesi veduto se i Villani non avessero dato principio, e poi chiesto con suppliche e con minacce divisione di terreni comunali, ed arginazioni ai fiumi, e offerto ai ricchi migliori condizioni per poter coltivar meglio le loro terre. Noi vedemmo ridotti a coltura jugeri di terra a migliaja per le istanze ed importunità de' poveri contadini, e dopo di ciò accresciuti i prezzi a favore di chi affittò i suoi fondi, nel nostro paese quasi dappertutto.
 
Succedettero poi le guerre, e i rivolgimenti politici; e quello che temevasi, dover apportare esterminio e miseria (ciò che avverossi per alcune famiglie) produsse invece bisogno di operare, sparse cognizioni ed esperienze nuove, difuse denaro, eccitò emulazione, aprì nuovi rami all'industria, procurò mezzi a chi nulla o poco possedeva in terreni di farne acquisto, e di ridurli a vantaggiosa coltura. I ricchi che non alienarono a mercanti od a contadini i loro fondi, venderono più cari i frutti delle campagne, e furono con ciò ammaestrati che in difetto di altri mezzi venuti loro a mancare, per non andar in totale decadimento bisognava rivolgersi alla coltivazione più diligente delle proprie terre. I poveri trovarono chi domandò e premiò l'opera loro, e per la operosità di questi, succeduta all'ozio cui erano condannati dapprima, crebbe notabilmente il benessere del paese. Chi vuol fare spassionato confronto tra lo stato in cui trovavasi il Trentino cinquant'anni addietro, e quello nel quale si trova al presente, è obbligato a confessare, che noi migliorammo d'assai, e che questo miglioramento è dovuto alla più diligente, e più ben regolata coltura delle campagne.
 
Sì, noi abbiam fatto nell'Agricoltura notabili progressi, prove ne sono le molte paludi, e gli ampii terreni, che giacevano prima infruttuosi, ridotti a prati ed a campi; i fondi, che stavano da gran tempo negletti, al presente rinovati: gli acquedotti qua e là praticati; le spese enormi fatte per assicurarsi dai guasti che portavano fiumi e torrenti; l'uso della patata generalizzato; le numerose, e più regolari, e più diligentemente curate piantagioni di viti e di gelsi; le strade in molti luoghi migliorate; il numero de' mendicanti ridotto a pochi più sventurati che inoperosi; i prezzi delle campagne aumentati d'un terzo e fin di due.
 
Ma sarebbe in inganno chi si desse a credere che poco più altro si possa fare, e che ciò che si fa sia tutto ben fatto. Ci rimangono ancora molti lavori, o maniere di coltivazione, cui pochi pongono mente, e in generale parlando la nostra Terrecoltura ha tali mancanze che impediscono dell'arte il progresso ed i vantaggi. Veggiamo ancora e rivi e torrenti cagionare grandi ruine, e portarsi via a poco a poco larghi tratti di terreno, e fin di colte campagne. Abbiamo vaste lande incolte, e terreni trascurati, che messi a coltura produrrebbero grano ed altri frutti in abbondanza. Si coltiva in poca quantità alberi da frutto, e piante ortensi (erbaggi) e in invece di fare di varie sorti di eccellenti frutta utile smercio, ne facciam compera dai vicini.
 
Il gelso o la vite sono da alcuni coltivati, o piuttosto trascurati in guisa, che se ne ritrae il minimo utile possibile, o si coltivano in luoghi dove non è a sperare che paghino la spesa, ovvero dove si potrebbe ricavare da altri generi frutto più necessario e più abbondante. Le vie consortali, e fin le comunali, sono in più luoghi così male dirette e mal tenute, che ne viene ritardo notabile ai lavori nelle campagne, e perdita di grande quantità di terreno per li mostruosi loro giri e rigiri, e per li danni che debbonsi cagionare da chi vi passa o pedestre o con carri. Benché siamo tra monti scarseggiamo in legname necessario ai moltiplici usi, perché o non si approfitta de' boschi dei privati e delle selve de' Comuni, o profittandone si distrugge e non si ha cura di rinovare e perché i tagli si fanno da interessati speculatori i quali, con danno del pubblico, vendono i legni agli estranei. Voi viaggiate per giorni interi senza vedere un Alveare; e noi potremmo e dovremmo averne a migliaja. Si conosce ancora poco la maniera di aumentare, perfezionare, ed usar con vantaggio i concimi, e là dove se n'ha scarsezza ignorasi da molti il modo onde poter supplirne il difetto. E chi vi è che, persuaso della necessità, e utilità grandissima de' prati, procuri di averne in sufficiente quantità? La massima delle mancanze è questa. Finché non avremo buone praterie, e molto bestiame, e abbondanza di concime, non si potrà mai dire che tra noi prosperi 1'Agricoltura. Fate pure piantagioni di viti, ingombrate pure le campagne con selve di gelsi; ma ove il terreno manchi di concime che lo fecondi, il frutto di questi e di quelle sarà sempre scarso, e vi mancherà il grano, e dovrete, invece di fare commercio attivo di bestiame, comperar care le carni.
 
==DE’ MEZZI ONDE ISTRUIRE ED ANIMARE LA GENTE A DARSI DI PROPOSITO ALLA COLTURA DELLE TERRE.==
 
Se vero è, com'è verissimo, che molto ancora ci rimane a fare acciocché possa dirsi che il nostro paese prospera per la Terrecoltura, gli amatori del pubblico bene debbono farsi la domanda: Come si può animare la gente a coltivare con nuovo e maggior utile i terreni e come porgere ammaestramenti intorno alla maniera di far bene e con vantaggio quello che per ciò farsi dee?
 
Io sono sempre stato e resto nella persuasione, che le opere scritte dai Dotti usando il linguaggio della Istoria naturale, della Chimica, e della Fisica, possano apportare poco giovamento. Se ne stamparono molte erudite, nelle quali si leggono utili esperienze. Ma quanti sono quelli che ne sieno proveduti? quanti che le intendano? quanti che facciano parte delle acquistate cognizioni ai Villici che non possono i grossi e scienziati volumi leggere ed intendere. Se la lettura di tali opere ha ad esser utile, e nessuno sarà ardito di negarlo, ciò si può dire solo delle persone colte; ma al popolo riuscirà di giovamento sol tardi, cioè quando le colte persone avranno esposti in modo persuasivo i letti insegnamenti ai contadini. E chi è che voglia esercitare questo uffizio colla necessaria insistenza? Converrebbe levar prima quel cotal muro di separazione che è tra 'l povero e 'l ricco, tra lo scienziato e l'idiota.
 
Per ciò io dico, e me lo insegnò esperienza, che il mezzo più pronto e più efficace d'istruire e insieme animare ogni sorta di gente è, come in tutte le cose, anche in questa: Dare esempi. Alle teorie pochi porgono orecchio e pochi credono: gli esempi convincono e persuadono. Si è veduto che tutte le agrarie operazioni bene riuscite furono tosto imitate da molti. Quando l'utile è certo, l’interesse eccita a fare: e se l'interesse è ancora indeciso, stimola l'invidia, o la vergogna. E giova più il dire: Il tale nel tal luogo ha fatta la tale operazione, e se ne chiama contento perché ne ritrae molto utile; che l'esortare a leggere un libro od un giornale. Ovvero trattenersi ed esporre quello che nel libro o nel giornale si è letto.
 
Persuadansi gli amministratori de' Comuni, e i proprietarii de' fondi che, dovendo uscire del loro paese, l'obbligo assunto da quelli e l'interesse proprio di questi, comandano di aprire gli occhi, di osservare là dove passano come sono coltivate le campagne, e di notare i lavori nuovi, e d'interrogare, e poi riferire ai concittadini quello che venne loro veduto ed udito; e in breve tempo o s'immiterà il bene ed utilmente fatto, o si faranno progetti intorno alla possibilità e maniera d'immitare. Dal progettare all'eseguire è sovente un breve passo. Quest'uffizio dell'esporre quello, che si è osservato di utile, e di rendere generale il notarsi, l'interrogare, il riferire esortanti o all'immitazione, può, e come cittadino e cristiano dee, adempierlo ognuno. Parlino delle avvenenti e belle donne vedute, dei divertimenti goduti, della maniera di vivere in altri paesi lontani e vicini, se così loro piace, quelli che per molto o per poco si allontanano dalla patria; ma per onor proprio, e per utile di questa patria (che si ama solo coll'esserle giovevole) sia anche un dovere il mettere in cognizione i proprii paesani di quello che si è veduto farsi altrove con vantaggio in ciò che riguarda nel più ampio senso la Terrecoltura.
 
Se tutti volessero adempiere quest'uffizio, che io reputo doveroso, noi vedremmo in breve incominciarsi tra noi qui e lì opere utilissime. Ed ove quelli che sanno esporre con chiaro e piano stile i loro pensamenti volessero per amore del pubblico bene mettersi a dettare le loro osservazioni, e farle in piccoli volumetti stampare, questi, costando poco, si divulgherebbero prestamente, se pur quelli che vi han obbligo volessero all'util opera dar mano. Quasi in ogni piccola terra vi è scuola per li fanciulli, e ai più vili enti si danno in premio de' libriciuoli. Chi sceglie codesti libri? Non persone che sanno, e pel bene pubblico nutrono amore, ma i librai quasi sempre, ai quali si dice: Datemi per tanti fiorini libri ben legati che servano da distribuire per premii ai bravi scolari. Oh, chieggano i Curatori d'anime che sien donati buoni libri di solida e pura morale; ma i Direttori de' Comuni, di accordo con essi, offrano anche in premio libercoli che trattano di cose agrarie ed economiche! Con questo mezzo se ne potrebbe difondere in poco tempo buon numero per tutto il paese; nelle famiglie de' premiati, essendo i libri scritti come conviene, si leggerebbero con piacere, e il fine che gli scriventi si proponevano, si otterrebbe indubitatamente.
 
In queste operette dovrebbonsi nominare i luoghi e le persone che in quelli eseguirono agrarie operazioni immitabili. Da ciò verrebbe doppio vantaggio: i volonterosi di approfittare degli esempi si porterebbero a vedere ed imparare; e quelli che fatta avessero cosa utile, vedendosi nominati con lode, ne avrebbero il meritato premio d'onore. L'onore che si tributa spontaneo al buono ed operoso cittadino è più pregevole assai, e produce maggior bene che ogni altro premio; perché quest'altra sorte di premi lascia sovente sospettare che siensi ottenuti per intrighi rubandoli ai meritevoli.
 
==METODO USATO NELL’ISTRUIRE I GIOVANI CONTADINI DA UN MAESTRO DI SCUOLA==
 
Un Maestro di scuola in un villaggio aveva osservato ei medesimo e letto, che la gente di questo mondo segue nell'operar suo i dettami che sono il risultato de' suoi pensamenti, cioè che opera quello di che la sua mente è più occupata: e notato aveva ancora che le menti delle persone si occupano in tutta la vita unicamente, o principalmente, di quello che videro ed udirono per lungo spazio di tempo nella loro gioventù. Sapendosi egli obbligato d'insinuare a' suoi scolari sentimenti religiosi, ma pur anco d'istradarli al bene e volonterosamente operare nella loro condizione di contadini, che è pur cristiano precetto, il quale osservato apporta utile per questa e per l'altra vita, fondando le sue speranze sul principio esposto, immaginò maniera di rendere la istruzione piacevole e fruttuosa, maniera che un esito felice coronò.
 
Doveva insegnare aritmetica, e date le regole delle principali operazioni, incominciò, così per passatempo, il numerar coll'ajuto de' fanciulli quanti uomini, e quante donne, giovani e vecchi; vivevano in quella terra, e ne risultò il numero della popolazione.
 
Poi fecero insieme il calcolo di quelli che sono atti al travaglio in campagna, di quelli che non possono lavorarvi, di quelli che stanno ivi lavorando tutto l'anno, e di quelli ch'emigrarono per lavorare o servire altrove, dal quale calcolo risultò quanti sieno i lavoranti, e per quanto tempo un uomo, una donna, possa in tutta la sua vita lavorare in pro suo e di altri. Passò indi a computare il frutto annuo che si ricava dalla terra lavorata dai proprii paesani in carri di fieno, staja di grano, misure di vino, libbre di seta, passi di legname ec. e ridotta la somma a denaro, vi si aggiunse il guadagno di quelli che vanno a lavorare fuor di paese.
 
Il numero delle bestie nutrite nella villa, fin delle galline, si rilevò dai ragazzi in un momento: poi si fece computo di quanto esse costino in opera di chi ne ha cura, in fieno, in grano, in patate ec. Fatto questo si esaminò quanto sia il frutto che se ne ricava in concime, in latte, in uova, in carni, in pelli, e in denaro effettivo colla vendita degli allievi: e della somma totale si fece detrazione di quello, che si rilevò uscire per comperare animali.
 
Altre volte numeravansi le case della villa, e, considerata la condizione d'ognuna, avendo riguardo ai comodi e alle mancanze, se ne faceva la stima; indi si rilevava il valore de' carri, de' rustici attrezzi, delle mobilie di una casa, indagando quali e quanti oggetti si preparavano in paese, e quelli e quanti si debbono comperare, e a qual prezzo, e con che si pagano. Non tralasciò poscia di fare il novero degli artigiani che lavorano in paese e di quelli che mancano, e delle somme che debbonsi esporre per pagare l'opera degli estranei. Calcolò il guadagno annuo d'un calzolaio, d'un sarto, di un tessitore, d'un fabbro, d'un falegname, d'un muratore, e fece sopra ciò sue riflessioni.
 
Venne a parlare del necessario e del superfluo in cibi, in bevande, in vestimenti, in viaggi, in ricreazioni, e tutto sottopose a calcolo quanto potevasi esatto, e tirò conseguenze, e fece, e indusse i giovani a fare osservazioni, e proponimenti. Questi calcoli davangli poi l'opportunità di chiedere quanti e quali fossero i campi, i prati, le vigne, i boschi, in cui scorgevasi diligente coltura; e numerando, ed approssimativamente misurando que' tratti di terreno che vedevansi trascurati, e potevansi coltivare meglio, alla maniera di quelli, mostrava a conti fatti quanta maggiore prosperità goderebbe quel paese quando tutti coltivassero bene le loro terre.
Non voglio essere nojoso ai Lettori col dire tutto quello che il bravo e zelante Maestro venne col suo metodo insegnando ai ragazzi. Ognuno può dal detto immaginarselo facilmente. Ma ben debbo far osservare che gli Scolari si prestavano con piacere a tutte le operazioni, e che andavano a gara nell'osservare, e riferire tutto con esattezza. E quello che più importa che sappiasi è, che quel rivolgere l'attenzione sopra ogni cosa spettante all'agricoltura e all'economia, quel porre tutto a calcolo, valse ad istruire eccellentemente, nelle cose necessarie ed utili a sapersi e a farsi, quella generazione, dalla quale sortirono bravi agricoltori e saggi economi, che notabilmente migliorarono la propria condizione, e quella di tutto il villaggio.
 
==DANNI CHE APPORTA IL REGOLARSI NELLE OPERE AGRARIE DIETRO LE MUTAZIONI DELLA LUNA==
 
Quelli i quali credono che la Luna colla sua debol luce, o con altro che non sanno spiegare, influisca su molte cose, e specialmente su le piante, favorendo o danneggiando col nascondersi, o col farci vedere le corna, o col mostrarsi tutta bella e ridente, ovvero turbata e maninconiosa, affermano che le sue influenze sono provate dall'esperienza.
 
Io non voglio dire che i favori o disfavori attribuiti alla Luna sono certamente effetti di altre cause molto influenti, quali sono peresempio 1'umido o il secco, la frigidezza o il calore, la magrezza o la pinguedine della terra, i venti o caldi o freddi, il ciclo nuvoloso o sereno, la qualità delle sementi, la maniera usata nella coltura delle piante, l'ora stessa in cui si è fatta l'operazione, ed altre ancora
facili a indovinarsi, tutte efficaci e d'innegabile influenza.
 
Non voglio nemmeno far osservare che quelli i quali non hanno agl'influssi della Luna credenza, delle sue buone o cattive influenze non s'avvedono mai; e che operando secondo le buone regole e a tempo debito, senza punto badare alla Luna, ritraggono dai loro fondi quel tanto che ne ricevono gli osservatori di quella, e sovente di più, e di migliore qualità. Questo è pure confermato dall'esperienza. Ed io potrei nominare famiglie non poche le quali hanno campagne ben lavorate, e fruttanti assai, e non curansi mai di sapere i quarti della benedetta Luna.
 
So che coloro i quali credono di aver a regolare le operazioni campestri secondo i detti quarti, dicono che il prodotto sarebbe ancora più abbondante e migliore, se quelli volessero persuadersi che la Luna influisce, e prendessero norma nel lavorare da essa. Ma io so un'altra cosa, ed è a questa cosa che vorrei che si mettesse attenzione. So, e può saperlo chiunque non va per li campi cogli occhi chiusi, che l'operare secondo le fasi, o, come diciamo, secondo i quarti della Luna, cioè in Luna detta buona, apporta spesso danni gravissimi.
 
Avviene assai volte che la stagione, per molte ragioni tutte naturali e facili a conoscersi, non permette che si facciano certi lavori. Ma la Luna è buona, dunque si fanno: s'innestano alberi, si vangan orti, si arano campi, e vi si spargono i semi. Il freddo, e l'intemperie continuano in onta della buona Luna, e gl'innesti vanno a male, e le sementi marciscono, o crescono bensì ma lentamente e deboli le piante, e il frutto o si perde o si ha molto scarso. Queste opere eseguite otto o dieci dì più tardi sarebbono riuscite felicemente, perché la stagione diveniva intanto più favorevole. A chi fosse ardito di negare queste verità converrebbe dire: Apri gli occhi, e bada meglio a' fatti tuoi.
 
L’anticipare per cagion della Luna le agrarie operazioni è danno grave; ma a diferirle perché la Luna non è buona, lo rende ancora maggiore. La stagione è propizia, il tempo è bello; chi non osserva la Luna lavora e compie le opere sue perfettamente. Quelli che aspettano la buona Luna stannosi intanto oziosi predicendo ai lavoranti disgrazie; e quando il calendario dice: ora la Luna è al vero punto, ora è tempo di lavorare: sopraggiunge il vento, il freddo, la pioggia, o il terreno si è indurito per calore, secondo le stagioni, e lavorare o non si può, o si può con disagio, e con pena, e male, o troppo tardi. Quante volte non abbiamo noi veduto accadere questi inconvenienti? E chi potrebbe calcolarne li danni?
 
Il saggio, ponendo mente alle dette esperienze, risolverà di fare più conto degl'influssi del Sole, e di regolare le operazioni sue agrarie piuttosto dietro lo stato e la condizione delle stagioni e del tempo, che dietro le fasi della Luna, i cui influssi o son nulli, o sono tali da non curarsene. Io per me crederò agl'influssi della Luna quando mi si avrà provato chiaro con buone ragioni, che gli effetti attribuiti a questi influssi non possono essere prodotti da nessuna altra causa; e intanto mi terrò fermo nel credere che le vere cause della buona o mala riuscita nella coltivazione sono indubitatamente quelle che ho esposte di sopra. Alle quali vorrei che la gente mettesse per il suo bene molta attenzione.
 
==DEL TORNA O NON TORNA A CONTO IN RIGUARDO ALLA COLTURA DELLE VITI.==
 
Vi fu tempo nel quale, sebbene convenzioni tra i Vescovi Principi di Trento e Bressanone, indi ordinanze de' Conti del Tirolo avvocati delle due Chiese, mettessero impedimento al libero smercio de' vini trentini in terra tedesca, pure, poiché il vino era quasi il solo genere con cui facevasi dagli abitanti della valle d'Adige qualche commercio attivo, tornava loro a conto il coltivare le Viti con ogni possibile industria, anche perché allora tale coltura, pel basso prezzo de' legnami, esigeva piccola spesa.
 
Al presente è in libertà d'ognuno vendere a chi gli piace il suo vino. Ma questa libertà conceduta a chi vende, è pur accordata a chi vuole o dee comperare; e li possessori di vigne fanno per ciò lamenti dicendo, che per questa licenza, e per altre molte gravezze, il commercio del vino è, secondo la loro espressione, interamente ruinato.
 
Queste lamentazioni de' venditori di vino prodotto ne' proprii fondi, hanno fatto sorgere il dubbio: Se torni loro a conto continuare come si fece in passato ad aver cura speziale delle Viti, o s'ei debbano scemare il numero de' vigneti; e in questo caso domandasi ancora: per quale altro modo possan eglino indennizzarsi del danno che apporterebbe l'appigliarsi a questo partito.
 
Non vo' ripetere quello che vanno dicendo i compratori, cioè che tai lamenti non sono giusti; imperocché, sebbene siensi aumentate e perfezionate di molto le piantagioni, e quindi cresciuto sia il prodotto del vino, e sebben se ne possa ritirare dal regno lombardoveneto, pure il prezzo n'è caro tuttavia, dovendosi in questi anni sborsare per una misura di vino un terzo o un quarto più di quello che pagavasi ne' tempi andati. Dirò invece che a questo rispondono i possessori di vigne, essere cresciuti i tributi, e il prezzo della mano d'opera, e quello de' legnami, e trovarsi alterato di un sedici per cento il corso delle monete in loro danno. Le quali cose, essendo vere, mi fanno strada a dire il parer mio intorno alla domanda: Se torni o non torni a conto coltivare Viti come in passato.
 
Non torna a conto, per mio avviso, coltivarne su li piani dove il prodotto è, per più cause, molte volte scarso, e sempre cattivo, e di vile prezzo, perché sul piano si può avere di meglio. Non torna a conto coltivar Viti a pergola, perché il prodotto in pochi luoghi vi matura bene, ed è soggetto a marcire, e perché le pergole costano assai, e rendono infruttuosi grandi tratti di terreno. Torna a conto coltivare Viti su le colline, e a filari, o, come tra noi si dice, a stregle, a scarozzi, perché dalle colline si può ricavare poco prodotto d'altro genere, perché tale coltura costa assai meno che a pergola, perché la minore quantità rende sicuro lo smercio, e perché la qualità migliore sostiene il prezzo, ed esclude la concorrenza.
 
Se i possessori di fondi volessero far bene i loro conti, e mettere in calcolo, oltre al già detto, anche le altre spese in locali, in botti, in manodopera, e le perdite in quantità, e qualità dei Vini, e gli scapiti provenienti dal dover vendere talvolta a credenza e a qualunque prezzo, si farebbero persuasi che seguendo le dette regole non se ne avrebbe alcun danno. Certo almeno mi sembra che facile sia procurarsi di tal danno, posto che fosse reale, compenso con usura. Lascio stare, che adoperando sulle colline sol pali brevi, e fatti con pezzetti di legno maturo, si verrebbe ad avere grande risparmio in legname, ché al presente valendosi di pali interi e giovani si distruggono ogni anno grandi tratti di selve; e fo queste domande. Non danno i nostri fondi posti sul piano (eccettuo i sabbionosi, ne' quali stà bene che si coltivino Viti) non danno essi abbondante raccolto di fieno, e di grano? E il grano e il fieno sono forse tra noi generi di poco valore? Debbono gli abitatori del piano comperare dai montanari e fieno e paglia, di cui avrebbero bisogno questi medesimi per allevar più bestiame e ingrassar meglio le loro terre. Tutti dobbiamo comperare dagli estranei il grano a migliaja di some. Chi n'avesse di superfluo trarrebbe denaro (con brighe e pericoli minori) almen quanto ne ritrae dal vino, e impedirebbe in parte la passività del commercio che ci porta via annualmente enormi somme.
 
Si vuole ostinarsi ad avere poco bestiame, e a comperar caro il grano? Ebbene facciansi nelle pianure piantagioni di mori, la cui coltura costa pochissimo, e il cui prodotto è maggiore d'assai di quello delle Viti: e tanto più da apprezzarsi in quanto che introduce denaro estero, laddove il commercio del Vino, se ben si considera ogni cosa, è per noi poco più che un puro cambio.
 
Vuolsi proprio avere di tutto? Si coltivi dunque di tutto; ma di tutto si aspetti poco; e si ringrazii di questo Iddio; e cessino le lamentazioni.
 
Era nella Naunia, pertenente ai Comuni di Cles, Tassullo, e Tueno, un assai vasto tratto di terreno che da molti secoli serviva a mandarvi a pascolare bestie.
Una parte delle popolazioni propose di dividere tra i Comuni, ed indi tra i Vicini, ossia capi di famiglia di ciascun Comune, il detto pascolo, e di ridurlo a campi e prati coltivandolo. Un'altra minore parte, alla testa della quale stavano i possessori di molti fondi, si oppose ostinatamente alla divisione dicendo, che per la mancanza del pascolo scemerebbe grandemente il numero delle bestie, ed oltre a questo danno per se grave ne risulterebbe un altro maggiore, quello cioè di non poter ingrassare e lavorare nè i nuovi campi, nè quelli che già da lungo tempo si coltivavano.
 
Si disputò lungamente: si scrissero pasquinate, e si passò dall'una parte alle minacce, e dall'altra ai tumulti. Finalmente la vinse il partito che domandava divisione, e il vasto spazio (sul principiare di questo secolo) si è suddiviso in molti pezzi toccati in sorte ai Vicini, con obbligo ad ognuno di pagare una tangente per l'estinzione del debito comunale.
 
Che ne avvenne? Primi fra tutti i poveri dissodarono con ardore le loro Sorti (così nominiamo le porzioni che la sorte ad ognuno assegnò) e il frutto che ne ritrassero abbondante in Segale, Orzo, Legumi, Patate, Cappucci ec. invogliò gli altri a dissodare. Al presente vedete quel grande tratto di terreno convertito in alcuni prati, e in molti campi lavorati con diligenza, il fieno, le paglie, le canne del mais, e gli altri strami, danno abbondante foraggio al bestiame bovino, il cui numero si accrebbe d'un terzo e più. Delle patate migliori che que' campi danno, si ciba per più mesi la gente; e quelle d'inferiore qualità sono consumate da un grande numero di porci. Il grano che se ne ricava, misurato a staja trentine, ascende a più migliaja. Le terre già prima coltivate, invece di esser lasciate, come temevasi, in abbandono, si coltivano con maggiore diligenza. I contadini pagano ai proprietari, che affittano loro i fondi, un quinto, un quarto più che in passato; e il prezzo delle campagne si aumentò del terzo e della metà.
 
Ho esposto questi fatti verissimi, che sono confermati quanto al risultato da altri simili non pochi, ad ammaestramento di coloro che ancora credono essere dannoso convertire i pascoli in campagna. Io credo che sia utile fin là dove poca è la popolazione. Tale pochezza dipende, ne' luoghi sani, dalla infingardaggine degli abitanti, e questa dal piccol numero de' possessori di fondi. Costoro, poiché trovansi nell'agiatezza, vogliono godere, e sono per ciò, d'ordinario, alieni dal prendersi fastidii, e dalle spese che non procurano loro quello che dicesi divertimento. Il povero che lavora per essi, e che colla mercede che ne ha non può vantaggiarsi, lavora con svogliatezza, e rimane povero, e la povertà obbliga molti a restar celibi. Fate che i poveri possano lavorare per se, e con ciò vantaggiarsi, e li vedrete pieni d'energia e laboriosi; da che avverrà poiché e avendo i mezzi di sostentarsi cresceranno le famiglie, e durando la voglia di lavorare, tutto si coltiverà con diligenza. La quale voglia durerà nei più, perché è impossibile che, tutti si facciano ricchi.
 
==DELLA STAGIONE OPPORTUNA AGL’INGRASSAMENTI==
 
Osservansi nel nostro paese due pratiche assai diverse nel letamare le terre. Alcuni conducono e spargono il letame ne' campi alla stagione di autunno, altri aspettano a fare ciò la primavera; specialmente ove trattasi d'ingrassare li campi ne' quali si fa seminagione di mais, che noi diciamo giallo o formentazzo. L'uso de' primi è ragionevole ed utile; ma di poca utilità riesce quello de' secondi.
 
Il concime tolto dal letamajo in autunno, e sparso ne' campi la sera, e sotterrato coll'aratura la mattina seguente, non perde nulla di sua virtù per azione di vento o di sole, o di calor della terra che lo fa evaporare, ma s'incorpora con tutto il suo grasso alla terra per le piogge autunnali, e per il lento sciogliersi delle nevi in primavera. Esperienza insegna che il campo ingrassato in quella stagione, se la terra è mossa a profondità sufficiente, e se la superficie ne fu tutta bene coperta, resta fecondo ed ubertoso per tre e quattro anni.
 
Non così avviene ove il campo s'ingrassi in primavera seminandovi piante che esigono zappatura. Il letame collo zappare la terra una volta, e, come deesi fare col mais, anche due volte, viene dissotterrato, e il sugo o grasso, invece d'incorporarsi alla terra, è sollevato e portato via per aria dal calore, e dal vento. E che resta allora nel campo altro che strame disseccato e magro? Chi vorrà fare sue osservazioni con mente spregiudicata vedrà che tutto questo è vero.
 
E’ dunque d’immitarsi la pratica di que' paesi dove il concime, trasportato ne' campi destinati a seminarvi orzo, o segale, o frumento, e posto in una buca, e ben coperto di terra, ivi si lascia a macerare e farsi perfetto, e giunto il tempo della seminagione autunnale, spargesi ne' campi, come sopra ho esposto, e subito arando si seppellisce ne' solchi accuratamente. La terra che vi si pone sopra s'inzuppa di grasso, e diviene essa medesima ottimo concime.
 
Intorno alla maniera di aumentare e perfezionare i concimi scrisse avvertimenti utilissimi il nostro canonico Barone Cristani, i quali non posso qui compendiare. Egli dimostra che molte e molte materie, le quali sono dai più trascurate, con facili operazioni si convertono in letame eccellente.
 
==ESAME ED APPLICAZIONE ALLA PRATICA DI UNA MASSIMA ECONOMICA==
 
E' dottrina adottata dalla più parte di quelli che dettarono scritti intorno la nazionale prosperità: doversi nella coltura delle terre preferir sempre que' generi di prodotti che danno frutto maggiore di qualunque altro: E per misurare qual genere più o meno frutti è per loro deciso, e fissato qual regola certa che: frutto maggiore danno que' generi dalla cui vendita si ritrae più grande somma di denaro.
 
Noi non osiamo combattere una massima dai Dotti raccomandata. Vogliam solo avvertire i nostri Concittadini che volendo generalizzarla in pratica si può andare incontro a danni gravi, e averne tardo pentimento.
 
Questa massima suppone come dati certi, che il producente possa quando vuole, e n'ha bisogno convertire in denaro i suoi prodotti, e che o col ricavato denaro, od almeno per via di cambio sia sicuro d'avere a buon mercato quelle cose, di cui esso abbisogna. Ma chi non ha sicurezza di ambi questi vantaggi, chi non è in istato di procurarseli con facilità, può assai volte ritrovarsi in grande imbarazzo, vedere fallite le sue speranze, e invece di guadagno averne perdita grande. Ciò avviene di necessità ivi dove si manca di strade comode, e per la pochezza de' mercadanti non vi è concorrenza.
La massima suppone che ogni producente sappia, e possa del denaro che ritrae dalla vendita del genere prezioso usare saggiamente. Ma quanti sono al mondo quelli che sappiano e possano sempre fare del danaro buon uso? La cotidiana esperienza ne insegna, che l'uomo quando ne ha teme poco di spenderne una parte in superfluo. Specialmente il povero vuole allora godere, e far godere a' suoi, qualche momento di contentezza. Spende un poco più in cibo, in bevanda, in vestiti, in mobilie, in passatempi. Il bisogno credesi lontano, e quando giunge, la borsa è vota.
 
E che avverrà poi se la natura non seconda l'industria del coltivatore? se uno de' mille accidenti che guastano ognicosa, riduce a pochissimo il frutto che se ne attendeva? Il ricco potrà supplire con altro al difetto che nasce dalla disgrazia; ma che farà egli il bisognoso? Noi abbiamo veduto molti imprudenti sedotti dalla lusinga di gran guadagno piangere e darsi alla disperazione perché la intemperie, o la moltitudine degl'insetti, o 1'imperizia loro, avevano frustrata l'aspettazione.
Avviene anche non di rado, che il coltivatore d'un genere per lo quale spera d'incassare molto denaro, trascura di avere prodotto dagli altri meno ricercati e preziosi, ma pur necessarii; e venendogli a mancare quello, o non potendone fare smercio, egli si trova poi vote le mani. Anche questo abbiamo noi veduto avverarsi più volte.
 
Noteremo per ultimo, che d'ordinario la coltura di un solo prodotto, esigendo poca fatica, o fatica di poca durata, fa che la gente si resta per lungo tempo oziosa, e abbandonasi ai vizii che tutto corrompono, e mandano a certa ruina. L'alternare continovo del lavoro preserva e uomini e donne dal massimo de' mali, che è la immoralità. Tra noi fu osservato che, sia per questa ultima ragione, o sia per le altre dette di sopra, que' villaggi ne' quali, il maggiore e principale prodotto è il Vino o la Seta, sebbene da ambidue questi generi s'incassi oro molto, contano più indebitati e miserabili che altre terre egualmente popolose dove i coltivatori hanno meno denaro e più da mangiare.
 
Persuaso come sono che tutte queste osservazioni meritino l'attenzione di ogni padre di famiglia, credo che non sia cattivo consiglio il dire ai coltivatori di campagna: Potete, e dovete procurare di vantaggiarvi in ogni lecito modo; ma dovete prima di ogni cosa pensare ad aver sempre dai vostri campi di che alimentare la famiglia, e a non mancare mai di utile occupazione. Il mangiare è il primo e il maggiore bisogno di tutta la spezie umana, il travaglio preserva dai vizii, e dalla miseria.
 
==DEGLI ESPERIMENTI MALE RIUSCITI==
 
Diceva qui sopra che ne' tempi andati qualche Signore ordinava che fossero fatti lavori nelle sue campagne, e poi, o perché si eseguivano male, o perché anche bene compiuti si trascuravano, e l'utile era piccolo o nullo, dicevasi che al ricco non torna a conto lavorar le sue terre. Il Signore si lagnava di avere gettato il denaro, ognun vedeva essere ciò vero pur troppo, e a pochi era manifesto che la causa della non riuscita era l'aver male eseguita l'opera, o 1'averla poscia abbandonata senza curarsene più oltre.
Così avviene assai volte degli esperimenti che or da Pietro ora da Paolo si fanno intorno la coltura di qualche pianta, o la maniera di coltivarla. Si fa lo esperimento o fuor di tempo, o in terra e posizione non opportune, o in modo non conveniente. Per ciò la prova riesce a male; e senza porre attenzione a queste cause, altre se ne inventano che fanno deporre ogni speranza.
 
Io, ammaestrato da colui che disse: sforzare la natura del paese è stoltezza: non loderò mai chi vuole introdurre piante che crescono e prosperano solo in clima assai diverso dal nostro. La coltura di tali piante costa molto, e può dare utile piccolo, e non mai tale che paghi la spesa. Lodevole trovo all'incontro la pratica di quelli che fanno prove coltivando piante d'altra spezie, ma del genere medesimo di quelle che nel proprio paese danno frutto, od immitando la maniera di coltivazione usata altrove con vantaggio intorno alla medesima sorte di piante. Così dite degli animali, delle macchine ec. ec.
 
Ma chi vuol fare esperienze dee prima aver bene osservato, e calcolato intorno alla possibilità della riuscita, e dell'utile ei debbe, essendo persuaso della utilità, essere perseverante, e usare tutte le attenzioni e cure necessarie; e soprattutto bisogna che animi altri a fare la medesima prova, acciocché si possa presto vedere se i tentativi riescano a bene, o ne risulti il non torna a conto. Un esperimento fatto da molti, e in più luoghi, se riesce felicemente persuade tosto molti altri ad imitare, e se ne ha pronto e generale vantaggio; se non ha buon esito, fa deporre con ragione le speranze, e risparmia spese e fatiche inutili.
 
Deesi poi avere l'avvertenza di fare le prime prove sempre in piccolo. Se male riescono, leggero è il danno che se ne risente: e l'avere così provato merita sempre lode. Chi fa prove in grande, quand'esse non corrispondano all'aspettazione, è deriso da ognuno, e soffre danno gravissimo. Prego i miei Concittadini a ben riflettere sopra queste verità. Io vorrei vedere dappertutto e in tutti molta operosità, ma spiacerebbemi che qualcuno avesse a pentirsi di essere stato troppo credulo, o troppo azzardoso.
 
==DELLA SEGAGIONE DE' PRATI==
 
Il nostro paese conta poche praterie, e queste medesime, per difetto d'acquedotti, e d'ingrassamento, danno poco fieno. Quanti e quanto gravi scapiti apporti l'avere poco fieno, è notato di sopra. Il peggio poi è che la gente in più luoghi non approfitta nemmeno come si conviene de' pochi prati che abbiamo.
 
È destinato per tagliare il fieno un tempo fisso, e stolto riputerebbesi colui che volesse anticipare di soli pochi dì la segagione. Per ciò accade, che nelle primavere in cui si ebbe a tempo opportuno la pioggia, e in cui dopo questa il caldo fu grande, poiché si aspetta il tempo consueto, si taglia il fieno troppo tardi, e se ne fa grande perdita in qualità e quantità. Il fieno è buono e abbondante se è tagliato un poco verde, quando cioè molte piante hanno i fiori appassiti, ma non del tutto secchi. Aspettando che tutte le piante, o la più parte, abbiano i fiori disseccati, ne avviene che essendo elle già prive di sugo, e perdendo, col seccarsi dopo il taglio sul prato, molte delle loro foglie, restano puri steli duri, che le bestie non possono mangiare, e che mangiati non danno nutrimento.
 
Molti comprendono benissimo che nel segare tardi si fa perdita così nella qualità come nella quantità del fieno; ma credono, essere questo un danno, cui bisogna sottostare per schivarne uno maggiore. Nel tempo in cui si dovrebbe fare la segagione si hanno nelle case, particolarmente nella valle d'Adige, e in quelle del Sarca, del Brenta, e del Nosio, i Bachi da Seta, ed è opinione quasi generale che ai Bachi nuoce assai l'esalazione o l'odore che viene dal fieno quando si trova tagliato ne' prati alle case vicini, e quando subisce nel fenile fermentazione. Per ciò finché non sono raccolti i Bozzoli (le Galette) è in molti luoghi vietato il segare, non da alcuna legge, ma da un'autorità tremenda, che è la persuasione nel popolo; e così prati buoni, che si potrebbono segare tre volte, non danno che un secondo fieno, perché il primo si ha in poca quantità, e senza sugo, e il terzo non è che debol erba. Chi pensò finora al modo onde impedire sì grave danno? Chi cercò di persuadere i Contadini che il loro timore non ha fondamento? Essi vengono sempre in campo col dire: È cosa provata. Ma non sarebbe forse cosa provata allo stesso modo come provati si dicono gl'influssi della Luna? Non saria possibile dimostrare che le disgrazie accadute, e attribuite all'odore che sparge il fieno, furono prodotte da altre cause? Si oppongano alle congetture esperienze. Si dica, citando i luoghi e le persone, che i Bachi per più anni di seguito andarono sani sul fascinato e fecero belle e buone Galette in case, nelle cui vicinanze si tagliò e seccò il fieno, in case dove il fieno fermentò vicino ai Bachi; e si aggiungano le prove che nello stesso fieno che fermentava, i Bachi formarono il Bozzolo di ottima qualità.
 
Se questo non avesse a bastare, ed è a temere che no, l'importanza della cosa domanda che alcuni possidenti di un distretto si accordino tra loro di ordinare ai loro coloni di segare, e condurre ne' fenili il fieno a tempo debito; cioè quando l'erba è matura al grado suddetto, senza riguardo alcuno ai Bachi da seta. E poiché quest'ordine metterà certo alla disperazione i timidi coloni, è uopo che i Padroni facciano loro per alcuni anni tali patti che li guarentiscano da ogni sinistra eventualità; uno de' quali patti sarebbe che il colono allevasse i Bachi per conto del Padrone, ricevendone egli un tanto per l'opera sua.
 
Il Signor C. T. va persuadendo a questo modo i suoi coloni già da due anni. Il fieno si
sega, e portasi nelle case ove sono i Bachi, e non n'è finora nato nessun danno ai Bachi, e il fieno si raccoglie più buono, e in maggiore quantità.
 
==MODO ONDE SUPPLIRE ALLA SCARSEZZA DI LETAME E DI GUARENTIRSI DAI DANNI DELLA SICCITA’==
 
Ci sono distretti nella provincia nostra, ne' quali, per difetto di praterie e di strami, poco bestiame si può mantenere, e per conseguente scarseggiasi di letame. Evvi anche qualche luogo, specialmente nelle valli più alte di quella dell'Adige, dove per la durezza e tenacità del terreno, cretoso, argilloso, che coll'aratro si dissoda soltanto a poca profondità, i campi anche ingrassati soffrono presto i danni della siccità; la quale è nel nostro paese montuoso il flagello il più terribile per le campagne.
 
Esperienza m'insegnò che evvi mezzo di supplire, almeno in parte e per qualche tempo, al difetto di concime, e di guarentirsi colla stessa operazione dai danni dell'estiva arsura. I campi coltivati da lungo tempo presentano alla superficie terra dimagrita, secca, polverosa, priva d'umore, e di forza, la quale smossa; ne' luoghi cretosi, alla profondità di mezzo piede e ancora meno, stà sopra una massa compatta e dura si che non permette ad alcuna radice di penetrarvi. Che mai si può da sì poca terra aspettare? Si osserva infatti che anche ove il campo è ingrassato, anche negli anni in cui non mancano le piogge, il frutto è poco, e che ove sopraggiunga la siccità nulla si raccoglie. Smovete con vanghe, e con zappe, estraendone i sassi grandi, la terra che stà di sotto, vergine ancora, e dal grasso, che col lungo correre degli anni vi s'insinuò lentamente, fatta feconda, e frammischiatela a quella che stava di sopra magra, ma calda, e sminuzzata. Con questo mezzo semplicissimo avrete ingrassato il vostro campo: e se la zappatura sarà profonda un piede e mezzo o due, vedrete che nell'estate il gran caldo, che nuoce a tutti i campi non lavorati a questo modo, produrrà nel vostro effetto contrario, farà crescere cioè rigogliose, e maturare le piante colle sementi belle e sostanziose. Questo, ripeto, m'insegnò maestra esperienza.
Ognuno che voglia solo per poco riflettervi comprende subito che quello ch'io ne dissi dee naturalmente succedere. La terra dimagrita, ma però scaldata, col frammischiarsi alla vergine e sugosa, inzuppasi dirò così del grasso di questa la quale facendosi meno dura, tenace, compatta, comunica a quella il suo grasso, e rendesi disposta a comunicarlo alle piante. Troverete chi vi dice che questa terra vergine, perché frigida troppo, e forse non grassa quanto supponesi, non porge nutrimento alle piante, le quali per ciò ingialliscono, e non danno frutto, come si è veduto, e vedesi accadere di frequente. Ma se farete l'operazione in autunno, e lascerete che la terra nuova sciolgasi pel ghiaccio, e sia in primavera pria di seminarvi riscaldata bene dal sole, ne avrete nell'estate, od almen certo nel susseguente anno, ed indi per più altri, buono ed abbondante raccolto. Posso anche intorno a ciò chiamare in testimonio esperienza. Reputo superfluo il dire che le piante, se trovansi in terra mossa a molta profondità, gettano ben fonde e dilatano le radici senza impedimento, e che, facendosi per ciò forti, e continuando a ricevere nutrimento dal basso dove l'arsura non può arrivare, non ricevono da questa verun danno, ma sì piuttosto vantaggio.
Dirà qualcheduno, essere queste cose a tutti note, e non avere io detto nulla di nuovo. Ma se noto è che dissodare e mescolare le terre apporta utile grande; perché veggiamo noi ancora pochi affacendati nel zapparle profondamente, e farne mescolanza? lo parlo non per insegnare, ma per muovere a fare.
 
==DELLE DECIME==
 
Pagare la Decima dei prodotti della terra secondo le antiche locali consuetudini, è un obbligo imposto ai possessori di fondi tanto dalla legge civile quanto dall'ecclesiastica. La Chiesa ordina che sia dato sostentamento a que' Sacerdoti che servono il Pubblico quai ministri delle cose sacre; e dove non sono a ciò destinati altri fondi in sufficienza, vuole che si paghi loro la Decima. I regnanti, anche ecclesiastici, e specialmente i nostri Vescovi Principi, beneficiarono coloro che servito avevano lo Stato obbligando i soggetti a pagare ad essi e ai loro eredi parte delle Decime; e quest'obbligo imposto ne' secoli passati vuole il Sovrano che duri a favore di quelli che n'ereditarono o comperarono il diritto.
 
Ci sono fondi esenti da Decima, e questi si pagano a più caro prezzo che quelli i quali ne sono aggravati. Ciò è prova che nelle compre de' fondi soggetti al contributo della Decima si fa, sebben non si dica espressamente, la detrazione del prezzo corrispondente al peso di cui il fondo è aggravato. Ed ecco un'altra ragione che mostra l'obbligo per li compratori di contribuire la Decima, senz'altro esaminare, a quelli cui prima era pagata, che di quest'obbligo fece accollazione a quello che comperò il fondo.
Fu detto che le Decime caddero in mano de' laici (persone non addette allo stato ecclesiastico) per usurpazione. Ma che gioverebbe a noi questo, qund'anche fosse vero? Come potrebbesi provare che le tali e tali Decime furono usurpate? Non ancora dimostrato che il contributo delle Decime sia stato dappertutto invenzione e legge ecclesiastica. Si potrebbe provare che in più luoghi, prima che agli Ecclesiatici, si pagavano le Decime ai Principi, e ai loro Feudatarii, e che da questi fu poi assegnata una parte (la quarta) ai Sacerdoti. E dato che in origine sieno state le Decime tutte ecclesiastiche, e che molte si possano dire usurpate, o carpite da' laici, o a questi donate senza bisogno, noi dovremmo pagarle tuttavia, come da principio, alla Chiesa: e rilasciarcele. Le prebende ricche le avrebbero i Ricchi, e saremmo sempre alla stessa condizione.
 
Chiunque ha senno, e vuole esso giusto, dee per esposte ragioni accordare che il volere sottrarsi al pagamento delle Decime è in ogni modo tentativo inutile: e che il defraudarne i decimanti, anche laici, (poiché la Chiesa, non richiamando i suoi diritti ove ne aveva, ne fece e ne fa loro cessione) è caricarsi dell'obbligo di restituzione. Il dover lasciare sul campo, in pro d'uno che nulla fa per noi, la Decima dei frutti, delle nostre fatiche, è cosa che scoraggia, e avvilisce, ma pure conviene adattarvisi perché o le sventure o il poco giudizio de' nostri buoni vecchi ci addossarono questa gravezza, come dee adattarsi a viver povero tal uno che, se li suoi antenati fossero stati meno oppressi dalle sventure, o meno privi di senno, potrebbe esser ricco.
 
Non ci sarebbe peravventura un mezzo di sollevare i coltivatori da questo pesantissimo carico senza recare nocumento ai Decimanti? Se questi volessero bene considerare, che molta gente inventa ognidì pretesti nuovi e speziosi per farsi lecito di non pagare o, di pagar poco: che ci sono mezzi leciti di scemare il prodotto soggetto a Decima, p. e. convertire campi in prati, fare grandi piantagioni di gelsi, coltivare in maggior quantità quelle spezie di grani e di frutti de' quali non si paga Decima; che l'anticipare il pagamento de' tributi (steure) e il sottostare alle spese della raccolta, e alle perdite che raccogliendo si fanno, è per essi incomodo grave e danno sensibile; essendo il popolo in tutto il nostro paese stufo di pagare le Decime in natura, e disposto a convenire della maniera di sollevarsi dal peso e dalle brighe, si potrebbe assai facilmente con utile delle parti mettere fine a un contributo per se odioso, e all'incremento dell'agricoltura per molti capi assai pregiudiziale.
 
Già in più luoghi pagasi per contratto la Decima con denaro, e ne risenton utile tanto i percipienti quanto i contribuenti. Perché non si vuole, o non si cerca da ambe le parti d'immitare i lodevoli esempi dappertutto! Meglio però sarebbe che ogni Terra, o Comune, fatto il calcolo sopra un decennio passato, con sopra le probabilità del futuro, offrisse ai Decimanti un capitale in denaro, il quale non potesse mai essere nè accresciuto nè diminuito, e li cui frutti fossero dal Comune, o dalla Terra, valdire da tutti i possidenti, assicurati in perpetuo su i fondi, ed annualmente pagati in due uguali rate.
 
A ciò bisognerebbe il consenso de' Vescovi e del Sovrano; ma credesi che facil sarebbe l'ottenerlo, perché non è possibile ch'essi non veggano che tali convenzioni metterebbero fine ad infiniti disordini morali e civili, e produrrebbono grandi vantaggi. I Giudici, e i Confessori benedirebbero il procedimento, perché la Chiesa e lo Stato farebbero guadagno assai grande in moralità. I Decimanti avrebbero un'annua entrata certa, e non contrastata, nè diminuita per infortunii o per ruberie, e se la potrebbono godere in pace senza litigii, senza spese, e senza udire lamenti, e imprecazioni. I lavoratori di campagna, sapendo che ogni miglioramento nella coltura tornerebbe intero a loro vantaggio, si studierebbero di trarre dalle loro terre il maggiore possibile profitto, e così l'agricoltura verrebbe a prosperare notabilmente. Certissima cosa è che lavorare per altri, se non avvilisce, scoraggia, e ingenera svogliatezza. L'uomo lavora con zelo, e con premura, se lavora per se; tal è la sua natura. Chi questo ignora non sa delle cose del mondo ancora nulla.
 
==DEGLI AFFITTUALI==
 
Non tutti i possessori di fondi vogliono o possono farli coltivare per proprio conto. Alcuni gli affittano tutti, altri una parte. Ma si vede quasi dappertutto che i più de' fittaiuoli coltivano male i fondi che tengono con patto di migliorare e non deteriorare.
 
Dicono i padroni, ciò procedere da ignoranza, da malavoglia, da poltroneria, da birbantaggine de' viziosi coloni. Affermano gli affittuali, non poter essi fare meglio perché, pagati i padroni esigentissimi, non resta loro quanto basta per nutrire la famiglia, e perché quelli non danno loro ajuto onde poter compiere le necessarie od utili operazioni.
 
Sarebbe difficile il decidere quale delle due parti s'abbia la ragione. Certo è che ci sono contadini i quali conoscono male, e male esercitano, qual che ne sia la causa, il loro mestiere: ma certo è ancora che vi sono padroni i quali non sanno o non vogliono dirigere i lavori di campagna, e, solo premurosi di cavar molto, ricusano di spendere, o spendono uno esigendo che il fittaiuolo vi ponga due.
 
Ma venga il male dai possessori de' fondi, o venga da quelli che li coltivano, quello di che è da dolersi e, che il male, se consideriamo la quantità de' fondi trascurati, è grave assai per chi affitta, per chi lavora, e per il Pubblico. Fate conto quanto perde il paese durando questo disordine, e quanto guadagnerebbe se tutte le terre de' ricchi fossero bene coltivate, ed apparirà chiara la necessità di pensare a ciò seriamente. Io, lasciando che altri proponga a questo male un rimedio efficace, metterò intanto sott'occhio ai Lettori alcune osservazioni, le quali mi sembra che meritino attenzione di tutti quelli che amano davvero il pubblico bene.
 
Sta nella natura dell'uomo (è verità che non si ripete mai abbastanza) il lavorare con zelo e bene per se, e svogliatamente e con poca diligenza per Altri. I fatti generali e costanti il dimostrano chiaramente. Il dovere di coscienza spinge i buoni ad operare come sanno e possono meglio per quel tanto che fu pattuito, ma non gli stimola a fare di più; ed è poi certo che i coscienziosi non formano in nessuna classe di uomini il maggior numero. Non ci è che l'amore, che faccia eccezione dalla regola generale. Dunque l'interesse, cioè la speranza di averne maggior utile per se, deesi ritenere per il movente universale e principale al lavorare con zelo, e molto, e bene.
Il contadino che non riceve dal padrone soccorsi, e non ha certezza che facendo, miglioramenti ne' fondi, il maggior frutto che ne dee venire sarà suo, non fa mai, com'è già detto, nulla più di quello che ei debbe in forza de' patti che accettò.
 
Riceve l'ordine, e promette di migliorare; ma se non vede compenso alle sue fatiche, e specialmente se teme di lavorare per un terzo, crederà facilmente di avere fatti miglioramenti anche coll'avere smosso solo un poco di terra, e piantati due alberi. E' accaduto che poveri coloni, i quali avevano colle fatiche loro notabilmente accresciuto il prodotto de' fondi colla speranza di poterselo godere in premio, furono astretti a pagare di più, od a cedere a un altro, che di più offeriva, i fondi ben lavorati!
 
Concediamo che questi casi abbiano ad esser rari. Basta però che se ne avveri uno ogni dieci anni in un vasto tratto di paese, per fare che i contadini diffidino sempre e d'ognuno, e perdano il coraggio. Ei sanno che il chiedere compenso dei danni gli espone ad altre perdite maggiori.
 
Egli mi pare che alcuni possessori di terreni non facciano, affittandoli, troppo bene i loro conti. Vogliono avere la compiacenza di poter dire: ho trovato chi mi darà molto. Non si obbligano a nulla fuorché a lasciar lavorare, ma legano con patti onerosi il fittaiuolo, e si riservano di mandarlo via quando manchi ad uno de' molti obblighi che gl'impongono. Trattando con esso e co' suoi, dannosi tale aria, che non inspira nè confidenza, nè amore. Il povero diavolo soffre, e lavora come sa e può; ma non gli è possibile di pagar il padrone, e di mantenere la famiglia. Quale n'è il risultato? Il colono cade nell'abbattimento, e nella disperazione; cerca per necessità altri mezzi onde ajutarsi, e trascura la campagna; se non è onesto, ruba tutto quello che può al padrone; e se ha timore ed amore di Dio, contrae debiti che il mandano in rovina, o che, nulla possedendo, non potrà mai pagare. Di queste istorie ne potremmo raccontare non poche.
 
A me piace, come più umana e più vantaggiosa tanto ai padroni che agli affittuali, la pratica di alcuni buoni e saggi Signori. Affittano un fondo, od un podere (maso) ad uno che credon abile e galantuomo, da prima per breve tempo, come per prova, e se il fondo esige cure speziali, a mite prezzo. Conosciuto l'uomo e la sua famiglia per gente dabbene e laboriosa, e visto come i fondi sono bene coltivati, fanno contratto ch’esprima gli obblighi e i diritti tanto del padrone come del fittaiuolo, ed accordano che il contratto debba avere durata più lunga del consueto, p. e. di quindici, o di venti anni, fissando il contributo, parte in generi e parte in denaro, in maniera che non possa mai averne danno grave né l'una parte né l'altra. Fatto ciò mantengono essi primi le promesse, danno alla famiglia esempi di moralità, porgono consigli, e ne' bisogni ajuto.
 
L'utile che questi buoni Signori da tale pratica ritraggono è, che i coloni, avendo fondata speranza, anzi certezza, che non saranno soppiantati da alcuno, o mandati via a capriccio, e che lavorando con diligenza potranno sostentare la vita, e di qualche poco avvantaggiarsi, coltivano i fondi con assai più fervore, e molto meglio che qualunque altro che non ha questa certezza. Ed essendo i fondi bene coltivati, perché i coloni vi hanno il loro torna a conto, non sono essi, i padroni, ridotti (come avviene a tutti quelli che affittano per tempo breve) alla necessità di fare diminuzione di canone, o di aggiungere molto del loro per rinovare li fondi. Chieggono essi forse meno degli altri, ma questo è loro pagato sicuramente, e per sempre, perché i fondi sono sempre tenuti in buono stato.
 
Per ciò, ben calcolata ogni cosa, essi ricevono di più di quelli ch'esigono molto. A questi utili se ne aggiunge un altro, che dovrebbe sempre entrare nel calcolo, ed è che le famiglie trattate nel modo sopra detto si affezionano cordialmente ai loro Signori, e che, ove non lavorassero per dovere e per interesse, lavorerebbero per amore. Il contadino (parlo in generale) non è, no, non è cattivo come credesi da molti; la corruzione viene dall'ozio e dalla mollezza, e il contadino obbligato al travaglio non può essere nè molle nè ozioso. Egli odia i superbi oppressori, e i vili seduttori, e talvolta si vendica dell'oppressione, e dell'avvilimento che gli convenne soffrire: ma onora, ama, e serve di buona voglia i Signori dai quali è trattato come uomo, e riceve prove di amorevolezza, e beneficenza.
 
 
 
==CALENDARIO PERPETUO PER GLI AGRICOLTORI TRENTINI==
 
Fra i pochi ma scelti libri lasciati da un Sacerdote era di suo carattere un breve Scritto col titolo Almanaco o Calendario perpetuo trentino - Il quale io lessi avidamente, e trovate avendovi osservazioni e regole utilissime, con licenza degli eredi, ne trassi copia, riducendo la elocuzione a mio modo. Questo Scritto mi sono determinato a pubblicare, come giunta alle mie dicerie, sperando che possa a qualcuno essere di giovamento. Segue il testo dell'Autore:
 
“Tutti coloro i quali sono per fare cosa, il cui buono o cattivo esito dipende in tutto o in parte dallo stato in cui sarà l'atmosfera, cioè dal freddo o dal caldo, dal vento o dalla calma, dalle piogge abbondanti e a lungo continuate, o dalla costante serenità, quelli che debbono mettersi in viaggio per terra o per acqua, e segnatamente gli agricoltori, sono curiosi di pur sapere, e solleciti d'investigare l'avvenire. Questo natural desiderio, che in qualunque modo soddisfatto rassicura o lascia in timore, fa in ogni tempo quello che indusse gli nomini ad osservare l'andamento de' fenomeni (avvenimenti) che dipendono dalle immutabili ordinazioni del Creatore, le quali noi diciamo forze o leggi di natura, e a consultare intorno a ciò quelli che si dicevano, ed erano creduti saggi, veggenti, indovini. Per questo il predire ciò che avverrà nel tal anno e nella tale stagione, il fare Almanachi ossia Calendarii, divenne professione cui si dedicarono in ogni tempo ignoranti, e sapienti, impostori, ed onestuomini”
 
"Gli ignoranti, incapaci di ben osservare e ragionare, attribuirono molti effetti a cause non vere, ed adottarono alla cieca le dottrine arbitrarie e fallaci degl'impostori, i quali sgraziatamente ottennero sempre maggior credito e fede che i veri sapienti. Dagl'ignoranti e dagl'impostori furono inventati e accreditati que' Detti, ingiustamente appellati proverbii, che si leggono in certi libri, e che suonano sulle bocche del volgo alla ricorrenza di qualche giorno, o di qualche naturale avvenimento, Detti, i quali su niente altro sono fondati che su le pessime rime con cui sono espressi; per esempio: Da Natale al sole, da Pasqua al tizzone. Se piove il dì della Pentecoste tutte le entrate non saran nostre, e cento altre sciocchezze sopra san Paolo, sopra la Candelaja, l’Ascensione, la Canicola ec. ec.”
 
“Gli onesti uomini e sapienti fecero sempre guerra a questi pregiudizii, cui va frammista la superstizione; e studiando la natura e le sue leggi osservarono il corso ordinario e la durata delle stagioni, il tempo de' venti e delle piogge regolari ec. e, conosciuti gli effetti costanti, e gli accidentali, volsero le loro indagini ad indovinarne, anzi fissarne le vere cause. Questi uomini benemeriti giovarono moltissimo colle loro scoperte, spezialmente ai naviganti; e se poco utile apportarono agli agricoltori, ciò avvenne perché troppo inveterati sono i pregiudizii contrarii alle verità da loro insegnate; e forse anche perché pochi si diedero la pena di fare e pubblicare osservazioni parziali, cioè risguardanti un determinato Paese, e tali che possano esser utili formando una regola. Questo sarebbe stato peravventura il solo mezzo di scemare la fede alle Volgari opinioni. La gente che le ha in conto di proverbii, si appella all'esperienza, perché talvolta il caso avvera la predizione. Si mostri, esponendo i fatti costanti, cioè quello che tutti gli anni avviene regolarmente, che l’esperienza non conferma, anzi smentisce que' Detti, su i quali si fondano le fallaci speranze e i vani timori.”
 
“Io ho fatte, insieme ad altri, per molti anni osservazioni sul Paese che formò il principato di Trento, ossia sulla provincia che da Trento è nominata trentina, e mi sono accertato per quelle, che quivi le Stagioni hanno la loro durata come segue;
 
“La primavera comincia coll'aprile, e finisce collo spirare di maggio.
 
“La estate principia col giugno, e compiesi colla fine d'agosto.
 
“L'autunno dura, come la primavera, due mesi, e sono settembre e ottobre.
 
“L’inverno ha principio col novembre, e termina col marzo,
 
“Tale fu sempre e finché staranno queste nostre montagne, e quelle poste più verso il settentrione, tal sarà pure in avvenire la durata delle stagioni sul Trentino. Ed è sciocchezza il dire che quest'ordine e questa durata sonosi cangiati perché dall'un anno all'altro si nota qualche diversità. Queste diversità puramente accidentali e mai regolari, non apportano alla costituzion naturale del paese nessuna mutazione. Le nostre osservazioni insegnano che
 
"Ne' cinque mesi d'inverno cade ogni anno sulle montagne or maggiore or minore quantità di neve, e più spesso molta che poca. Anche nelle valli nevica, più, o meno ogni anno, e sol le più basse vanno talvolta libere dalla spiacevole visita. Non sono però nemmen queste, per tutti i cinque mesi, da nevi, da ghiacci, e da brine mai sicure; ed è più certo il danno che l'utile, se per piogge e venti tiepidi le piante germogliano prima di aprile, perché altri venti, che per lo sciogliersi delle nevi su i monti soffiano forte in alcuni giorni di marzo e anche d'aprile, coll'impeto loro e col freddo che gli accompagna portano d'ordinario terribili guasti. A questi danni, e ad altri di cui dirò, cagionati dalla molta neve caduta su i monti, abbiamo compenso, che li pareggia, nelle fonti, che quella neve mantiene perenni ed abbondanti. Le fonti sono, e chi nol sa? tesori inestimabili, distintamente ne' paesi montuosi.
 
"La primavera è per ordinario regolata dall'inverno, il che vuol dire che in regola qual fu la stagione invernale, tal è anche quella di primavera. Se in inverno cadde molta neve, i venti, le burrasche, il freddo, le pioggie vanno alternando in aprile ed in maggio, e questa incostanza di tempo nuoce universalmente. Se poca fu la neve, o, essendone caduta molta, piogge e venti caldi venuti dal mezzodì ne sciolsero una gran parte, allora il sole agisce dappertutto con forza già in aprile, e il maggio si fa, come sogliam dire, valente. Un maggio caldo ma non troppo secco è il mese che assicura, non succedendo straordinarie disgrazie, quasi tutte le entrate dell'anno tanto in quantità che in qualità. Perciò è saggissima l'istituzione della Chiesa che ordinò le Rogazioni; e il Popolo tutto dovrebbe con raccoglimento intervenirvi, e pregare fervorosamente il creatore e provveditore Iddio, dal cui cenno onnipotente dipendono le piogge; i venti, la serenità, ed il caldo.
 
"Anche la estate risentesi un qualche poco della condizione in cui furono l'inverno e la primavera. Il caldo vi è temperato se ancor resta sulle alpi molta neve, perché domina il vento, e frequenti sono le burrasche; ma se vi restò poca neve, e parte de' ghiacci perpetui, che diciam vedrete, si va sciogliendo (e dico parte, perché vetrete ce ne furono, e ce ne saranno sempre sulle più alte nostre alpi) esso, il caldo, si fa sentire forte, segnatamente nella bassa e stretta valle dell'Adige. In questa stagione sono per ciò a temersi due mali. Se queti sono i venti, e per la serenità dell'atmosfera il caldo è grande, continuando le nevi o le vetrete a farsi in acqua, l'Adige s'ingrossa, straripa, e inonda le compagne, ed oltre ai guasti che fa in queste, cagiona malattie negli abitanti. Nelle altre valli più elevate, essendo il terreno pendente e frastagliato da altre vallette, succede in tal caso l'opposto, cioè si ha siccità che riduce tutto a squallidezza, e talvolta dissecca ogni cosa. Un vantaggio gode nell'estate per la sua costituzione il Paese nostro sopra le vaste pianure; ed è che gli oragani (venti impetuosi) e le grandini, non apportano mai que' grandissimi guasti che ivi fanno sovente; e di questo notabilissimo vantaggio siamo debitori alle nostre montagne, che all'impeto, e al progresso de' venti si oppongono.
 
“L'autunno è per lo più, a cagione del caldo estivo che lo precede, una mite stagione, e per questo riguardo più amabile che la primavera. In settembre piove ordinariamente per alcune giornate di seguito; ma l'ottobre è sereno; e la temperatura dell'aria vi è piacevole. Segno che s'avvicina il freddo è il passaggio che fanno tutte le specie d'uccelli per le regioni meridionali, il che succede verso la fine della stagione, quando anche le foglie degli alberi ingialliscono, e cominciano a cadere.
 
"Ella è cosa evidente che queste proprietà delle stagioni a null'altro si possono attribuire che alla naturale costituzione del Paese, cioè alle variate altezze e alla positura de' monti, alla diversa direzione delle valli, al corso delle acque accelerato o tardo, allo stato delle selve, ai terreni colti od incolti, ai laghi, alle paludi ec, ec. E' pur evidente che quanto qui avviene di straordinario ha per vere cause le mutazioni, anch'esse irregolari, che accadono ne' paesi a noi più vicini, spezialmente nella Venezia, in Lombardia, nel tedesco Tirolo, in Svizzera, in Baviera. Da queste regioni ci vengono i venti, ch'esse ricevono dai monti o dai mari a loro più vicini, e coi venti ci giunge il caldo, o 'l freddo, la pioggia, o la neve.
"Se alla natura immutata e immutabile del nostro Paese, ed alle estranee ma vere cause dell'irregolarità delle stagioni, volesse la gente, come dovrebbe, porre la debita attenzione, io sono certo che non si farebbe più quel conto che si fa della posizione de' pianeti, delle fasi della luna, della ricorrenza delle feste, e di cento altre opinioni, osservanze, ed azzardate predizioni, che non hanno alcun fondamento, e che talvolta si avverano solo per caso, mentre per lo più si dimostrano fallaci. Le predizioni, poiché ogni tratto ampio di Paese ha la sua costituzione, non possono mai essere generali. La continua esperienza insegna di fatto che se elle si avverano in un piccolo cantone; in un altro vicino accade il contrario. A Trento piove, nella Naunia risplende il sole, in Giudicarie cade la grandine, in Fieme soffia forte il vento, nel medesimo giorno. E' ella forse la Luna che questi diversi effetti a si piccole distanze cagiona? Gli Almanachi, i Calendarii, i Detti chiamati proverbii, o qui o li là indovinano sempre; e questa è la ragione per cui i malaccorti vi prestano fede. Non è ancora comparso colui, il quale abbia avuto il coraggio di predire quello che avverrà per tutto l'anno in questa o in quella delle nostre valli; e se avesse a venire, di dieci volte sbaglierebbe almen otto. Freddo e neve d'inverno, caldo, lampi, tuoni, temporali, e pioggie d'estate, sa predirne ogni scimunito; ma indicare i giorni in cui caderà la neve, in cui pioverà ec. ec. nessuno può fuor che Dio.
 
“Il saggio e prudente agricoltore, piuttosto che nutrirsi di vane speranze od affligersi per le predizioni de' Calendarii, piuttosto che badare al crescere o calare della luna, e andar ripetendo i volgari Detti male rimati, i quali nulla significano perché appoggiati non sono ad alcuna soda ragione, fatto persuaso dalle sue proprie osservazioni che tal è di ciascuna stagione il corso ordinario nel nostro paese quale io lo esposi, procurerà di regolare gli affari suoi risguardanti la terrecoltura dirigendosi dietro le seguenti prescrizioni:
 
"In primavera. Fate più tardo che potrete, cioè in maggio, la seminagione de' grani, perché questi gettati in terra umida e ancor fredda marciscono, o germogliano lentamente dando piante deboli cui il freddo che può venire nuoce assai; ma seminati in terra solo un poco umida e riscaldata dal sole, crescono presto e bene, e le piante prendono vigore da resistere alle intemperie.
 
“Per prevenire quanto si può i danni della siccità raccogliete in piccoli canali, ed avviate ne' prati tutta l'acqua che scorre vicino a quelli per il liquefarsi delle nevi, e per le susseguenti piogge.
 
"Rispettate i nidi e le razze de' piccoli uccelli, e insieme a questi utili alleati fate continua guerra ai dannosi insetti, e alle loro sementi, studiandovi di scoprire i luoghi ove le depongono, che sono specialmente le siepi vive, e i fusti delle viti vicino alla terra.
 
"Nell'estate. Continuate a dare tutte le volte che piove quell’acqua che potete ai prati, e non premettete che, scorrendo per le ripide vie, cagioni fossi e frane, il che sarebbe doppio grave danno.
 
“Raccogliete il fieno piuttosto verde che troppo secco, perché il secco non è buono, e perché segando per tempo sperar potete con ragione di avere abbondanza del secondo, e, in alcuni luoghi, anche del terzo.
 
“Non siate pigro a tagliare le biade tosto che sono mature, ed a condurle a casa, poiché tardando potete averne grave danno per grandine o per pioggia o per la perdita che si fa in grano col mieterle troppo secche.
 
“Conducete il concime in un canto de' campi che dovrete ingrassare l'autunno, a fine di averlo ivi in pronto; ma copritelo bene con terra levata dalla superficie del campo stesso; la quale operazione vi darà tre vantaggi, cioè, il letame non perderà essendo coperto l'umido oleoso, la terra sovrapostavi a strati s'ingrasserà, quella che restava nel campo fredda, sarà bene riscaldata.
 
“Se avete gelsi, e nel raccogliere la foglia non aveste tempo di toglierne il secco e i rami troppo sporgenti, fate ciò al tempo in cui essi cominciano a dare la seconda foglia.
 
“In autunno. Seminate subito sul principio, finché la terra è calda, i vostri campi, affinché le piogge non ve lo impediscano, ed acciocché le piante mettano radici profonde, e coperte dalle loro foglie resistano al freddo.
 
"Ingrassate, ma più tardi, quando compariscono le brine, anche li prati con letame vecchio e ben macerato, perché la neve, che lo copre d'inverno, sciogliendosi in primavera ne introduce tutto il grasso nelle zolle fino alle radici dell'erbe.
 
"Se avete vigne sul piano, e v'accorgete in settembre per tempo che v'è del marcio, vendemiate presto, che meglio è aver vino aspro, ma sano, che poco senza forza, e soggetto a marcire.
 
“Zappate profondamente, estraendone i sassi, e gettando la terra a lunghi tumuli coi fianchi rivolti verso mezzodì, il campo dimagrato, che questo sarà prepararlo a darvi nella susseguente estate frutto sicuro ed abbondante. Quest'opera può farsi in molti luoghi anche d'inverno prima che il ghiaccio sia alto.
 
"Nell'inverno. Il privato continui, condotte le legne a casa, a zappare i campi, come detto è sopra, conduca terra dal basso dove abbonda in alto dove manca, prepari fosse o buche per piantarvi magliuoli, o alberi. Ciò in novembre; e quanto alle fosse e alle buche, anche in febbrajo e marzo.
 
“I montanari lavorino a farsi dovunque pur si può acquedotti, i quali per quanto costino pagano in pochi anni tutta la spesa. Non profittare dell'acqua è peccato grave; e se ne ha pentimento quando soffresi il danno nella siccità.
"Gli abitatori delle basse valli facciano ai fiumi arginazioni solide, ed aprano fosse larghe e profonde per dare scolo alle acque, che senza di ciò restano stagnanti nelle campagne un palmo o due sotto alla superficie della terra, e cagionano incalcolabili danni.
 
"Si lavori da tutti e dappertutto a far diritte, e piane quanto più si può, e a rendere uguali, e solide le strade comunali e consortali.
 
"Queste opere si possono eseguire sul principio e sulla fine della stagione, val a dire nel novembre, e, dove non si coltivano viti, nel marzo. Quando la neve e 'l ghiaccio impediscono il lavorare, meglio che partirsi dalla patria sarebbe procurarsi guadagno coll'esercizio di qualche arte o mestiere che presto s'impara, occupando in questo anche le femmine.
 
"E giorni di riposo non ne indica egli mai, dirà qualcuno, cotesto Calendario? Nelle stagioni di gran travaglio avete i giorni piovosi e di festa, e nell'inverno, oltre ai dì festivi, le lunghe notti. Ma notate che il Calendario parla di riposo, e non di ozio, e di stravizzi."
 
E qui finisce il Calendario, o Almanaco, perpetuo trentino. Il quale, benché sia tutto fondato sulla ragione, piacerà forse poco alla gente assuefatta a pascersi delle fole dell'ignoranza o dell'impostura, ed a promettersi il bene da cose che non possono dare. Si dirà che ciò ch'è insegnato da questo Calendario si sa e si fa da tutti, e ch'era inutile il farlo stampare. Ma io ho voluto che sia stampato appunto perché ho certa scienza che pochi sanno quello che questo Calendario insegna, che pochi anche sapendolo vi pongono attenzione, e che molte delle sue prescrizioni sono con danno de' privati e del pubblico trascurate.
 
Il popolo ama di leggere Calendarii, e quasi solo Calendarii. Volete istruirlo? Divulgate buoni ed utili Calendarii.
 
 
Altre operette dell'autore di questa, nelle quali porge consigli e dà suggerimenti a' suoi Contadini intorno all'Agricoltura ed all'Economia.
 
Trento, Sue vicinanze, industria, commercio, e costumi de' Trentini. - La Naunia descritta al Viaggiatore. - Le Strade e i Ponti ‘d la Val de Non. - El peuver Balos, istoriella nonesa. - Queste due ultime sono dettate nel Dialetto che parlasi nella Naunia.
 
Per giustificarsi presso quelli che fossero inclinati a dargli biasimo di avere scritto, essendo Sacerdote, solo di affari mondani, fa noto a chi l'ignorasse, ch'ei pubblicò anche i seguenti opuscoli: Ragionamenti intorno ai dispareri che sono tra gli zelanti Cattolici e i così detti Increduli. - Della Felicità e de' mezzi onde conseguirla. – De' Mezzi ed Ajuti che facilitano il vivere virtuosamente. - Vite de' Santi della Diocesi di Trento. - Dell'importanza della Educazione domestica, e come facile sia lo allevar bene i proprii figliuoli.