Odissea (Pindemonte)/Libro I: differenze tra le versioni

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Rapiti non avea, ne’ loro alberghi</poem>
 
 
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Fuor dell’arme sedeano, e fuor dell’onde.
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Nella gran reggia dell’Olimpio Giove
Stavansi; e primo a favellar tra loro
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Fu degli uomini il padre, e de’ Celesti,
Che il bello Egisto rimembrava, a cui{{R|45}}
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Re de’ regnanti", così a lui rispose
L’occhiazzurra Minerva: "egli era dritto
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Che colui non vivesse: in simil foggia
Pera chïunque in simil foggia vive!{{R|70}}
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Giove, contra lui dunque in te s’alletta?"
"Figlia, qual ti lasciasti uscir parola
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Dalla chiostra de’ denti?" allor riprese
L’eterno delle nubi addensatore:
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Cui tinge gli occhi un’azzurrina luce,
"Se il ritorno d’Ulisse a tutti aggrada,
 
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Ché non s’invìa nell’isola d’Ogige
L’ambasciator Mercurio, il qual veloce
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E a cui sentir fa di qual padre è nata.
Dagli alti gioghi del beato Olimpo
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Rapidamente in Itaca discese.
Si fermò all’atrio del palagio in faccia,
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Fra cotali pensier Pallade scorse,
Né soffrendogli il cor che lo straniero
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A cielo aperto lungamente stesse,
Dritto uscì fuor, s’accostò ad essa, prese
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Versava, e stendea loro un liscio desco,
Su cui la saggia dispensiera i pani
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Venne a impor candidissimi, e di pronte
Dapi serbate generosa copia;
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Le parlava in tal guisa: "Ospite caro,
Ti sdegnerai se l’alma io t’apro? In mente
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Non han costor che suoni e canti. Il credo:!
Siedono impune agli altrui deschi, ai deschi
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Che cerùleo splendor porta negli occhi,
T’udrai narrare. Io Mente esser mi vanto,
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Figliuol d’Anchìalo bellicoso, e ai vaghi
Del trascorrere il mar Tafî comando.
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Cui cerchia un vasto mar, gente crudele
Rattienlo: lo rattien gente crudele
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Vivo, ed a forza in barbara contrada.
Pur, benché il vanto di profeta, o quello
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Ma, poiché tu mel chiedi, al più infelice
Degli uomini la vita, ospite, io deggio".
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"Se ad Ulisse Penelope", riprese
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Alzato avriangli un monumento i Greci,
Che di gloria immortale al figlio ancora
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Stato sarebbe. Or lui le crude Arpìe
Ignobilmente per lo ciel rapiro:
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Di Mèrmero al figliuol, velen mortale,
Onde le frecce unger volea, veleno
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Che non dal Mermerìde, in cui de’ numi
Era grande il timor, ma poscia ottenne
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E, del tuo genitor molt’anni assente
Novelle a procacciarti, alza le vele.
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Troverai forse chi ten parli chiaro,
O quella udrai voce fortuita, in cui
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Converti in opre: d’un eroe l’aspetto
Ti veggio: abbine il core, acciò risuoni
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Forte ne’ dì futuri anco il tuo nome".
 
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Telemaco fu preso. Indi, già fatto
Di se stesso maggior, venne tra i proci.
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Taciti sedean questi, e nell’egregio
Vate conversi tenean gli occhi; e il vate
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Canzon molesta che mi spezza il cuore,
Sempre che tu la prendi in su le corde;
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Il cuor, cui doglia, qual non mai da donna
Provossi, invase, mentre aspetto indarno
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Stupefatta rimase, e, del figliuolo
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Portando in mezzo l’alma il saggio detto,
Nelle superne vedovili stanze
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Un giusto guiderdon renda, e che inulto
Tinga un dì queste mura il vostro sangue".
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Morser le labbra ed inarcar le ciglia
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Posa de’ numi onnipossenti in grembo.
Di tua magion tu il sei; né de’ tuoi beni,
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Finché in Itaca resti anima viva,
Spogliarti uomo ardirà. Ma dimmi, o buono,
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Lor sopravvenne il buio, e ai tetti loro{{R|540}}
Negli occhi il sonno ad accettar n’andàro.
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Telemaco a corcarsi, ove secreta
Stanza da un lato del cortil superbo
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Si trasse dietro per l’anel d’argento;
Tirò la fune, e il chiavistello corse.{{R|565}}
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==[[Pagina:Odissea (Pindemonte).djvu/39]]==
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Sotto un fior molle di tessuta lana
Ei volgea nel suo cor, per quell’intera