Degli edifizii/Libro quinto: differenze tra le versioni

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LIBRO V

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IV VI


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LIBRO QUINTO


CAPO PRIMO.

Tempio di S. Giovanni evangelista in Efeso.
Granai nell’isola di Tenedo.


Abbiamo nell’antecedente libro esposti per quanto potemmo gli edifizii di Giustiniano Augusto in Europa. Ora dobbiamo passare alle parti dell’Asia omesse. Di sopra parmi, è vero, di avere fatta menzione delle fortificazioni di città e castelli, e d’altre cose ch’egli costruì nell’oriente dal confine persiano sino alla città di Palmira, posta nella Fenicia soggetta al Libano. Presentemente prendo a dire degli edifizii di lui nella rimanente Asia, e nell’Africa; delle città cinte di mura; delle provvidenze date per rimediare o a strade difficili e piene di pericoli, perchè poste su precipizii di monti, o perchè andanti sull’orlo di fiumi, da cui facilmente cadendo i passeggieri rimanevano sommersi; o a tante calamità, a cui erano le città esposte. Incomincio adunque.

Era presso la città di Efeso un luogo aspro per situazione, non di buon terreno capace di frutto, se con industria si fosse coltivato, ma dirupato affatto e sassoso. Ivi anticamente gl’indigeni aveano fabbricato un tempio ad onore dell’apostolo Giovanni, soprannominato il Teologo, per aver ragionato della divina natura [p. 450 modifica]cose superiori alla umana intelligenza. Ora quel tempio, piccolo assai, e non più resistente alla forza degli anni, Giustiniano imperadore demolì tutto; ed invece lo rifabbricò sì grande e sì splendido, che, per dir tutto in breve, riuscì somigliantissimo, e pari affatto a quello, che nella regia città consacrò a tutti gli Apostoli, conforme ho detto ne’ libri antecedenti.

In Efeso dunque vedesi questa opera del nostro Principe. Quella ch’egli eresse nell’isola di Tenedo, è mirabilmente utile alla regia città, e ai Parcenevoli, che navigano a cagione di commercio: il che dimostrerò facilmente, una cosa sola esponendo. Strettissimo è il mare nell’Ellesponto, poichè ivi si avvicinano quasi ad unirsi le due coste de’ continenti, e danno principio al canale presso Sesto ed Abido. Le navi colà giunte, qualunque esse sieno, che muovano verso Costantinopoli, approdate a quella spiaggia, non possono discostarsene se non soffiando l’austro. Per lo che, ove il naviglio, carico di frumento, procedente da Alessandria ivi sia giunto, se quelli che intendono a tale mercatura, hanno propizio il vento, in breve giungono a Costantinopoli; ed ivi scaricato quanto portavano, ne partono per ritornare ad un secondo, ed anche a un terzo carico prima che giunga l’inverno. E chi di loro vuol caricare altre merci da smaltire in Alessandria, tanto meglio fanno i fatti loro nell’accennato ritorno. Ma accadeva pur anche, che se nell’Ellesponto spirava contrario vento, ivi pel ritardo della navigazione le navi e il frumento grandemente pativano. Giustiniano Augusto dando pensiero a questi casi, ben dimostrò, come col [p. 451 modifica]coraggio e colla provvidenza sua l’uomo può far molto anche ad onta di grandi difficoltà. Edificò egli adunque nell’isola di Tenedo, prossima al canale suddetto, vasti granai, capaci di contenere tutto il frumento dai navigli trasportato; e furono essi larghi non meno di novanta piedi, lunghi dugento ottanta, ed alti sommamente. Perciò dopo che quella grande opera è stata compiuta, se contrarii venti sorgano a ritardare la navigazione, i conduttori de’ frumenti, giunti ivi, ne scaricano le navi, e li trasportano in que’ granai, non imbarazzandosi più nè di borea, nè di zeffiro, nè di altro vento contrario, che senza punto turbarsi lasciano soffiare a lor modo; e intanto si accingono a ritornare per nuovo carico colà, d’onde sono venuti. Altre navi poi, quando sia comodo, da Tenedo portano le provvigioni a Costantinopoli, le quali hanno appunto questa incumbenza.

CAPO II.

Cose fatte in Elenopoli, e sul fiume Dragone.


Nella Bitinia è una città chiamata dal nome di Elena, madre dell’imperadore Costantino: dicendosi ivi nata quella donna. E come dianzi il luogo era ignobile, Costantino volendo mostrarsi grato alla madre, il nome e la dignità gli concedette di città, senza però lasciarvi alcun monumento d’imperiale magnificenza. Infatti se si considera la struttura e l’ornato, si vede che il luogo conservava il suo primo stato, insigne soltanto pel nudo titolo di città, ed unicamente glorioso del nome [p. 452 modifica]della donna, che ivi avea avuta la vita. Ma l’Imperador nostro, onde temperare il rimprovero che avesse potuto farsi al fondatore dell’Impero, prima di tutto veggendo quella città angustiata per mancanza d’acqua, vi costruì un superbo acquidotto; e lo spettacolo inatteso vi offrì di tanta abbondanza d’acqua, che non solo corrispondesse al bisogno della sete e del vitto, ma eziandio ad ogni modo di lavanda, e a tutte le altre delizie, che dall’abbondanza dell’acqua si ottengono. E fece ancora un nuovo bagno; ed un altro ne ristaurò, che parte per la detta mancanza di quell’elemento, parte per la incuria era guasto e rovinoso. Di più vi fabbricò tempii, palazzi, portici, abitazioni pe’ magistrati, e con queste ed altre cose, mirabilmente abbellì, e fece lieta quella città.

Presso ad essa scorre un fiume, che gl’indigeni per la forma del medesimo chiamano Dragone, atteso che va errando tortuoso fra strette sassose, e declina, e si torce, sovente ripiegandosi ed ora torna indietro, ora si volta a destra, ora a sinistra; sicchè chi viaggia a quella parte è costretto a passarlo venti volte, e più: onde poi avveniva che molti perissero nel passaggio, sorpresi inaspettatamente dal repentino ingrossarsi delle acque, nè facile a prevedersi. E si aggiungeva pur anche, che diventava più pericoloso per la circostanza, che un folto bosco, ed un canneto vasto, e fitto ne impediva lo sbocco in mare: per lo che ne pativano ancora i luoghi vicini. E non è molto tempo, che cresciuto fortemente per grosse piogge ristagnò, e rovesciando le acque sulle adiacenti terre, recò gravissimi danni, [p. 453 modifica]essendosi per l’alluvione perdute molte ben lavorate campagne, e vedutesi strappate dalle radici viti, olivi, ed innumerabili piante d’ogni genere; e distrutte case prossime alle mura della città; ed ampiamente cagionate agli indigeni mille calamità diverse. Per le quali tocco di compassione l’imperadore Giustiniano, venne in deliberazione di quanto sono per dire. Fatto tagliare quel bosco, e strappare tutte quelle canne, fece spedita al fiume la via, onde libero corresse al mare; nè più s’alzasse fuori del letto, ed inondasse il paese all’intorno. In oltre fatti aprire in mezzo i monti, che minacciosi soprastavano, dove pendevano precipizii e dirupi aprì una strada comoda ai carri; onde succede che gli abitanti non abbiano per lo più alcun bisogno di passare quel fiume, come dianzi: al quale avendo anche fatto fare due ponti larghissimi, ognuno può passarlo con tutta sicurezza.

CAPO III.

Riparazioni fatte a Nicea e a Nicomedia. Ponte sul Sangaro. Strada consolidata. Pizia ornata di palazzo, di bagni, e di tempio.


Nè è da tacersi i benefizii suoi verso Nicea, città di Bitinia. Primieramente rifece ivi un acquidotto rovinoso, e divenuto inutile: con ciò somministrando a quella città larga copia di acqua. Indi vi fabbricò tempii, e monasterii, quali per le femmine, quali pe’ maschi. Rinnovò da’ fondamenti il palazzo, di cui una parte era già [p. 454 modifica]caduta; e così fece delle terme, che già da tempo erano affatto guaste nella stagione de’ così detti veredarii. E come presso al fianco occidentale della città corre un torrente, il quale ivi chiude pienamente il passo; e un ponte, che vi aveano fatto gli antichi, mal situato altronde, e mal costruito, la furia del torrente lo aveva distrutto, sicchè non ne rimaneva più vestigio; l’imperador Giustiniano un altro n’edificò sì largo ed alto, che l’antico non sarebbesi detto che una minima parte di esso. Per lo che quando il torrente è gonfio d’acque, ottimamente quel ponte sovrastandogli dà un sicuro passaggio.

In Nicomedia ristaurò le terme di Antonino, delle quali la principal parte caduta, attesa la grandezza dell’opera necessaria, non lasciava speranze di rifacimento.

Un gran fiume, oggi detto Sangaro, di corso violentissimo, nel suo mezzo profondo assai, e per larghezza spazioso come un mare, non avea mai a memoria d’uomini sofferto ponte; ma soltanto con molti battelli legati insieme ardivano i pedoni passarlo, come l’esercito dei Medi una volta passò l’Ellesponto per non incorrere l’indignazione di Serse. Ma quel modo di passare su quel ponte non è senza pericolo, perciocchè il fiume sovente scompaginati que’ battelli, rottine i legami, ed a suo talento dispersi, nega a’ viandanti il passo. Ora postosi Giustiniano Augusto in animo di costruirvi un ponte, con tale impegno si occupa dell’opera, che senza dubbio essa si vedrà in breve compiuta; e lo argomento dall’avere veduto che a tutte le sue imprese pone la mano Iddio: per lo che fin ora nessuna deliberazione da [p. 455 modifica]lui presa rimase imperfetta, quantunque assai spesso sia paruto sul principio intraprendere cose maggiori delle sue forze.

In Bitinia v’è una strada, per la quale si va in Frigia. Questa in tempo d’inverno era funesta a moltissimi uomini, e giumenti, perciocchè essendo in quel paese il terreno grassissimo, non solamente dopo grandi piogge, o sciogliendosi le nevi, ma fin anche per caduta rugiada vi si faceva tal fango, e sì profondo, che i viandanti per lo più vi rimanevano soffocati insieme cogli animali che avessero. Un tanto pericolo con generosa munificenza vollero torre di mezzo Giustiniano e Teodora Augusti, i quali per un tratto di mezza giornata di cammino fecero con grossissime pietre lastricare quella strada, e così la rendettero salda e sicura a chiunque vi passasse. Questo è ciò che Giustiniano Augusto ivi fece.

In Bitinia parimente, in un luogo detto Pizia, sorgono fonti di acque naturalmente calde; e molte altre persone, ma spezialmente gli abitanti di Costantinopoli, massime ammalati, prendono da quelle acque ristoro. Ivi adunque mostrò magnificenza degna di un Imperadore; imperciocchè vi fabbricò un nuovo palazzo, e dove quelle acque calde scaturiscono, edificò bagni pubblici: e da assai lungi, dove escono fonti d’acqua dolce, condotte queste per un canale fatto apposta, il calore che in quel luogo era famigliare, smorzò con esse. Fece ivi anche un tempio ad onore dell’Arcangelo; ed una casa destinata al riposo degli ammalati di non poco accrebbe in capacità ed in isplendore. [p. 456 modifica]

CAPO IV.

Ponte posto sul Siberi, fiume di Gallazia, e Giuliopoli assicurata contra quel fiume. In Cappadocia le mura di Cesare ridotte a miglior forma. Moseco fatta metropoli.


È in Gallazia un fiume dagl’indigeni chiamato Siberi, prossimo ai Sicei, e lontano dalla banda di levante da Giuliopoli dieci miglia. Questo fiume, solito a gonfiarsi improvvisamente, annegava molti viandanti: per lo che avvisatone l’Imperadore, rimediò al male facendovi un ponte, saldissimo di costruzione, e capace a sostenere le piene; e fabbricò eziandio al fianco orientale di quel ponte un muro a guisa di fortalizio, che i periti dell’arte chiamano promachon. All’occidente poi eresse un tempio, che nell’inverno fosse di ricovero ai passeggieri. Quel fiume batteva le mura di Giuliopoli, e le scuoteva fortemente, passando alla parte occidentale; il che l’Imperadore gli vietò di più fare, avendo eretta d’innanzi alle mura una mole di non meno di cinquecento piedi; e così preservando la città, vi aggiunse anche una notabile fortificazione.

In Cappadocia poi fece le seguenti cose. Ivi Cesarea, grandissima città, e da’ tempi antichi popolata, era cinta di mura, le quali per la troppa estensione del loro circuito rimanendo senza difesa, potevano espugnarsi facilmente; perciocchè un grande spazio inutile comprendevano; e quella soverchia ampiezza dava facile adito agli assalitori. Avendo il fondatore di quella città trovato il [p. 457 modifica]luogo pieno di monticelli, per lungo intervallo tra essi distanti, volle comprenderli entro il circuito delle mura, perchè non ne traessero vantaggio quelli che volessero assediar la città; ma intendendo a darle sicurezza, per contrario le avea preparato gran pericolo. Erano in quel circuito parecchi campi lavorati, ed orti, e rupi, e pascoli: ne’ quali spazii, nemmeno in appresso i cittadini pensarono di alzare alcun edifizio; sicchè l’aspetto del luogo rimase qual era da prima; e se in alcuna parte pur sonvisi alzate case, esse rimasero perfettamente isolate, ed escluse da ogni vicinato. Nè poi i soldati posti alla custodia delle mura bastavano al bisogno; nè i cittadini potevano invigilare sopra tanto terreno; e per questo vivevano in continuo timore, parendo loro così di non avere riparo di mura. Finalmente l’imperadore Giustiniano, levata una parte di quelle mura in niun modo necessaria, restrinse la fortificazione della città ad essere veramente sicura ed inespugnabile: il che poi compì mettendovi un conveniente presidio. E di questo modo coprì da ogni pericolo contro aggressori Cesarea di Cappadocia.

In Cappadocia pure era Moseco, castello posto in pianura, e sì debole e guasto, che in parte era già rovinato, e in parte minacciava d’esserlo ad ogn’istante. Giustiniano Augusto lo fece distruggere tutto quanto; e in un rialto sì scosceso da non potervi salire nemico, dove quel vecchio castello guardava a ponente, costruì un fortissimo muro; e molti tempii, e spedali, e bagni pubblici ivi fabbricò; nè vi lasciò mancare alcuna di quelle cose, che distinguono una città. Onde è avvenuto, che [p. 458 modifica]questa surse alla dignità di metropoli, col quale vocabolo i Romani indicano la città primaria di un popolo. Queste cose egli fece in Cappadocia.

CAPO V.

Strada aperta col taglio di monti. Ponti ristaurati in Mopsuestia, e in Adana. Provvedimenti a Tarso pel fiume Cidno.


La strada, che dalla città di Antiochia, già detta Teopoli, conduce in Cilicia, tocca il suburbano denominato il Platanon. Non lungi da quella città, come la vecchia strada veniva angustiata fortemente dai monti ivi sorgenti, nel lungo corso degli anni la massima parte di quella dalle piogge diroccata rendeva pericolosa il praticarla. La quale cosa uditasi dall’Imperadore gli fece venire in mente di provvedere a tale inconveniente, e vi trovò prontamente il rimedio. Disposta infinita somma di denaro, quanti erano ivi alti monti per lungo tratto fece tagliare; e superato quello che pareva insuperabile, oltre ogni speranza ed ogni credenza, rendè piani e spediti i luoghi, che prima non presentavano che precipizii, ed ebbe una strada praticabile ad ogni carreggio: con chiarissimo argomento comprovando nulla essere al mondo, che gli uomini con prudente consiglio e con liberale uso del denaro non giungano ad ottenere. Tanto ivi fu fatto.

In Cilicia v’ha Mopsuestia, città che dicesi fondata dall’antico vate Mopso. Il fiume Piramo la bagna, e l’ [p. 459 modifica]abbellisce: ma quel fiume non si passa che sopra un ponte solo, la massima parte del quale per vetustà crollava tanto, che minaccioso di caduta additava la morte a chi lo passava: per lo che, ciò che in addietro era stato fatto per salute degli uomini, la infingardaggine de’ prefetti avea volto in cagione di grave pericolo e di giusto timore. Adunque quanto v’era di sconcio l’Imperador nostro con grande studio rifece; e restituì la solidità al ponte, la sicurezza ai passeggieri, il decoro alla città; cose tutte, che una volta il fiume offeriva, e che erano poi smarrite.

Dopo Mopsuestia v’ha Adana che dalla parte di levante bagna il fiume Saro, proveniente dai monti dell’Armenia. E perchè quel fiume è navigabile, nè ha guado ove i pedoni possano passarlo, una volta fu sopra esso costrutto un grande ed insigne ponte di questo modo. In molte parti del fiume sorgono dal suolo grossi piloni fatti di enormi pietre. La serie di questi piloni occupa tutta la larghezza del fiume, e sono più alti assai del medesimo. Due arcate s’alzano sopra ognuno di essi, posanti nel loro mezzo. Or que’ piloni nella parte in cui contra essi batte l’acqua, e ai gagliardissimi flutti resistono, erano pel lunghissimo tratto di tempo così guasti, che pareva dovere in breve tutto il ponte precipitare nel fiume; e perciò nessuno si poneva a passarlo senza pregare che Dio tenesse il ponte saldo per quel brevissimo tempo, che a lui occorreva. Giustiniano avendo fatto scavare un nuovo alveo, per quello voltò temporariamente il fiume; poi data mano ai piloni liberati dall’acqua, tutta quella parte, che n’era guasta, levò, e senza [p. 460 modifica]ritardo li ristaurò; poi rimise il fiume nel suo primo alveo, o letto siccome dicono. Questo è ciò che ivi fece.

Tarso anch’essa è bagnata da un fiume, che vi passa in mezzo, e che è il Cidno. Esso era sempre stato innocuo; ma una volta recò grave rovina per la seguente ragione. Sull’equinozio di primavera sorto improvvisamente un gagliardissimo austro, sciolse affatto la neve, che caduta in inverno copriva quasi tutto il monte Tauro. Allora si vide da tutte le rupi uscir fuori ruscelli d’acqua; precipitare furiosi torrenti da tutti gli alvei, qua e là a piedi del Tauro sbucare fontane. Gonfio per queste acque il Cidno, giacchè dalle vicinanze tutte accorrevano ad esso; e cresciuto inoltre dalle molte piogge, con improvvisa alluvione rovesciò sino da’ fondamenti i subborghi volti a mezzodì; invase rumoroso la città, i minori ponti crollò, occupò tutte le piazze, inondò i quartieri, ed entrato nelle case, e le camere, e i cenacoli riempiendo d’acqua sempre più andava inalzandosi. Una notte e un giorno stette la città in siffatto pericolo, quasi in balìa di un mar procelloso. A poco a poco poi il fiume finalmente si raccolse entro gli usati suoi limiti. Le quali cose tutte udite avendo l’imperadore Giustiniano, pensò al seguente mezzo. Incominciò dallo scavare al fiume un altro alveo d’innanzi alla città, affinchè dividendosi in due rami le acque, metà al più andasse in Tarso: indi costruì i ponti molto più larghi e più forti, da non potersi scuotere e rovesciare dall’impeto della fiumana; ed in questo modo liberò in perpetuo gli abitanti della città dalla paura e dal pericolo. [p. 461 modifica]

CAPO VI.

Magnifico tempio in Gerusalemme
dedicato alla Madre di Dio.


Tali furono le cose da Giustiniano Augusto fatte in Cilicia. Incomparabile poi fu il tempio, che alla Madre di Dio dedicò in Gerusalemme; e che gli abitanti di quella città chiamano la Chiesa Nuova. Venendo a descriverla, premetterò che la massima parte di quella città sta posta sopra colli, non già di terra, come altrove, ma di sasso; aspri per conseguenza, e pieni di precipizii, e tali, che non si praticano che con stradelle fatte di scalini tagliati dall’alto al basso. E tutti gli edifizii della città sono fatti nella stessa maniera, o sieno posti sopra alcun colle, o sieno in piano ove il suolo è di terra. Non così è di questo tempio. Giustiniano ordinò, che fosse fondato sopra il colle più alto di tutti; e spezialmente prescrisse quanto dovesse essere largo e lungo. E non bastando, secondo il disegno che ne avea dato, un colle solo; e mancando da mezzodì ed oriente la quarta parte del tempio; quella cioè, nella quale i Sacerdoti debbono celebrare i sacri misterii, coloro che dirigevano l’opera, immaginarono quanto siegue. Gittati i fondamenti nella estrema bassura, vi fabbricarono sopra, incastrando il lavoro alla rupe che ivano superando; e tratte le muraglie alla cima della medesima, quelle muraglie legarono a volto, e così l’edifizio unirono all’altro pavimento del tempio. Per lo che la Chiesa in parte giace sulla salda rupe, ed in parte sta pendente, [p. 462 modifica]per l’opera, che ad aggiunta del colle, a forza di danaro l’Imperadore vi ha fatto fare. Le pietre poi usate per quella giunta sono di straordinaria grandezza: perciocchè siccome gli artefici dovevano contrastare colla natura del luogo, ed alzar quella giunta a livello della rupe, abbandonati i metodi volgari, dovettero ricorrere a modi insoliti, ed affatto ignoti. Quindi tagliavano dai monti che sono altissimi fuori della città immensi sassi; e posciachè li aveano lavorati collo scalpello, li trasportavano in questa guisa. Ponevano ognuno di quei sassi sopra un carro della stessa grandezza; e tale regola era per ciaschedun sasso: poi quaranta buoi dei più robusti che per ordine dell’Imperadore si erano scelti attaccavansi ad ognuno di que’ carri, e lo tiravano. E perchè le strade che conducevano alla città, non erano atte a dar passo a que’ carri, si andava tagliando il monte di qua e di là, perchè desse adito al carro. Con questo mezzo si potè dare al tempio giusta il volere dell’Imperadore, quella tanta lunghezza alla quale fosse proporzionata la larghezza. Ma intanto non potevano gli artefici mettere alla fabbrica il tetto. Per giungere a ciò incominciarono a scorrere per tutti i boschi, e per le selve, e per ogni luogo, in cui avessero udito dire essere alberi grandissimi; e trovarono una densa selva nella quale erano cedri immensamente alti; e con questi coprivano il tempio, misurata avendone l’altezza in proporzione della larghezza e lunghezza. Tanto fece Giustiniano colle forze, e coll’arte umana; ma però dee dirsi che molto contribuì il sentimento di pietà che lo ispirava; e la fiducia dell’onore che glie ne dovea provenire, lo [p. 463 modifica]confortò, e sostenne nell’intrapresa. E di fatto se ne potè avere una pruova. Era quel tempio senza colonne di sorte: le quali colla loro eleganza gli dessero decoro, e fossero di tale grandezza da sostenere un tanto peso; e quella regione assai interna e rimota dal mare, piena da tutte le parti, siccome dissi, di scoscesi e dirupati monti, non presentava agli artefici alcuna via, per la quale condurne di lontano. Mentre per queste considerazioni facevasi più forte nell’animo dell’Imperadore la difficoltà, Dio gli additò ne’ prossimi monti un marmo a ciò conveniente, o fosse stato fino allora ivi incognito, od allora per la prima volta si formasse: divenendo credibile l’una e l’altra opinione di coloro, che la cagione di ciò attribuiscono a Dio. Noi, è vero, ponderando tutte le cose secondo le forze umane, molte ne diciamo essere impossibili. Ma a Dio nulla è difficile, e nemmeno è impossibile. Adunque grandi colonne, in gran numero scavate da que’ monti, e di un color di fiamma, sostentano il sacro edifizio, le une nella parte inferiore, nella superiore le altre, ed altre intorno ai portici, che tutti i lati ne cingono, eccetto quello a levante. Due ne sono alla porta, sì distinte che forse non sono seconde a quante altre colonne veggonsi nell’universo mondo. Succede poi un secondo portico, che da Nartece, o Ferula ha il nome, credo io, per essere angusto. A questo si congiunge un atrio quadrato, sostenuto da colonne simili; e le porte mezzane sono tanto strette, che a quelli che entrano accennar debbono quale spettacolo sieno per ritrovare. Indi siegue un meraviglioso vestibolo, ed un arco eretto ad immensa altezza sopra colonne binate; e procedendo [p. 464 modifica]avanti, due recessi di qua e di là presenta la via del tempio giranti in semicircolo, e l’uno rimpetto all’altro. L’altra via ha di qua e di là due case ospitali, opera di Giustiniano Augusto: una per ricetto de’ pellegrini che trovansi nella città; l’altra de’ poveri ammalati. Questo tempio poi l’Imperadore ha dotato di splendidissime rendite annue. E questo è quanto egli ha fatto in Gerusalemme.

CAPO VII.

Monte Garizim in sommo onore presso i Samaritani. Sedizione di costoro. Predizione di Cristo compiuta dall’imperadore Zenone. I Samaritani gastigati da Anastasio. Giustiniano fortifica il monte Garizim, e ristaura i tempii abbruciati.


Neapoli in Palestina è città, a cui sta sopra un alto monte detto Garizim. Quando in addietro la possedevano i Samaritani, solevano assiduamente salirne alla vetta per farvi orazione, non perchè vi avessero piantato un tempio, ma perchè lo riguardavano e lo veneravano come superiore a tutti gli altri. E quando Gesù, figliuolo di Dio, assunto corpo umano vivea in quelle parti, venuto a discorso colla moglie di uno del paese, da essa interrogato intorno a quel monte, predisse che sarebbe giunto tempo, in cui i Samaritani non avrebbero più adorato in quel monte; ma egli stesso sarebbe adorato dai veri adoratori; e designava così i Cristiani. Col corso degli anni si verificò il presagio; nè certamente poteva mentire chi era Dio. Ciò poi avvenne di questa [p. 465 modifica]maniera. Sotto il principato di Zenone si misero improvvisamente i Samaritani in tumulto; ed assaltati in Neapoli i Cristiani mentre celebravano in chiesa la solennità di Pentecoste, molti ne uccisero; misero le mani addosso al loro vescovo Terebinzio, che stava alla sacra mensa, e in mezzo all’ineffabile sacrifizio lo ferirono a colpi di spada, tagliarongli le dita delle mani; ed insultando ai misterii commisero scelleratezze degne di Samaritani, e da tacersi da noi. Quel prelato si portò quindi a Costantinopoli, dove ammesso al cospetto dell’Imperadore, gli fece vedere come era stato malconcio nelle mani. Tutto il fatto narrò ordinatamente, e rammentato la predizione di Cristo, domandò piena vendetta. Commosso l’imperadore Zenone del caso, senza frapporre indugio i colpevoli esemplarmente punì; e cacciati i Samaritani dal monte Garizim, lo diede tosto ai Cristiani, e sulla vetta del medesimo fabbricò un tempio alla Madre di Dio; il qual tempio cinse in apparenza di un muro, ma realmente di una vera macerie: e come al basso nella città pose un forte presidio, a quella chiesa ed a quel muro non mise in custodia più di dieci soldati. Dolor fierissimo ebbero i Samaritani di queste novità; e pieni di rabbia con gran pena tolleravano la condizione, in cui eran caduti; ma dissimulavano e tacevano, a ciò costretti dalla paura dell’Imperadore. Sotto l’impero poi di Anastasio accadde un’altra loro sedizione. Una schiera di Samaritani ad eccitamento di una donna s’introdusse improvvisamente sulla vetta del monte per l’erte rupi del medesimo, giacchè la strada che dalla città conduceva all’alto, era guardata dalle sentinelle; nè potea [p. 466 modifica]sperarsi di salire per quella. Avendo essi dunque penetrato nel detto modo sino là su, occupata repente la chiesa, ne trucidarono le guardie, chiamando immantinenti i Samaritani, ch’erano in città, ad altissima voce. Ma quelli, avendo paura de’ soldati, non vollero unirsi a que’ malfattori; e non molto dopo il preside della provincia, e questi era Procopio di Edessa uomo di singolare prudenza, presi i colpevoli gli fece morire. Allora l’Imperadore non pensò a fortificare quel luogo. Ma Giustiniano Augusto, quantunque la più parte dei Samaritani avesse ridotti alla pietà e religione di Cristo, la vecchia muraglia della chiesa posta sul monte Garizim cinse con un altro muro esteriore, lasciando però com’era la prima forma di macerie, che accennai; ma nel resto facendovi un’opera affatto inespugnabile. Nella stessa città rifece cinque tempii de’ Cristiani dai Samaritani incendiati. Tanto fece ivi.

CAPO VIII.

Tempio edificato ai monaci sul monte Sina.
Castello posto alle radici di quel monte.


Nella provincia che una volta si diceva Arabia, ed ora chiamasi la terza Palestina, v’ha un lunghissimo deserto, sterile affatto, senz’acqua, e privo di tutti i comodi della vita. Presso il Mar-Rosso pende il monte Sina, scosceso e pieno di precipizii. Nè qui ho bisogno di descrivere que’ luoghi, avendo io già ampiamente ed accuratamente parlato del Mar-Rosso, e del Golfo [p. 467 modifica]arabico, degli Etiopi Auxomiti, e degli Omariti Saraceni, ne’ libri che scrissi delle Guerre: ne’ quali anche esposi come Giustiniano Augusto aggiunse all’Impero romano il Palmeto. Dunque per non fare il fatto, mi fermo qui; e dico solo al proposito come abitano il monte Sina monaci, i quali liberamente godendo di una solitudine loro carissima, vivono una vita, che in sostanza non è se non una certa diligente meditazione della morte. E perchè niuna cosa mortale desiderano, ma superiori a tutte le cose umane, non cercano nè di posseder nulla, nè di curare il corpo, nè di ricrearsi in alcun modo; Giustiniano Augusto fabbricò loro una chiesa, e la dedicò alla Madre di Dio, onde possano ivi condurne la vita in preci, e pratiche sacre. Non la pose egli però sulla vetta del monte, ma molto al di sotto, perciocchè nissun uomo può pernottare là su, a cagione de’ frequenti strepiti, e di certe straordinarie cose che ivi di notte si odono, e che fortemente colpiscono la mente e l’animo degli uomini. Dicono che ivi una volta Mosè promulgò le leggi ricevute da Dio. Alle radici di quel monte lo stesso Imperadore piantò un fortissimo castello, e vi pose buon presidio, affinchè da quella spiaggia, come dissi, deserta, i Barbari Saraceni nascostamente non facciano irruzione. Questo è quanto fece ivi. Le cose poi che fece ne’ monasterii di quella regione, e delle altre parti di oriente, dirò compendiosamente in appresso. [p. 468 modifica]

CAPO IX.

Monasterii, Tempii ed altre cose nell’oriente ristaurate.


In Gerusalemme ristaurò i seguenti monasterii: quello di S. Talebo; quello di S. Gregorio; quello di S. Panteleemone nell’eremo del Giordano; lo Spedale di Gerico; la chiesa di Gerico consacrata alla Madre di Dio; in Gerusalemme il monastero Ibero; quello de’ Lazi nell’eremo gerosolimitano; quello di S. Maria nel monte Oliveto; quello del fonte di S. Eliseo in Gerusalemme; quello di Sileteo; quello dell’Abate romano. Rifece le mura di Betlemme, e il monastero di Giovanni abate.

Fabbricò i pozzi, o le cisterne seguenti. Nel monastero di S. Samuele il pozzo e il muro: nel monastero dell’abate Zaccaria il pozzo: in quello di Susanna il pozzo: in quello di Afelio il pozzo: in quello di S. Giovanni presso il Giordano il pozzo: il pozzo pure nel monastero di S. Sergio al monte; e il muro di Tiberiade. Presso Bostra fabbricò una cappella detta di Fenice: in Porfireone la chiesa della Madre di Dio: il monastero di S. Foca nel monte: in Tolemaide la chiesa di S. Sergio: in Damasco la chiesa di S. Leonzio: nel subborgo di Apamea rifece la cappella di S. Romano, e il muro del B. Marone: nel subborgo di Teopoli (Antiochia) ristaurò la chiesa di Dafne. In Laodicea ristabilì il tempio di S. Giovanni. In Mesopotamia rifece il monastero di S. Giovanni; e parimente i monasterii di Telfracca, di Zebino, di Teodoto, di Giovanni, di [p. 469 modifica]Sarmata, di Cireno, di Begadeo; e nella Isauria il monastero di Apadna. Rinnovò nella città di Cirico i bagni, e l’ospizio de’ poveri. Riedificò in Cipro la cappella di S. Conone, e il suo acquidotto: nella Pamfilia la chiesa de’ SS. Cosma e Damiano; e la cappella di S. Michele nell’arsenale di Perge, città della Pamfilia. [p. 470 modifica]
LIBRO SESTO


CAPO PRIMO.

La Fiala di Alessandria fortificata. Il Nilo
separa l’Asia dall’Africa. Che siasi fatto in Tafosiri.


Gli accennati sono gli edifizii da Giustiniano Augusto fatti in quelle parti. Ecco quelli che fece in Alessandria. Il fiume Nilo non corre fino ad Alessandria; ma dopo avere bagnata la città che si chiama Chereo, corre a sinistra lasciando i confini di Alessandria. Per lo che gli antichi, affine che quella città non fosse affatto priva di esso, scavata una profonda fossa, e condotta da Chereo sino ad essa, v’incanalarono una piccola parte del fiume, per la quale fossa, e per certi altri sbocchi si scarica la palude Maria. Quella fossa non porta grosse navi: ma il frumento egizio quelli di Chereo, posto sopra Alibi, che volgarmente si chiamano Diaremi, lo portano nella città, dove può giungere per quel diversivo del fiume, e lo depositano nel luogo, che gli Alessandrini chiamano la Fiala. Siccome poi la plebe ivi solita a tumultuare perdeva sè stessa e il frumento; l’imperador Giustiniano cinse quel luogo con forte muraglia, e mise così in sicuro il frumento da ogni attentato. Ciò fece ivi. Ma poichè il discorso ci ha condotti in Egitto, confinante coll’Africa, diremo