Trattato de' governi/Libro quarto/XIII: differenze tra le versioni

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Ma dicasi da me della republica stessa, di che natura e qualmente ella debba essere composta, in quella città, che abbia ad esser felice, e che abbia a reggersi con buon governo. E perchè due sono le cose, in che consiste il bene a ogni uomo; delle quali una n’è proporsi buon segno, e buon fine, e l’altra nel ritrovare, buoni mezzi da conseguirlo. Perchè queste due cose possono e concordare, e discordare l’una con l’altra; perchè il segno alcuna volta proposto è buono, ma conseguirlo si fa l’errore. E all’incontro avviene, che tutti i mezzi s’hanno buoni, ma il fine, che un s’è proposto è cattivo. E alcuna volta sta male l’una parte e l’altra, sicome interviene ancora nella medicina; che alcuna volta non vi si fa buon giudizio, come debba essere fatto il corpo sano, ne le medicine, e l’operazione del medico alcuna volta si fanno bene per il fine, che, s’è presupposto. Però bisogna nell’arti, e nelle scienze, che queste due cose vi stieno ottimamente, il fino dico, e li mezzi da condurvisi.
Ma io vo’ disputare alquanto con chi confessa la vita virtuosa essere la desiderabilissima, ma che non conviene nell’uso d’essa virtù, e vo’ dire le ragioni dell’una parte e dell’altra. Dall’una sono dannati li magistrati civili, come da chi stima la vita d’uno uomo libero esser diversa da quella di chi amministra le cure civili; e così la prima vita essere la desiderabilissima. Dall’altra si tiene in contrario per ottima vita questa altra, con allegare che egli è impossibile cosa a farsi bene da chi non fa nulla, e che la buona operazione, e la felicità è una cosa medesima. E certamente che l’una parte, e l’altra dice bene, e non dice bene. Dice bene quella che afferma la vita d’un uomo libero essere migliore di quella di chi governa violentemente. E ciò è vero, imperocchè e’ non è cosa alcuna generosa a usare il servo, come servo; perchè il comandamento delle cose necessarie non ha in sè cosa alcuna d’onesto.
 
Che il fine, adunche sia il ben vivere, e la felicità, è cosa manifestissima. Ma certi è, che posson ciò conseguire, e certi no, impediti dalla fortuna, o dalla natura: perchè e’ non si può conseguirla senza aver qualche ajuto. E quanto uno è men disposto, ha ei di manco ajuti bisogno; e di più, quanto egli è disposto al contrario. Certi altri è, che non subito cercano di conseguirla, sebbene e’ possono. Ma perchè l’intento nostro è vedere qual sia l’ottima republica, e tale è quella, mediante la quale la città ha buon governo e governo buono è quello, mediante il quale ella può conseguire massimamente la felicità, però non bisogna ignorare che cosa sia la felicità.
Ma e’ non è già vero il giudizio di chi stima ogni imperio per violento, perchè e’ non è men differente l’imperio sopra gli uomini liberi da quello che è sopra li servi, che sia differente il libero per natura dal servo per natura. Ma di tal materia è stato determinato a sufficienza nei primi discorsi. Ma il volere piuttosto lodare lo starsi che l’operare, è ben falso; conciossiachè la felicità sia una operazione. Oltra di questo l’azioni dei giusti, e delli temperati hanno per fine molte cose oneste.
 
Di lei ho io parlato nell’Etica, e se alcuno giovamento ci possono arrecare quei discorsi; che ella, cioè, è uno atto, e uno uso di virtù perfetta, e che tal virtù non è per supposizione, ma è assolutamente. Io chiamo per supposizione, le cose necessarie, e per assolutamente, l’oneste. Come è verbigrazia intorno alle azioni giuste sono i supplizî, e le punizioni delle cattività, perchè elle precedono da virtù, contuttociò elle sono necessarie, e hanno l’onesto per necessità, conciossiachè e’ sarebbe più eligibile il non aversi mai bisogno di loro, nè dall’uomo, nè dalla città. Ma l’azioni, che tendono agli onori, e alle facoltà, sono veramente azioni oneste, perchè l’una parte di queste azioni è una elezione di qualche male, e l’altra è eletta per il contrario, perchè ella ci è preparatrice di bene.
E forse qui, fattasi da me simile determinazione, potrebbe sospettare uno, che e’ fusse cosa ottima l’essere padrone d’ogni uomo; perchè in tal modo sarebbe uno signore di far cose onestissime e giuste. Per la cui cagione non dovere uno, che li ne sia porto occasione d’essere sopra gli altri, lasciarla al compagno, anzi piuttosto togliernela; nè il padre dovere lasciarla al figliuolo, nè il figliuolo al padre, nè insomma l’amico dovere avere rispetto all’altro amico, nè di ciò tenere alcuno conto. Perchè l’ottimo è cosa desiderabilissima, e il ben fare è cosa ottima.
 
Può bene essere, che l’uomo virtuoso sia costantemente quando egli è constituito in povertà, in malattia, e in simile altra cattiva fortuna, ma e’ non è per questo che la felicità non alberghi negli abiti contrarî a questi. E questa materia ho io determinato nell’Etica, cioè che il virtuoso uomo è quegli, al quale mediante la virtù sono beni li semplicemente chiamati beni. Onde è manifesto, che l’uso di tali per necessità gli sarà virtuoso e onesto assolutamente. E di qui è che il vulgo si stima, che li beni esterni sieno cagione della felicità, non altrimenti che se del sonare la lira bene dicesse uno essere di ciò piuttosto cagione la lira, che non fosse l’arte.
E questo sarebbe forse vero, se e’ restasse in chi usurpa gli imperî, e in chi forza gli altri a stare sottoposti, quella cosa che infatto è ottima; ma e’ non è forse possibile che ella resti in loro. Ma fassi qui un presupposto falso, conciossiachè e’ non sia lecito a un tale di operare cose oneste, se già e’ non è tanto sopra gli altri per virtù, quanto è l’uomo dalla donna, o il padre dai figliuoli, o il padrone dai servi. Onde chi trapassa il segno nel voler dominare a chi non si conviene, non può mai tanto correggere un simile errore dappoi col bene fare, che e’ non sia maggiore il peccato; perchè l’onesto, e il giusto è infra li simili, e infra quegli che scambievolmente comandano. E questo è pari e simile. Ma il non pari al pari, e il non simile ai simili è cosa fuori di natura, e nessuna cosa è buona, che sia fuori dell’ordine della natura. Onde se ei si trovasse uno, che per bontà avanzasse gli altri, e per potenza da poter mettere in atto cose ottime, a costui sarebbe onesta cosa di cedere, e sarebbe giusta cosa ubidirgli. Ma e’ non basta a tale ancora la virtù, che ancora li fa mestieri di possanza, mediante la quale e’ possa operare.
 
È adunche chiarito per li detti nostri, che certe delle cose dette si debbon presupporre, e che certe ne debbe preparare il datore di legge. Onde vorrei io, secondo il mio desiderio parlando, constituire una città in quelle cose, di che fosse padrona la fortuna. Chè invero la fortuna si mette per padrona. Ma e’ non è già uffizio di fortuna, che la città sia virtuosa, ma di scienza, e d’elezione. E virtuosa è quella città che ha virtuosi li cittadini che partecipano del governo: e noi vogliamo che nella nostra tutti li cittadini vi partecipino, e però è da vedere in che modo l’uomo si faccia virtuoso, perchè se tutti possono essere virtuosi, e’ non è più eligibile di questo che ciascuno sia virtuoso, imperocchè nel modo detto imprima conseguita, che ciascuno, e che tutti sieno virtuosi.
Ora, se queste cose sono bene dette, si può conchiudere che la felicità sia una buona operazione, e che la vita ottima sia quella che opera bene e nella città universalmente e in particolare in ciascuno. Ma e’ non è già necessario, che la operazione sia ad altri, come molti si stimano, nè che quei pensieri soli siano attivi, che sono per fine di quelle cose che risultano dallo operare, ma molto più quegli, che sono in loro stessi perfetti, e che considerano, e che discorrono per cagione di loro stessi e non d’altri: perchè la buona azione è fine. Onde egli è fine ancor la azione. Ma di più in esse azioni esterne quegli veramente si dice operare, che è architettonico, e che col pensiero attende all’opera.
 
Ma gli uomini si fanno buoni, e virtuosi mediante tre cose, le quali sono: natura, costume e ragione; conciossiachè prima bisogni nascere, come è dire uomo, e non un altro animale bruto, e medesimamente bisogna avere un corpo e un’anima bene disposta. E in certi si vede, che l’essere bene per natura creati non fa loro giovamento alcuno, perchè li costumi li fan rimutare, conciossiachè certi da natura sieno di tale sorte, che il costume gli possa volgere al meglio, e al peggio.
Che e’ non è già necessario che quelle città, che da per loro stesse si vivono, e che hanno preso una simile elezione, si dichino private d’operazioni, perchè una tal cosa può accadere nelle parti loro, avendo le parti della città molte comunicanze l’una con l’altra. E questo medesimo può accadere in ciascuno uomo verso sè stesso, imperocchè Dio ottimo altrimenti a pena starebbe bene; e il mondo tutto che è privato d’azioni esterne, e che ha solamenta le sue propie. Che adunche una vita medesima per necessità sia ottima alla città, e a ciascuno uomo in particolare è manifesto per le cose dette.
 
Gli altri bruti adunche vivono più secondo la natura, e certi pochi ancora secondo il costume. L’uomo di più vive secondo la ragione, perchè egli solo l’ha, onde bisogna che tai cose sieno concordi. Che e’ si vede, ch’egli opera molte cose fuori del costume, e della natura, quando egli è persuaso dalla ragione, che quelle cose sieno migliori. Innanzi ne dichiarai io, come dovevono essere fatti per natura quei cittadini, che erano atti facilmente a ubbidire al legislatore. Il resto s’appartiene alla erudizione. E l’erudizione si fa parte con la consuetudine, e parte con la udizione.