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Considerazioni sulla poesia lirica Lettere inedite

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IL TEMPO


ODE LIBERA.


Invido Veglio, che di verde e forte
    Vecchiezza carco e di gran falce armato,
    Tempo, che sul creato
    Stendi l’ale tacenti e, mentre al corso
    Te stesso incalzi e fuggi,
    Ti rinnovi mai sempre e ti distruggi;
Là ne’ secoli eterni entro le fosche
    Voragini del caos, ove la folta
    E varia schiera de’ possibil tutti
    Giacea confusa, e in suo silenzio il cenno
    Stava aspettando de la man divina,
    Tu nel torbido mar dell’infinito,
    Al volo ancor non uso,
    Notavi in sen d’Eternità rinchiuso.
Quando, a la voce del sovran motore,
    Dal letargo lunghissimo e profondo
    Si destâr l’esistenze, e dell’abisso

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    Romoreggiâr dal fondo
    Le scure immisurabili caverne,
    Fuggiro a quel romor l’ombre ritrose,
    Abbandonando la quïete antica,
    E, mentre al buio del nascente mondo
    L’alma luce scoprìa la bianca faccia,
    Gìan brancolando della notte in traccia.
Su i discordi elementi
    Agita allor le mansuete penne
    L’onnipotente Amore; e fecondata
    Si squarcia e si dilata
    L’indigesta materia, e fra il tumulto
    De le pugnanti particelle emerge
    Dolce armonìa che le congiunge, e al vario
    Scontrarsi, urtarsi e combinarsi elice
    Dal gran contrasto de la massa informe
    Il vario aspetto delle varie forme.
Natura intanto in real cocchio assisa
    Correa per l’universo, e la seguìa
    De gli enti la moltiplice famiglia:
    Splendeano gli astri, e variamente attratti
    Seguìan le forze del maggior pianeta,
    E scotean le comete in lunga traccia,
    De’ regolati errori entro il confine,
    L’ardenti code e il tremolante crine.
Allor l’immota Eternità si scosse
    E dal seno gittò nobile figlio

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    E de’ momenti a lui cedeo l’impero.
    Tu fosti, o Tempo; e primo
    Di tante meraviglie ammiratore,
    Ne’ vasti spazii del creato intero
    Lanciasti il guardo e dispiegasti il volo;
    E a seconda del Sol temprando il moto
    De’ tuoi rapidi vanni,
    A produr cominciasti i giorni e gli anni.
Pria ne’ campi ridenti
    D’Eden, ch’eterna primavera infiora,
    Quando il padre primiero e la consorte
    Vivean felici d’innocenza a lato,
    I giorni conducesti almi e sereni,
    Sacri ai dolci concenti,
    A i bei diporti ameni,
    A i soavi colloquii, e non lasciavi,
    Di gustato piacer dopo il contento,
    La stanchezza, la noia e il pentimento.
E quando poi la sera
    Col vacillante lume
    Di modesto color vestia d’intorno
    Il monte e la campagna,
    E al placido riposo
    Que’ fidi amanti ad invitar venia;
    Tu nell’antro odoroso
    Le tacite guidavi ore notturne
    Del nuzial mistero confidenti,

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    E i bei sogni tranquilli,
    Onde l’alme de’ sensi pellegrine
    Godessero d’un bene errante e vago
    Nel sonno ancor la dilettosa immago.
Tu promettevi intatte
    Su le guancie di latte
    Fiorir d’eterna gioventù le rose;
    Nè minacciavi di solcar la fronte
    Con aspre orme rugose:
    Vecchiezza non spargea di neve il biondo
    Lungo crine sugli omeri cadenti;
    Nè gravoso abbattea degli anni il pondo
    Il vigor de le membra e de la mente,
    Chè de l’età diverse
    La vicenda volubile e fugace
    Era indistinta e sconosciuta ancora,
    E nell’alma del par che nella spoglia,
    Benchè terrena e frale,
    Vivea l’uomo immutabile, immortale.
Ma poi che da le cupe inferme grotte
    Alzò la colpa le funeste penne,
    E a conturbar pervenne
    De la pace il soggiorno e del piacere,
    Tu, cangiando l’aspetto,
    Ti ribellasti all’uomo
    Dal suo fallir già domo,
    E mezzo divenisti all’infelice

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    Sol d’affanni, di stento e di fatica;
    E a farti più terribile e più forte
    Tu chiamasti compagna anche la Morte.
Indarno allora da le tue ferite
    Le genti sbigottite
    Cercâr sottrarsi e radunarsi insieme;
    Scavâr le fosse, sollevâr le mura,
    Fabbricâr le città, dettâr le leggi,
    Onde l’età futura
    Il socìal concerto
    Mantenesse infrangibile ed eterno.
    Andâr sossopra i regni al rovinoso
    De’ secoli torrente, e l’uomo, ahi stolto!
    Secondò involontario il tuo disegno;
    E in cruda guerra armato
    Accelerò il suo fato, e giacque oppresso
    Più dal proprio furor che da te stesso.
Dell’universo nell’immensa faccia,
    Di quattro monarchie surse a le stelle
    L’alta mole orgogliosa:
    Tu con occhio d’invidia e di minaccia
    Torbido la guatasti;
    E il Perso, il Greco ed il Romano e tutto
    Il furor de’ barbarici trioni
    Stimolasti all’assalto e alla ruina.
    Crollò sui piè mal ferma e rovesciosse;
    Tremò l’Europa con le due sorelle,

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    E a quel tremar si scosse
    L’America divisa e si compiacque,
    Che occulta ancor giacea
    In remoto confine
    D’ambizion superba a le rapine:
Ma non andar fastoso
    Di tue conquiste, o Tempo!
    Fra nuvole di folgori e di lampi,
    Sull’ale a un cherubin rapido scende
    L’inesorabil Dio de le vendette:
    Gli sguardi volge maestosi e lenti
    AI tremante universo; accenna quindi
    Ai quattro opposti venti;
    E con voce di tuon grida: si faccia
    L’adempimento de la mia minaccia.
E traboccar ruggendo
    Ecco le vampe dell’eterno sdegno,
    E natura sentir l’angoscie estreme:
    Van con fracasso orrendo
    Dall’orbita natia svelte le stelle
    Pel firmamento ad azzuffarsi insieme. . .
    Ahi! dove siete, o Soli?
    Dove fuggisti, o Terra? Io più non veggo
    Che un mar di fiamme procellose, e dentro
    Naufragarsi i pianeti e l’universo.
    Alla feral confusïon succede
    Spaventoso silenzio, e sol di fumo

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    Di polve e di faville
    Immensa nube e formidabil ombra,
    L’ampie ruine orribilmente ingombra.
E dove, o Tempo, ti nascondi? Hai forse
    De la natura moribonda orrore?
    In van: fissa è nel Cielo
    Anche la tua ne la comun ruina.
    Io già cader ti veggo,
    L’armi e le penne abbrustolate ed arse.
    Ritorna al nulla, e rendi
    L’impero de’ momenti a Eternitade;
    E, in queste di natura orror profondo,
    Spento t’assorba l’atterrato mondo.