Pagina:Prose e poesie (Carrer).djvu/198: differenze tra le versioni

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{{pt|dendo|prendendo}} le mosse dal serventese attribuito a {{AutoreCitato|Sordello da Goito|Sordello}}, e dalle divote filastroccole di {{AutoreCitato|Jacopone da Todi|fra Giacopone}}, quando pure vogliansi disconoscere i mirabili tratti di vera e potente satira sparsi nella {{TestoCitato|Divina Commedia|divina Commedia}}, fonte primaria e abbondante d’ogni poesia, si venne distendendo nel progresso dei tempi al {{AutoreCitato|Antonio Vinciguerra|Vinciguerra}}, al {{AutoreCitato|Jacopo Soldani|Soldani}}, all’{{AutoreCitato|Lodovico Adimari|Adimari}}, al {{AutoreCitato|Ludovico Paterno|Paterno}}, e a più altri, fino all’{{AutoreCitato|Ludovico Ariosto|Ariosto}}, che, come in ogni altro genere di scritture da esso tentato, in questo ancora tiene seggio distinto. Ma ne’ sovrannotati, con molta e spesse volte feroce biliosità, l’arte si trova assai scarsa, e le invenzioni molto meschine. Le inversioni, i costrutti e le frasi troppo strettamente latine fanno irto e spiacevole lo stile del Vinciguerra, e la sprezzatura del verso è troppo palese: e sì tutto il candore e la nobile indignazione di una bella anima traspira da’ suoi capitoli. All’Adimari e al Paterno, il primo de’ quali prevalente per forbitezza di lingua, il secondo per ricchezza di fantasia, tolgono grido di eccellenti satirici la prolissità inenarrabile, e le fastidiosissime ripetizioni. Non è persona gentile che legga il Soldani senza farsi rossa più volte per la scurrilità invereconda delle allusioni, e cui non affatichi e sconforti nella lettura la straordinaria ambiguità delle frasi, e il lambiccato di molti concetti. L’Ariosto che ben poteva (e che non poteva quel mago sovrano, il cui ingegno, quasi fosse il libro di Malagigi, in qualunque parte si aprisse, mostrava il vero ed il <noinclude>me-</noinclude><span class="SAL">198,3,Micione</span>
{{pt|dendo|prendendo}} le mosse dal serventese attribuito a {{AutoreCitato|Sordello da Goito|Sordello}}, e dalle divote filastroccole di {{AutoreCitato|Jacopone da Todi|fra Giacopone}}, quando pure vogliansi disconoscere i mirabili tratti di vera e potente satira sparsi nella {{TestoCitato|Divina Commedia|divina Commedia}}, fonte primaria e abbondante d’ogni poesia, si venne distendendo nel progresso dei tempi al {{AutoreCitato|Antonio Vinciguerra|Vinciguerra}}, al {{AutoreCitato|Jacopo Soldani|Soldani}}, all’{{AutoreCitato|Lodovico Adimari|Adimari}}, al {{AutoreCitato|Ludovico Paterno|Paterno}}, e a più altri, fino all’{{AutoreCitato|Ludovico Ariosto|Ariosto}}, che, come in ogni altro genere di scritture da esso tentato, in questo ancora tiene seggio distinto. Ma ne’ sovrannotati, con molta e spesse volte feroce biliosità, l’arte si trova assai scarsa, e le invenzioni molto meschine. Le inversioni, i costrutti e le frasi troppo strettamente latine fanno irto e spiacevole lo stile del Vinciguerra, e la sprezzatura del verso è troppo palese: e sì tutto il candore e la nobile indignazione di una bella anima traspira da’ suoi capitoli. All’Adimari e al Paterno, il primo de’ quali prevalente per forbitezza di lingua, il secondo per ricchezza di fantasia, tolgono grido di eccellenti satirici la prolissità inenarrabile, e le fastidiosissime ripetizioni. Non è persona gentile che legga il Soldani senza farsi rossa più volte per la scurrilità invereconda delle allusioni, e cui non affatichi e sconforti nella lettura la straordinaria ambiguità delle frasi, e il lambiccato di molti concetti. L’Ariosto che ben poteva (e che non poteva quel mago sovrano, il cui ingegno, quasi fosse il libro di Malagigi, in qualunque parte si aprisse, mostrava il vero ed il <noinclude>me-</noinclude>{{SAL|198|3|Micione}}