I Viceré/Parte seconda/1: differenze tra le versioni

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Quando in città si seppe che il conte Raimondo era piovuto da Firenze in casa Uzeda, ospite inatteso, solo, senza bagagli, con una sacca nella quale aveva ficcato appena la poca biancheria occorrente in viaggio, fu un sussurro generale, uno scambio di commenti, di supposizioni, di domande curiose ed insistenti come per un grave avvenimento pubblico. La prima notizia corsa di bocca in bocca diceva che il contino aveva abbandonato la moglie per separarsene definitivamente. I bene informati sapevano che donna Isabella Fersa, da Palermo, se n’era andata a Firenze, dopo la rivoluzione. Questo solo fatto non bastava a spiegar tante cose? Era dubbio soltanto se l’amica avesse raggiunto il contino di sua propria iniziativa o d’accordo con lui. Dicevano alcuni che ella era andata nel continente per divertirsi, senza pensare più all’Uzeda; ma perché sceglier proprio la città dov’egli stava? Lei come lei aveva oramai ben poco da perdere. Poteva forse sperare d’essere ripresa dal marito, dopo due anni di separazione? Vivendo la suocera, non era possibile; don Mario poteva commettere la debolezza di perdonare, tanto più che voleva ancora bene alla moglie e la piangeva giorno e notte peggio che se fosse morta; ma la madre vegliava per lui. Donna Isabella, dunque, non arrischiava più nulla, anzi, non potendo resistere alle tentazioni, così giovane com’era, piuttosto che procurarsi nuovi amici le conveniva tornare col primo: l’unico errore le sarebbe stato così più facilmente rimesso... Ma per Raimondo la cosa era diversa. C’erano i figli di mezzo, due innocenti creature!... E la buona gente compiangeva la contessa, così mite, così dolce, così devota al marito e condannata intanto - che cosa è il mondo! - ad una vita d’angustie.
 
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La servitù, al palazzo Francalanza, non discorreva d’altro, dimenticava perfino il fidanzamento di Benedetto Giulente con la signorina Lucrezia. Quest’avvenimento, benché previsto e discusso da tanto tempo, aveva già provocato un risveglio dei partiti in cui i famigliari del principe eran divisi; e mentre Giuseppe, il portinaio, si scappellava inchinandosi all’arrivo del fidanzato come se rincasasse il padrone in carne ed ossa, Pasqualino Riso non si toccava neppure il berretto, da sotto l’arco del secondo cortile dove stava a prendere il sole, e a mala pena degnavasi d’abbassar la pipa e di voltarsi di fianco se gli veniva di tirare uno scaracchio. Solo Baldassarre serbava la sua bella imparzialità, badando esclusivamente al servizio e trattando il promesso della signorina come lo vedeva trattato dal principe: con grande compitezza ma senza confidenza. "I padroni sono padroni," diceva il maestro di casa; e se udiva il basso servitorame discutere con troppo calore della scelta della padroncina, rimandava i famigli alla stalla e gli sguatteri in cucina. "È forse tua sorella, animale?" Che cosa avevano essi da vedere se donna Ferdinanda e don Blasco, sempre d’accordo quantunque non si potessero tollerare, non venivano più al palazzo, disapprovando il matrimonio? Faceva veramente un certo effetto anche a lui, Baldassarre, che una degli Uzeda dovesse sposare un avvocato: ma il giovanotto aveva studiato per suo piacere, non già per esercitare la professione. E quantunque non fosse della costola d’Adamo, pure aveva l’educazione dei signori, dava dell’Eccellenza al padre e alla madre; quand’era entrato in casa della promessa aveva regalato alla servitù quel che si deve. Forse i suoi parenti non erano molto fini; ma gli sposi non dovevano fare tutta una casa con loro. Per tutte queste ragioni, Baldassarre non poteva permettere che i suoi dipendenti cicalassero; ma le chiacchiere non finivano mai, e soltanto l’arrivo del contino le avviò sopra un altro soggetto. Che il padroncino Raimondo non fosse venuto per affari, come certuni volevano dare a intendere, era certo e sicuro agli occhi della servitù: se fosse venuto per affari avrebbe portato almeno una valigia, non già quella sacca con due camicie e due paia di calze e di mutande; né avrebbe avuto quella brutta ciera, lui che era sempre di buon umore, lontano dalla moglie! Gli affari, se mai, li aveva col principe suo fratello, e invece se ne andava tutti i giorni dalla zia donna Ferdinanda, quella che era servita di coperchio, nei primi tempi dell’amicizia con la Fersa. E donna Ferdinanda diceva chiaro a tutti la sua opinione: allo stato delle cose, attesa l’incompatibilità dei caratteri tra marito e moglie, non c’era da far altro che separarsi, da buoni amici: mettere le ragazze in collegio, maritarle al più presto, e del rimanente ciascuno per la sua vita.
Quando in città si seppe che il conte Raimondo era piovuto da Firenze in casa Uzeda, ospite inatteso, solo, senza bagagli, con una sacca nella quale aveva ficcato appena la poca biancheria occorrente in viaggio, fu un sussurro generale, uno scambio di commenti, di supposizioni, di domande curiose ed insistenti come per un grave avvenimento pubblico. La prima notizia corsa di bocca in bocca diceva che il contino aveva abbandonato la moglie per separarsene definitivamente. I bene informati sapevano che donna Isabella Fersa, da Palermo, se n’era andata a Firenze, dopo la rivoluzione. Questo solo fatto non bastava a spiegar tante cose? Era dubbio soltanto se l’amica avesse raggiunto il contino di sua propria iniziativa o d’accordo con lui. Dicevano alcuni che ella era andata nel continente per divertirsi, senza pensare più all’Uzeda; ma perché sceglier proprio la città dov’egli stava? Lei come lei aveva oramai ben poco da perdere. Poteva forse sperare d’essere ripresa dal marito, dopo due anni di separazione? Vivendo la suocera, non era possibile; don Mario poteva commettere la debolezza di perdonare, tanto più che voleva ancora bene alla moglie e la piangeva giorno e notte peggio che se fosse morta; ma la madre vegliava per lui. Donna Isabella, dunque, non arrischiava più nulla, anzi, non potendo resistere alle tentazioni, così giovane com’era, piuttosto che procurarsi nuovi amici le conveniva tornare col primo: l’unico errore le sarebbe stato così più facilmente rimesso... Ma per Raimondo la cosa era diversa. C’erano i figli di mezzo, due innocenti creature!... E la buona gente compiangeva la contessa, così mite, così dolce, così devota al marito e condannata intanto - che cosa è il mondo! - ad una vita d’angustie.
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ancora bene alla moglie e la piangeva giorno e notte peggio che se fosse morta; ma la madre vegliava per lui. Donna Isabella, dunque, non arrischiava più nulla, anzi, non potendo resistere alle tentazioni, così giovane com’era, piuttosto che procurarsi nuovi amici le conveniva tornare col primo: l’unico errore le sarebbe stato così più facilmente rimesso... Ma per Raimondo la cosa era diversa. C’erano i figli di mezzo, due innocenti creature!... E la buona gente compiangeva la contessa, così mite, così dolce, così devota al marito e condannata intanto - che cosa è il mondo! - ad una vita d’angustie.
 
La servitù, al palazzo Francalanza, non discorreva d’altro, dimenticava perfino il fidanzamento di Benedetto Giulente con la signorina Lucrezia. Quest’avvenimento, benché previsto e discusso da tanto tempo, aveva già provocato un risveglio dei partiti in cui i famigliari del principe eran divisi; e mentre Giuseppe, il portinaio, si scappellava inchinandosi all’arrivo del fidanzato come se rincasasse il padrone in carne ed ossa, Pasqualino Riso non si toccava neppure il berretto, da sotto l’arco del secondo cortile dove stava a prendere il sole, e a mala pena degnavasi d’abbassar la pipa e di voltarsi di fianco se gli veniva di tirare uno scaracchio. Solo Baldassarre serbava la sua bella imparzialità, badando esclusivamente al servizio e trattando il promesso della signorina come lo vedeva trattato dal principe: con grande compitezza ma senza confidenza. "I padroni sono padroni," diceva il maestro di casa; e se udiva il basso servitorame discutere con troppo calore della scelta della padroncina, rimandava i famigli alla stalla e gli sguatteri in cucina. "È forse tua sorella, animale?" Che cosa avevano essi da vedere se donna Ferdinanda e don Blasco, sempre d’accordo quantunque non si potessero tollerare, non venivano più al palazzo, disapprovando il matrimonio? Faceva veramente un certo effetto anche a lui, Baldassarre, che una degli Uzeda dovesse sposare un avvocato: ma il giovanotto aveva studiato
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La servitù, al palazzo Francalanza, non discorreva d’altro, dimenticava perfino il fidanzamento di Benedetto Giulente con la signorina Lucrezia. Quest’avvenimento, benché previsto e discusso da tanto tempo, aveva già provocato un risveglio dei partiti in cui i famigliari del principe eran divisi; e mentre Giuseppe, il portinaio, si scappellava inchinandosi all’arrivo del fidanzato come se rincasasse il padrone in carne ed ossa, Pasqualino Riso non si toccava neppure il berretto, da sotto l’arco del secondo cortile dove stava a prendere il sole, e a mala pena degnavasi d’abbassar la pipa e di voltarsi di fianco se gli veniva di tirare uno scaracchio. Solo Baldassarre serbava la sua bella imparzialità, badando esclusivamente al servizio e trattando il promesso della signorina come lo vedeva trattato dal principe: con grande compitezza ma senza confidenza. "I padroni sono padroni," diceva il maestro di casa; e se udiva il basso servitorame discutere con troppo calore della scelta della padroncina, rimandava i famigli alla stalla e gli sguatteri in cucina. "È forse tua sorella, animale?" Che cosa avevano essi da vedere se donna Ferdinanda e don Blasco, sempre d’accordo quantunque non si potessero tollerare, non venivano più al palazzo, disapprovando il matrimonio? Faceva veramente un certo effetto anche a lui, Baldassarre, che una degli Uzeda dovesse sposare un avvocato: ma il giovanotto aveva studiato per suo piacere, non già per esercitare la professione. E quantunque non fosse della costola d’Adamo, pure aveva l’educazione dei signori, dava dell’Eccellenza al padre e alla madre; quand’era entrato in casa della promessa aveva regalato alla servitù quel che si deve. Forse i suoi parenti non erano molto fini; ma gli sposi non dovevano fare tutta una casa con loro. Per tutte queste ragioni, Baldassarre non poteva permettere che i suoi dipendenti cicalassero; ma le chiacchiere non finivano mai, e soltanto l’arrivo del contino le avviò sopra un altro soggetto. Che il padroncino Raimondo non fosse venuto per affari, come certuni volevano dare a intendere, era certo e sicuro agli occhi della servitù: se fosse venuto per affari avrebbe portato almeno una valigia, non già quella sacca con due camicie e due paia di calze e di mutande; né avrebbe avuto quella brutta ciera, lui che era sempre di buon umore, lontano dalla moglie! Gli affari, se mai, li aveva col principe suo fratello, e invece se ne andava tutti i giorni dalla zia donna Ferdinanda, quella che era servita di coperchio, nei primi tempi dell’amicizia con la Fersa. E donna Ferdinanda diceva chiaro a tutti la sua opinione: allo stato delle cose, attesa l’incompatibilità dei caratteri tra marito e moglie, non c’era da far altro che separarsi, da buoni amici: mettere le ragazze in collegio, maritarle al più presto, e del rimanente ciascuno per la sua vita.
 
Il principe, invece, non parlava al fratello né della moglie né delle bambine, neppure per chiedergli se eran vive o morte. Raimondo, per conto suo, pareva avesse lasciato la lingua a casa o, se diceva qualcosa, parlava del più e del meno, con aria distratta, impacciandosi meno che mai di quel che avveniva in famiglia. Dell’accordo dei legatari, del matrimonio di Lucrezia non aveva fiatato, come fossero cose che non lo riguardassero punto, o intorno alle quali egli avesse già manifestato la propria opinione. E appena appena s’accorse di Giulente, del futuro cognato.
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Lucrezia trionfava: Benedetto veniva tutte le sere a farle la corte; fra sei mesi sarebbe stato suo marito. Della transazione strozzata, del sacrifizio fatto per proprio conto e quasi imposto agli altri, non si rammentava neppure. Il giovane, articolo interesse, quasi non l’aveva lasciata dire, poiché voleva lei e non la dote, poiché a quel patto s’era ottenuto il consenso del principe. Tuttavia questo consenso era così freddo che pareva strappato per forza; senza contare che don Blasco e donna Ferdinanda non venivano più al palazzo, che lo stesso don Eugenio faceva il viso dell’arme al futuro nipote. Ma più i parenti si mostravano contrari al matrimonio, maggiori dimostrazioni d’affetto ella faceva a Benedetto: "Non dar loro retta: sono tutti pazzi! Senza ragione ti odiano, senza ragione un bel giorno faranno pace!..." E gli narrava le loro pazzie, gli suggeriva il modo come disarmarli, come prenderli dal loro debole. Il giovane non aveva bisogno dei suoi consigli, giacché poneva ogni studio nel farsi accettare dai futuri parenti, sapendo che, se avrebbe potuto fare un matrimonio migliore quanto a interesse, non ne avrebbe potuto fare uno migliore quanto a nobiltà. E i Giulente avevano la manìa d’essere nobili o per lo meno nobilitati dalla lunga serie di magistrati avuti in casa: il loro più grande cruccio era per la mancata istituzione del maggiorasco. Pertanto custodivano gelosamente i diplomi e i ritratti di tutti i dottori, giudici e presidenti dai quali discendevano, e si vantavano per le nobili alleanze contratte, specialmente nelle ultime generazioni. Così agli occhi della gente che non andava troppo pel sottile erano considerati come nobili; come a nobili senza titolo davano loro del cavaliere; ma i puri li tenevano a una certa distanza. In queste condizioni il matrimonio di Benedetto con la sorella del principe di Francalanza era una fortuna, e come tale la consideravano don Paolo e donna Eleonora sua moglie. Dall’orgoglio d’essere riusciti a combinarlo, non s’accorgevano neanche della freddezza e dell’ostilità degli Uzeda, o l’attribuivano
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al liberalismo di Benedetto: il giovane, vano com’essi, ma meno accecato, la notava, e lavorava a vincerla. S’era subito accaparrata la simpatia della principessa, evitando di darle la mano e lodandole la bellezza e la grazia di Teresina. Non molto difficile fu la conquista di don Eugenio, che da principio affettava di non accorgersi di lui. Il giovine, indettato da Lucrezia, gli si mise a parlare di cose storiche e artistiche, dei Viceré Uzeda, ascoltando a bocca aperta le sentenze del cavaliere; poi lo pregò di fargli vedere le sue collezioni d’arte e si profuse in elogi alla vista di tutti i cocci e di tutte le tele imbrattate, pasteggiando a superlativi dinanzi ai Tiziano ed ai Tintoretto, che dichiarò superiori a tutti i quadri degli stessi autori conservati nel museo di Napoli. Venuto Raimondo, però, Benedetto si trovava spesso tra due fuochi, perché don Eugenio e don Cono magnificavano le glorie cittadine, i patrii monumenti, e Raimondo interrompeva il suo mutismo solo per denigrarli. Giulente dava un colpo al cerchio ed un altro alla botte, non sapendo come prenderli, giacché non andavano mai d’accordo. Pur d’ammirare i forestieri, Raimondo quasi disprezzava la nobiltà della sua casa; don Eugenio invece lavorava assiduamente alla sua Istoria cronologica. Non parendogli che questo titolo sonasse abbastanza, lo aveva mutato in quello di Discettazione Istorico-cronologica; ma poiché don Cono sosteneva che discettazione non equivaleva a dissertazione, tra i due s’erano impegnate discussioni molto più lunghe e vivaci che non intorno al modo di scrivere solenne, se con una o con due elle. Richiesto del suo parere, Benedetto pensò un poco non al vocabolario, ma alla freddezza che gli dimostravano, alla guerra dichiaratagli dal monaco e dalla zitellona.
 
"Credo che siano sinonimi..." rispose.
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"Avete capito, testa dura?" disse allora don Eugenio trionfante a don Cono. "V’arrendete finalmente?..."
 
Il principe, dal canto suo, giovavasi del futuro cognato
Il principe, dal canto suo, giovavasi del futuro cognato in altro modo. Il codice sardo aveva sostituito, nel maggio 1861, quello napolitano, e giudici, avvocati e litiganti ammattivano sulla nuova legge. Benedetto, un po’ per amore allo studio, un po’ per zelo patriottico, lo aveva sviscerato col suo maestro; e allora, discorrendo di questo e di quello, il principe induceva il giovanotto a istituire confronti fra i due testi, a indicarne le differenze e le concordanze; certe volte, con l’aria di parlare in tesi generale, di casi immaginari o senza interesse, gli prendeva vere consultazioni legali. Un giorno gli domandò che cosa pensava circa il legato della badia. Giulente, quantunque credesse il contrario, gli rispose che il caso era dubbio, che la nullità di quella istituzione potevasi benissimo sostenere... Per ingraziarsi tutti quegli Uzeda egli ne secondava e incoraggiava le pretese; ma, dall’orgoglio di frequentar la loro casa, dalla superbia di imparentarsi con essi, accettava quella parte, sposava sinceramente le cause dei futuri parenti: la Discettazione del cavaliere gli pareva un’opera veramente utile; le ragioni del principe veramente plausibili. Vanità aristocratiche del padre e infatuamento liberale dello zio si davano la mano in lui; talché, gloriandosi di discendere dal Mastro Razionale Giolenti, sosteneva, a proposito dell’elezione del duca d’Oragua, che il governo del paese doveva esser preso da "noi": cioè da "un’aristocrazia capace, come la inglese, d’intendere e di soddisfare i bisogni della nazione..." Ma, a quelle uscite, egli perdeva il cammino fatto: il principe e il cavaliere non sorridevano tanto di sprezzo per le teorie liberali quanto per udire quel "noi" in bocca sua, nel vedere un Giulente prender sul serio la propria nobiltà. Quando il giovine parlava dei suoi passati, degli onori che avevano ottenuti, delle tradizioni signorili della propria casa, dello stemma di famiglia, il principe si lisciava la barba, don Eugenio guardava per aria, la principessa chinava gli occhi, i lavapiatti ammiccavano fra loro, la stessa Lucrezia, a quel subito gelo diffuso per l’aria, si veniva rannuvolando, mentre approvava con un gesto del capo, ma senza fiatare.
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Il principe, dal canto suo, giovavasi del futuro cognato in altro modo. Il codice sardo aveva sostituito, nel maggio 1861, quello napolitano, e giudici, avvocati e litiganti ammattivano sulla nuova legge. Benedetto, un po’ per amore allo studio, un po’ per zelo patriottico, lo aveva sviscerato col suo maestro; e allora, discorrendo di questo e di quello, il principe induceva il giovanotto a istituire confronti fra i due testi, a indicarne le differenze e le concordanze; certe volte, con l’aria di parlare in tesi generale, di casi immaginari o senza interesse, gli prendeva vere consultazioni legali. Un giorno gli domandò che cosa pensava circa il legato della badia. Giulente, quantunque credesse il contrario, gli rispose che il caso era dubbio, che la nullità di quella istituzione potevasi benissimo sostenere... Per ingraziarsi tutti quegli Uzeda egli ne secondava e incoraggiava le pretese; ma, dall’orgoglio di frequentar la loro casa, dalla superbia di imparentarsi con essi, accettava quella parte, sposava sinceramente le cause dei futuri parenti: la Discettazione del cavaliere gli pareva un’opera veramente utile; le ragioni del principe veramente plausibili. Vanità aristocratiche del padre e infatuamento liberale dello zio si davano la mano in lui; talché, gloriandosi di discendere dal Mastro Razionale Giolenti, sosteneva, a proposito dell’elezione del duca d’Oragua, che il governo del paese doveva esser preso da "noi": cioè da "un’aristocrazia capace, come la inglese, d’intendere e di soddisfare i bisogni della nazione..." Ma, a quelle uscite, egli perdeva il cammino fatto: il principe e il cavaliere non sorridevano tanto di sprezzo per le teorie liberali quanto per udire quel "noi" in bocca sua, nel vedere un Giulente prender sul serio la propria nobiltà. Quando il giovine parlava dei suoi passati, degli onori che avevano ottenuti, delle tradizioni signorili della propria casa, dello stemma di famiglia, il principe si lisciava la barba, don Eugenio guardava per aria, la principessa chinava gli occhi, i lavapiatti ammiccavano fra loro, la stessa Lucrezia, a quel subito gelo diffuso per l’aria, si veniva rannuvolando, mentre approvava con un gesto del capo, ma senza fiatare.
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approvava con un gesto del capo, ma senza fiatare.
 
Una sera egli rammentò il canonico Giulente, fiorito nel secolo scorso, celebre per certe opere di diritto ecclesiastico, specialmente pel grande trattato Del matrimonio. Raimondo, presente, pareva interessarsi a quel discorso.
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"Cioè?"
 
"Eh!... Se ne contano più d’una dozzina... anzi quattordici, precisamente. Prima erano dodici, poi il Concilio di
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Trento li aumentò di due... Studiai queste cose tempo addietro; oggi, se mai," aggiunse voltandosi verso Lucrezia, "piuttosto che gl’impedimenti dovrei studiare le ragioni del sacramento magno..."
 
"Il Sacramento?..." fece Lucrezia che era già nelle nuvole. "È esposto alla cattedrale."
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Qualche giorno dopo quel discorso vi fu un gran ciarlare tra la servitù, giù nella corte: correva in paese la voce che il duca stesse per tornare da Torino, unicamente allo scopo d’accomodare l’imbroglio del contino. Baldassarre, al quale domandavano se la notizia era vera, si stringeva nelle spalle: "So molto, io! Avanzate nulla dal duca, che l’aspettate?..." Ma la notizia era vera: la ripetevano Giulente, suo zio don Lorenzo, tutti gli amici politici del deputato, e anzi parlavasi d’andargli incontro, se veniva per via di terra, e di preparargli una dimostrazione. Egli giunse per via di mare e non era solo: il barone Palmi, nominato senatore dopo la rivoluzione, lo accompagnava. Questi, invece che al palazzo, come le altre volte, scese all’albergo. La cosa parve
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molto grave. Voleva dunque dire che tutto era rotto fra il contino e sua moglie? Che si trattava già di separazione? Ma allora, il duca? Perché tornava anche lui?...
 
In città l’arrivo del deputato mise una rivoluzione, e subito cominciarono a piovere visite per lui: prima di tutti don Lorenzo Giulente col nipote, poi alcune autorità, le rappresentanze di parecchie società politiche; poi una quantità di cittadini d’ogni classe, pezzi grossi, antichi amici e nuovi patriotti che venivano a salutare l’Onorevole, a ringraziarlo delle grandi cose fatte a Torino e, mentre c’erano, a chieder notizia degli affaretti particolari che gli avevano raccomandati. Come al tempo dell’elezione egli riceveva giù, nelle stanze dell’amministrazione, e ringraziava dei ringraziamenti, s’ammantava di modestia; ma, alle domande degli ammiratori, descriveva le sedute del Parlamento, la visita a Vittorio Emanuele e al "povero" Cavour, la vita politica della capitale; e tutti stavano intenti a udirlo. Non aveva aperto bocca, in Parlamento, neppure per dir sì o no; ma in sala l’uditorio non lo spaventava, composto com’era di gente più o meno familiare che gli stava dinanzi in atto deferente; ed egli assaporava il suo trionfo, loquace quanto una pica vecchia, senza neppur avvertire la fatica del viaggio. Cavour gli aveva promesso mare e monti: che peccato che il gran ministro fosse morto! Ma il governo era egualmente ben disposto verso la Sicilia: presto avrebbe messo mano a ferrovie, a porti, a grandi opere pubbliche. Per vegliare al mantenimento delle promesse, in quei giorni egli non avrebbe dovuto lasciare la capitale; ma era dovuto venire in fretta e in furia per certi gravi affari di famiglia... per sistemare certe faccende... Non si sbottonava, ma tutti comprendevano lo stesso. Le visite si seguirono fino a sera; quelli che volevano parlargli da solo a solo non si movevano, parevano decisi di restare a dormire con lui. Quando ne ebbe abbastanza, egli fece un segno a don Lorenzo, e questi condusse via tutti.
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Ma l’Onorevole non andò a letto. Raimondo, avvertito da Baldassarre che lo zio voleva parlargli, lo aspettava impaziente, smanioso, nella sua camera.
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"Me l’ha detto tuo suocero... l’ho sentito ripetere da tutti..."
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"È falso!" ripeté il nipote con voce forte e un poco stridente. Allora il duca batté in ritirata.
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"Vostra Eccellenza ha da dirmi altro?" domandò Raimondo, interrompendolo bruscamente. "Se non ha da dirmi altro, buona notte."
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Il domani, verso mezzogiorno, quando s’aspettava il barone, che la carrozza di casa era andata a prendere, piovve donna Ferdinanda. Erano oltre sei mesi che non saliva più le scale del palazzo, dal giorno che c’era entrato Giulente. Fin all’ultimo momento ella aveva sperato d’impedire che la mostruosità si compisse; ma poiché Lucrezia non sentiva più gli schiaffi né i pizzicotti, quasi fosse divenuta di stucco, e Giacomo si difendeva gettando la colpa sullo zio duca, sul Babbeo e sulla stessa sorella, la zitellona era finalmente andata via facendo sbattere tutti gli usci, gridando: "Riderà bene chi riderà l’ultimo!" e appena giunta a casa, chiamati la cameriera, il cocchiere e il mozzo di stalla, aveva tratto dall’armadio un foglio di carta e lo aveva fatto in mille pezzi: "Neppure un soldo, così!..." Ella pretendeva che i nipoti le portassero obbedienza e le stessero sottomessi per via dei quattrini che, non avendo figliuoli, avrebbe loro lasciati; la distruzione del testamento, in presenza della servitù, era la pena della loro ribellione... Il principe, sulle prime, era stato zitto, per lasciar passare la tempesta, poi aveva mandato dalla zia fra’ Carmelo col figliuolo perché la vista del nipotino prediletto placasse quella furia, poi era andato egli stesso a trovarla, a prendersi addosso, umile e muto, la pioggia di rimproveri rovesciata dalla zitellona. E a poco a poco, pel bisogno di sentirsi far la corte, per non poter rinunziare a ingerirsi nelle faccende dei nipoti, ella s’era venuta placando, ma senza andar da loro: la casa dei suoi maggiori era profanata, contaminata dalla presenza di quel pezzente, di quel bandito, di quell’assassino che chiamavasi Benedetto Giulente, avvocato, AVVOCATO! Neppur l’arrivo di Raimondo l’aveva rimossa dal suo proposito; del resto il nipote era venuto da lei assiduamente a prendere i suoi consigli. In odio alla Palma, per distruggere quel matrimonio stretto contro il suo piacere, ella aveva spinto il giovane alla rottura definitiva. Come Giulente, la Palma
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macchiava la casa degli Uzeda: ella non voleva che ci rimettesse piede. E difendeva donna Isabella contro le accuse di cui l’udiva fare oggetto: anche lei era stata sacrificata con quell’ignobile Farsa, farsa tutta da ridere: niente di più naturale che quel matrimonio tanto male assortito fosse finito peggio: se avessero dato la Pinto a Raimondo, allora sì!... A un tratto, una sopra l’altra le avevano portato le due notizie dell’arrivo del duca e del barone e dell’imminente riconciliazione tra suocero e genero. Raimondo non s’era fatto vivo; l’avvenimento stava per compiersi ad insaputa di lei! Allora, il tempo di far attaccare, e subito al palazzo... Quando ella entrò nella Sala Gialla c’erano il principe e la principessa, don Eugenio, il duca, Lucrezia col promesso, Chiara col marchese, e Raimondo che passeggiava come un leone in gabbia. Benedetto Giulente, appena la vide entrare, s’alzò rispettosamente: ella gli passò dinanzi come se fosse uno dei mobili sparsi per la sala; non rispose al saluto di nessuno tranne a quello di Raimondo che trasse in disparte verso una finestra.
 
"Vecchia pazza!" disse Lucrezia al fidanzato, avvampando subitamente in viso.
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"Piccoli malintesi! I giovani hanno le teste calde!" esclamò con un sorriso tra di modestia e di compatimento l’Onorevole.
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Raimondo aveva finito intanto di parlare con la zia e ricominciava a passeggiare su e giù: era verde in viso e si morsicchiava i baffi, torcendo le labbra, con le mani in tasca.
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"Quest’altra pettegola, adesso? Ha da esserci tutta la città?... Non vede Vostra Eccellenza che scena ridicola?..."
 
"Pazienza!... Pazienza!..." cominciò il duca; ma già un’altra carrozza entrava nel cortile. Egli ripassò di là e poco dopo comparve insieme col senatore. Questi era pallidissimo,
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si vedeva sotto le guance il movimento delle mascelle nervosamente contratte.
 
"Raimondo," esclamò il deputato disinvolto, e conciliante; "c’è qui tuo suocero..."
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"Come credete," rispose Palmi.
 
A un tratto s’udì per la terza volta una carrozza che entrava nel cortile e tutti gli occhi si volsero verso l’usciol’
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uscio d’entrata. Chi poteva essere? Ferdinando? La duchessa?...
 
Spuntò don Blasco.
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"La pagheranno, sai!" disse, "la pagheranno!... Se mi vedranno più in questa casa!... Se t’arrischierai di guardarli più in viso!..."
 
Il duca parve non accorgersi dell’arrivo del fratello. Per
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animare la conversazione languente, e vincere la freddezza da cui tutti erano impacciati, e rendersi utile, la cugina aveva cominciato a chiedergli notizie del suo viaggio attraverso l’Italia; e il deputato parlava a vapore:
 
"La baraonda di Napoli, eh? Che paesone! Pareva che tolta la Corte, i ministeri, tutto il movimento della capitale, dovesse spopolarsi, ridursi come una città di provincia; invece cresce ogni giorno, è più animata di prima. Anche Torino è piena di vita, però in modo diverso..."
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"Dice che raggiungerà sua moglie e che poi se ne torneranno qui. È stato lo zio duca quello che ha combinato ogni cosa. Per me, facciano quel che vogliono. Ma vedrà che ricominceranno. Vorrei sbagliare, ma siamo ancora al principio..."
 
"Quella bestia perché ci s’è messo? Non ha abbastanza
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tigna in capo? Ha da ficcare dovunque il naso? Ma il perché lo so io, il perché... lo so io, il perché!..."
 
E stava per continuare, per vuotare il sacco, quando entrò Baldassarre, grave e dignitoso come la solennità richiedeva.
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Benedetto, quantunque il monaco non lo guardasse, fece col capo un gesto tra d’assenso a ciò che quegli diceva, tra di scusa per l’insistenza del duca.
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"Pareva concedesse una grazia speciale, onorandoci della sua presenza!" continuava frattanto donna Ferdinanda. "Come se non si fosse trattato d’interessi suoi! Come se la colpa di ciò che è successo non fosse sua! E quella bestia che lo prega per giunta e che gli dà ragione! Per renderlo più presuntuoso ed arrogante!..."
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Intanto il duca, giù nell’amministrazione, riceveva i delegati dei sodalizi e una gran quantità di elettori influenti e una vera processione d’ammiratori di ogni condizione che venivano a fargli atto di omaggio. La stessa scena della sera prima, ma più grandiosa; a poco a poco tutta la città sfilava dinanzi al deputato; per due persone che andavano via, quattro ne sopravvenivano;
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e non essendoci più posto da sedere, tutti restavano in piedi, coi cappelli in mano, aspettando i saluti che il duca veniva distribuendo in giro. Alcuni oratori improvvisati, persone che egli non conosceva neppure, parlavano a nome dei compagni, affermavano in risposta alle sue espressioni di modestia che il paese non avrebbe mai dimenticato ciò che doveva al signor duca. Tutti gli altri, a bocca aperta, badavano a raccogliere religiosamente le parole dell’Onorevole; il quale, cessati i complimenti, ragionava della cosa pubblica, prometteva la Venezia, aveva Roma in tasca, assicurava insieme col politico il risorgimento morale, agricolo, industriale e commerciale del paese. "Questo era il programma di Cavour. Che testa! Ragionava della Sicilia come se ci fosse nato; sapeva il prezzo dei nostri frumenti e dei nostri zolfi meglio di un sensale di piazza..." Il governo gli aveva promesso una quantità di provvedimenti per l’isola, giacché bisognava pensare a tutto: dall’educazione della gioventù al lavoro per gli operai. A poco alla volta, con la concordia e la pace, la prosperità pubblica e privata sarebbe stata raggiunta. Egli la faceva quasi toccar con mano, e le persone venute per sapere che ne era delle loro domande d’un posticino, o d’un sussidio, o d’una pensione, andavano via portandolo alle stelle come se avesse colmato loro le tasche, spargendo per la città la nuova della riconciliazione avvenuta tra il conte e sua moglie: opera e merito del duca, il quale aveva fatto il sacrificio di lasciar la capitale in un momento come quello per indurre il nipote alla ragione. Non s’udivano se non esclamazioni di lode all’indirizzo del deputato; dal cortile del palazzo al Gabinetto di lettura, tutti ad una voce giudicavano che in questa occasione egli aveva fatto opera buona e doverosa; solamente don Blasco, nella farmacia borbonica, gridava come un ossesso:
 
"Ah, gli credete?... Perché credete che l’ha fatto? Per dar soddisfazione alla canaglia! Perché si dica che difende la morale!... E per un’altra ragione ancora...per
=== no match ===
ingraziarsi quell’altro cialtrone amico dei mangiapolenta!... Il sonatore dei miei sonagli!... Il barone con sette paia di effe..."