Scelte opere di Ugo Foscolo/Altri Sonetti dello stesso autore
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EPISTOLA DI CATULLO
AD ORTALO
______
Sebben me per dolor vigil consunto
Dalle Vergini dotte or discompagni
Malinconia; nè delle Muse io possa
Esprimer dalla mente i dolci parti,
5In tal burrasca di sciagure ondeggia!
Però che al mio fratel l’acqua che move
Torpidamente dal gorgo Leteo
Il piè pallido lava, e strugge grave
Sovra il lito Retéo l’Iliaca terra
10Lui rapito a miei sguardi ohimè! per sempre.
Ti parlerò più mai? T’udrò narrarmi
I tuoi fatti, o fratel? Te vedrò mai
O della vita mia più desïato?
Ben t’amerò: ben sempre io la tua morte
15Con doloroso verso andrò gemendo
Siccome all’ombra di frondosi rami
Geme del divorato Itilo i fati
Daulia cantando. ― Pur, fra tanto lutto
Questi, Ortalo, da me carmi tentati
20Del Battiade t’invio, perchè non forse
Le tue preghiere a errante aura fidate
Tu sospettassi, e dal cor mio sfuggite.
Talor pomo così, dono furtivo
Dell’amator, dal casto grembo sdrucciola
25Di verginella, cui (mentre in piè balza,
Della madre all’arrivo, e obblia meschina
Che riposto il tenea sotto la molle
Veste) giù casca, e ratto si devolve
Con lubrico decorso. A lei discorre
30Conscio rossore sul compunto viso.
______
__________
Quei che spiò del mondo ampio le faci
Tutte quante, e scoprì quando ogni stella
Nasca in cielo o tramonti, e del veloce
Sole come il candor fiammeo si oscuri,
5Come a certe stagion cedano gli astri,
E come amore sotto a' Latmii sassi
Dolcemente contien Trivia di furto
E lei devolve dall'aereo giro,
Quel Conon vide fra' celesti raggi
10Me del Berenicéo vertice chioma
Chiaro fulgente. A molti ella de' Numi
Me, supplicando con le terse braccia,
Promise, quando il re, pel nuovo imene
Beato più, partia, gli Assiri campi
15Devastando, e ne gìa con li vestigi,
Dolci vestigi di notturna rissa
La qual pugnò per le virginee spoglie.
Alle vergini spose in odio è forse
Venere? Forse a' genitor la gioia
20Froderanno per false lagrimette
Di che bagnan del talamo le soglie
Dirottamente? Esse non veri allora,
Se me giovin gli Dei, gemono guai.
Ben di ciò mi assennò la mia regina
25Col suo molto lamento allor che seppe
Vòlto a bieche battaglie il nuovo sposo:
E tu piangesti allora il freddo letto
Abbandonata, e del fratel tuo caro
Il lagrimoso dipartir piangevi.
30Ahi! tutte si rodean l'egre midolle
Per l'amorosa cura; il cuore tutto
Tremava; e i sensi abbandonò la mente.
La donzelletta non se' tu ch'io vidi
Magnanima? Lo gran fatto oblïasti,
35Tal che niun de' più forti osò cotanto,
Però premio tu n'hai le regie nozze?
Deh che pietà nelle parole tue
Quando il marito accomiatavi! Oh quanto
Pianto tergeano le tue rosee dita
40Agli occhi tuoi! Te sì gran Dio cangiava?
Dal caro corpo dipartir gli amanti
Non sanno mai? Tu quai voti non festi,
Propizïando con taurino sangue,
Per lo dolce marito agli Immortali
45S'ei ritornasse! Nè gran tempo volse,
Ch'ei dotò della vinta Asia l'Egitto.
Per questi fatti de' celesti al coro
Sacrata, io sciolgo con novello ufficio
I primi voti. A forza io mi partia,
50Regina, a forza; e te giuro e il tuo capo:
Paghinlo i Dei se alcuno invan ti giura;
Ma chi presume pareggiarsi al ferro,
E quel monte crollò, di cui null'altra
Più alta vetta dall'eteree strade
55La splendida di Thia progenie passa,
Quando i Medi affrettaro ignoto mare
E con le navi per lo mezzo Athos
Nuotò la gioventù barbara. Tanto
Al ferro cede! Or che poriano i crini?
60Tutta, per Dio! de' Calibi la razza
Pera, e le vene a sviscerar sotterra,
E chi a foggiar del ferro la durezza
A principio studiò. ― Piangean le chiome
Sorelle mie da me dianzi disgiunte
65I nostri fati; allor che appresentosse,
Rompendo l'aer con l'ondeggiar de' vanni,
Dell'Etiope Mennone il gemello
Destrier d'Arsinoe Locrïense alivolo:
Ei me per l'ombre eteree alto levando
70Vola, e sul grembo di Venere casto
Mi posa: ch'ella il suo ministro (grata
Abitatrice del Canopio lito)
Zefiritide stessa avea mandato
Perchè fissa fra' cerchi ampli del cielo
75La del capo d'Arianna aurea corona
Sola non fosse. E noi risplenderemo
Spoglie devote della bionda testa.
Onde salita a' templi de Celesti
Rugiadosa per l'onde, io dalla Diva
80Fui posto fra gli antichi astro novello.
Però che della Vergine, e del fero
Leon toccando i rai, presso Callisto
Licaonide, piego all'occidente
Duce del tardo Boote cui l'alta
85Fonte dell'Oceano a pena lava.
Ma la notte perché degli Immortali
Mi premano i vestigi, e l'aurea luce
Indi a Teti canuta mi rimeni,
(E con tua pace, o Vergine Rannusia,
90Il pur dirò: non per temenza fia
Che il ver mi taccia, e non dispieghi intero
Lo secreto del cor; nè se le stelle
Mi strazin tutte con amari motti)
Non di tanto vo lieta ch'io non gema
95D'esser lontana dalla donna mia
Lontana sempre! Allor quando con ella
Vergini fummo, io d'ogni unguento intatta,
Assai tesoro mi bevea di mirra.
O voi, cui teda nuzïal congiunge
100Nel sospirato dì, nè la discinta
Veste conceda mai nude le mamme,
Nè agli unanimi sposi il caro corpo
Abbandonate, se non versa prima
L'onice a me giocondi libamenti:
105L'onice vostro, voi che desïate
Di casto letto i diritti: ah di colei
Che sè all'impuro adultero commette
Beva le male offerte irrita polve!
Chè nullo dono dagli indegni io merco. ―
110Sia così la concordia, e sia l'amore
Ospite assiduo delle vostre sedi.
Tu volgendo, regina, al cielo i lumi
Allor che placherai ne' dì solenni
Venere diva, d'odorati unguenti
115Lei non lasciar digiuna, e tua mi torna
Con liberali doni. A che le stelle
Me riterranno? O! regia Chioma io sia
E ad Idrocoo vicin arda Orione.
A te, giovinetto di belle speranze io dedico questi versi: non perchè ti siano di esempio, chè nè io professo poesia, nè li stampo cercando onore, ma per rifiutare così tutti gli altri da me per vanità giovanile già divolgati. Ti saranno bensì monumento della nostra amicizia, e sprone ad onta delle tue disavventure, alle lettere veggendo che tu sei caro a chi le coltivò, forse con debole ingegno, ma con generoso animo. E la sola amicizia può vendicare gli oltraggi della fortuna, e guidare senza adulazioni gl’ingegni sorgenti alla gloria.
- Milano, 2 aprile 1803
ugo foscolo.
A Luigia Pallavicini
caduta da cavallo2.
I balsami beati
Per te Grazie apprestino,
Per te i lini odorati
Che a Citerea porgeano
Quando profano spino5
Le punse il piè divino,
Quel dì che insana empiea
Il sacro Ida di gemiti,
E col crine tergea
E bagnava di lacrime10
Il sanguinoso petto
Al Ciprio giovinetto.
Or te piangon gli amori,
Te fra le dive Liguri
Regina e diva! e fiori15
Votivi all’ara portano
D’onde il grand’arco suona
Del figlio di Latona.
E te chiama la danza
Ove l’aure portavano20
Insolita fragranza,
Allor che a’ nodi indocile
La chioma al roseo braccio
Ti fu gentile impaccio.
Tal nel lavacro immersa,25
Che fior, dall’Eliconio
Clivo cadendo, versa,
Palla dall’elmo i liberi
Crin su la man che gronda
Contien fuori dell’onda.30
Armonïosi accenti
Dal tuo labbro volavano,
E dagli occhi ridenti
Traluceano di Venere
35I disdegni e le paci,
La speme, il pianto e i baci.
Deh! perchè hai le gentili
Forme e l’ingegno docile
Vôlto a studi virili?
40Perchè non dell’Aonie
Seguivi, incauta, l’arte,
Ma i ludi aspri di Marte?
Invan presaghi i venti
Il polveroso agghiacciano
45Petto e le reni ardenti
Dell’inquïeto alipede,
Ed irritante il morso
Accresce impeto al corso.
Ardon gli sguardi, fuma
50La bocca, agita l’ardua
Testa, vola la spuma,
Ed i manti volubili
Lorda, e l’incerto freno,
Ed il candido seno;
E il sudor piove, e i crini55
Sul collo irti svolazzano,
Suonan gli antri marini
Allo incalzato scalpito
Della zampa che caccia
Polve e sassi in sua traccia.60
Già dal lito si slancia
Sordo ai clamori e al fremito;
Già già fino alla pancia
Nuota . . . e ingorde si gonfiano
Non più memori l’acque65
Che una Dea da lor nacque:
Se non che il Re dell’onde,
Dolente ancor d’Ippolito,
Surse per le profonde
Vie dal Tirreno talamo,70
E respinse il furente
Col cenno onnipotente.
Quel dal flutto arretrosse
Ricalcitrando, e, orribile!
Sovra l’anche rizzosse;75
Scuote l’arcion, te misera
Su la pietrosa riva
Strascinando mal viva.
Pera chi osò primiero
Discortese commettere
80A infedele corsiero
L’agil fianco femineo,
E aprì con rio consiglio
Nuovo a beltà periglio!
Chè or non vedrei le rose
85Del tuo volto sì languide;
Non le luci amorose
Spïar ne’ guardi medici
Speranza lusinghiera
Della beltà primiera.
90Di Cintia il cocchio aurato
Le cerve un dì traéno,
Ma al ferino ululato
Per terrore insanirono,
E dalla rupe etnea
95Precipitâr la Dea.
Gioìan d’invido riso
Le abitatrici olimpie,
Perchè l’eterno viso,
Silenzïoso e pallido,
100Cinto apparìa d’un velo
Ai conviti del cielo;
Ma ben piansero il giorno
Che dalle danze efesie
Lieta facea ritorno
105Fra le devote vergini,
E al ciel salìa più bella
Di Febo la sorella.
All'amica risanata.
Qual dagli antri marini
L’astro più caro a Venere
Co’ rugiadosi crini
Fra le fuggenti tenebre
5Appare, e il suo vïaggio
Orna col lume dell’eterno raggio.
Sorgon così tue dive
Membra dall’egro talamo,
E in te beltà rivive,
10L’aurea beltate ond’ebbero
Ristoro unico a’ mali
Le nate a vaneggiar menti mortali.
Fiorir sul caro viso
Veggo la rosa; tornano
15I grandi occhi al sorriso
Insidïando; e vegliano
Per te in novelli pianti
Trepide madri, e sospettose amanti.
Le Ore che dianzi meste
20Ministre eran de’ farmachi,
Oggi l’indica veste,
E i monili cui gemmano
Effigïati Dei
Inclito studio di scalpelli achei.
25E i candidi coturni
E gli amuleti recano
Onde a’ cori notturni
Te, Dea, mirando obbliano
I garzoni le danze,
30Te principio d’affanni e di speranze.
O quando l’arpa adorni
E co’ novelli numeri
E co’ molli contorni
Delle forme che facile
35Bisso seconda, e intanto
Fra il basso sospirar vola il tuo canto.
Più periglioso; o quando
Balli disegni, e l’agile
Corpo all’aure fidando,
40Ignoti vezzi sfuggono
Dai manti, e dal negletto
Velo scomposto sul sommosso petto.
All’agitarti, lente
Cascan le trecce, nitide
45Per ambrosia recente,
Mal fide all’aureo pettine
E alla rosea ghirlanda
Che or con l’alma salute April ti manda.
Così ancelle d’Amore
50A te d’intorno volano
Invidiate l’Ore;
Meste le Grazie mirino
Chi la beltà fugace
Ti membra, e il giorno dell’eterna pace.
55Mortale guidatrice
D’oceanine vergini,
La Parrasia pendice
Tenea la casta Artemide,
E fea terror di cervi
60Lungi fischiar d’arco cidonio i nervi.
Lei predicò la fama
Olimpia prole; pavido
Diva il mondo la chiama,
E le sacrò l’Elisio
65Soglio, ed il certo têlo,
E i monti, e il carro della luna in cielo.
Are così a Bellona,
Un tempo invitta amazzone,
Die’ il vocale Elicona;
70Ella il cimiero e l’egida
Or contro l’Anglia avara
E le cavalle ed il furor prepara.
E quella a cui di sacro
Mirto te veggo cingere
75Devota il simolacro,
Che presiede marmoreo
Agli arcani tuoi lari
Ove a me sol sacerdotessa appari,
Regina fu; Citera
80E Cipro ove perpetua
Odora primavera
Regnò beata, e l’isole
Che col selvoso dorso
Rompono agli euri e al grande Ionio il corso.
85Ebbi in quel mar la culla,
Ivi era ignudo spirito
Di Faon la fanciulla,
E se il notturno zeffiro
Blando su i flutti spira,
90Suonano i liti un lamentar di lira.
Ond’io, pien del nativo
Aër sacro, su l’itala
Grave cetra derivo
Per te le corde eolie,
95E avrai, divina, i voti
Fra gl’inni miei delle insubri nipoti.
CAPITOLO3
Stampi chi vuole sue prosaccie in rima.
Tu con Lucia gentil leggi sì piano
3Questa, che in altre orecchie non s’imprima
Non so ch’uomo giammai ponesse mano
A una commedia che ribrezzo e riso
6Insiem ti desti contro un mostro umano.
E’ pare che natura abbia diviso
Dalla lepida bella il raccapriccio:
9Abborri Giuda, e ridi di Narciso.
Pur a Natura venne anche il capriccio
Di creare, fra tanti, un animale
12Ch’io ’l guardo, e rido e di paura aggriccio.
Non ride ei già, ma con voce nasale
Scilingua e ghigna s’altri gli contende;
15Di nessun dice bene, e d’ognun male.
Anzi male per ben sempre ti rende;
Ladro ti chiama di ciò ch’ei t’invola,
18E per propria, la tua merce rivende.
Trangugiasi volumi d’ogni scuola,
E un pasticcio latino-italo-greco
21Rivomita indigesto dalla gola.
Erra intorno con gli occhi eppure è cieco;
Da lunge annusa e corre al putridume,
24Grida dì e notte, e sempre come l’eco.
Striscia per andar dietro all’altrui lume;
Se gli è presso, abbarbagliasi e nol vede
27Striscia perchè non ha gambe nè piume.
. . . . . . .
. . . . . . .
30. . . . . . .
E questo ha due peccati originali,
Oltre quel d’Eva: dentro non ha cuore
33E di fuor non ha forme naturali.
D’impotente libidine d’amore
Arrabbia quindi; e la Venerea face,
36E Apollinea desiando muore.
Nè dorme un sonno mai quando si giace;
Svegliasi spesso, e le altrui gioie insidia,
39E per turbarla altrui perde sua pace.
Quando l’Orgoglio si sposò l’Accidia,
Questo mostro ebbe vita, e per nudrice,
42Che l’allattò di fiele, ebbe l’Invidia.
E a piè dell’Eliconica pendice
Mordea co’ denti, poi che fu slattato,
45Ogni fresco germoglio, ogni radice.
Fatto poi grande, a chi gli passa allato
Ringhia ed abbaia peggio d’un mastino;
48S’altri non l’ode fuggesi arrabbiato.
Ma a chi ’l teme, e si svia dal buon cammino
Fa poi moine, e il chiama, e il palpa e il loda,
51Chiedendo per limosina un quattrino.
Per fame ti vitupera e li loda
Per fame ardisce e teme e liscia e morde
54Fame gl’insegna a far bella ogni froda.
Ma ben più d’oro che di pane ha ingorde
Le fauci; e spesso apparve alla mia vista
57Con monete d’umano sangue lorde.
Questo animal si chiama il G.........
CANTATA
Sotto una quercia antica
Che da un burrone protendea le frondi
Con la fronte alla palma Ugo Chisciotte
Mestissimo sedea: curva una vite
5Congiunta ai rami dalla quercia a un olmo
Faceva padiglione alla sua testa.
Riposava oziosa la sua spada
Fra la polvere e l’erba; a un verde tronco
Stava appoggiata l’asta della guerra;
10Sotto il braccio ha lo scudo, e l’elmo a terra.
Come nuvoli densi di molesti
Minutissimi insetti a schiera a schiera
L’amoroso pensiere
Gli mandava gli affanni entro la mente;
15Quasi vulcano ardente,
Fumo esalava tra sospiri e fiamme,
E mentre intorno intorno
Le valli e le foreste,
Tacite, attente e meste
20Stavano spettatrici a quella scena
Così cantando disfogò sua pena.
Monti e poggi assai men duri
Del cor fiero d’una Diva;
Antri e boschi, asili oscuri,
25Di mia vita fuggitiva;
Deh! scampatemi d’Amore
Che m’insegue a tormi il core,
E lo manda la mia Dea
La mia cara Dulcinea,
30Aure tepide lascive
Ah! più gelide spirate;
Le mie piaghe ardenti e vive
Per pietà deh! rinfrescate;
E se piene d’amor siete
35Perchè mai me solo ardete?
E fuggite la mia Dea
La mia cara Dulcinea.
Fiumicello lento lento
Che con l’onda cristallina
40Vai spargendo il tuo lamento
Per la selva e la collina;
Dimmi tu, dimmi se mai
Avrò pace de’ miei guai,
Corri e il chiedi alla mia Dea,
45La mia cara Dulcinea.
Vaghi augei che in lieta schiera
Del mattino al primo albore,
Al bel sol di primavera
Intrecciate inni d’amore;
50Deh prestatemi gli accenti
Molli, teneri, gementi;
Si ch’io plachi la mia Dea,
La mia cara Dulcinea.
Dalle balze ov’io m’aggiro
55Mio diletto amato bene.
L’aria stessa che respiro
Messaggera a te ne viene;
E un sospir la pena mia
A te reca, e a te l’invia
60Don Chisciotte; a te mia Dea,
A te cara Dulcinea.
LETTERA
A MONSIEUR GUILL...
SU LA SUA INCOMPETENZA
A GIUDICARE
I POETI ITALIANI4
- Falsus honor juvat —
- Quem? . . .
- Signore.
Gli articoli sottoscritti da lei nel giornale italiano sono dotati di tanta acutezza, di tanto brio, di tanta opportunità d’erudizione e dignità di censura, ch’io, non conoscendo i libri da lei criticati, la tenni per l’ingegno più elegante fra quanti mai scesero d’oltremonte riformatori delle nostre gazzette. Solo mi dava a pensare l’osservazione di Lorenzo Sterne: a frenchman, whatever be his talents, has no sort of prudery in schewing them: onde io temeva ch’ella per impazienza di sfoggiare l’ingegno e la dottrina che l’adornano sentenziando gli scrittori italiani, non aspettasse il tempo necessario ad apprendere la loro lingua. Temeva: ma ohime! lessi l’articolo sui Sepolcri, e il dubbio, pur troppo, s’è convertito in certezza. Vero è che il cav. Bettinelli scrisse: L’autore de’ Sepolcri ha troppo ingegno per me; e quindi ho dovuto leggerlo e rileggerlo con applicazione, perch’ei si leva a un’alta sfera di grandi pensieri e di frasi tutte sue. Vincenzo Monti, passato per Mantova, me li rilesse; entusiasta ne’ più bei passi, e profondo scrutatore di tante bellezze, assentiva alle mie osservazioni sull’oscurità. Non è dunque lieve sforzo d’ingegno se d’una poesia difficile anche a tali maestri ella abbia indovinato alcuni passi: ma indovinare per giudicare? — Però l’amor delle lettere mi conforta a mandarle il suo articolo con alcune postille, ond’ella s’accorga d’aver censurato, ma non inteso il poema, e si persuada quindi allo studio della nostra lingua. E allora — allora ch’ella per alcuni anni avrà coltivati i nostri poeti — oh come la critica d’un tanto Aristarco guiderà al vero ed al bello gl’ingegni cari alle Muse!
sul
CARME DEI SEPOLCRI
Articolo estratto dal giornale italiano N.º 173
22 Giugno 1807.
Cominceremo dal rallegrarci col sig. Foscolo, per non aver egli imitato Socrate, e Diogene nella loro indifferenza, e nel loro disprezzo per le sepolture. Ei non pensa col primo, che sia eguale d’esser gettato al letamaio, o rispettosamente deposto nella tomba; e molto men col secondo, che sia gradevole l’esser divorato dai cani, dagli avoltoi, o l’essere decomposto dal sole, e dalla pioggia. Si vede che il nostro poeta è realmente persuaso che il sonno della morte
“è men duro
«All’ombra de’ cipressi, e dentro l’urne
«Confortate di pianto”
Ei vorrebbe ancora che dopo la di lui morte, si mettesse sulla sua tomba5 un sasso che distingua le sue» dalle infinite
«Ossa che in terra, e in mar semina morte.»
Non credendo esser6 come l’uomo indegno d’esser compianto dopo la sua vita, e di cui dice:
«Sol chi non lascia eredità d’affetti
«Poca gioia ha dell’urna;»
Ei non vuol abbandonare «la sua polve
«Alle ortiche di deserta gleba
«Ove nè donna innamorata preghi,
« Nè passeggier solingo oda il sospiro
« Che dal tumulo a noi manda natura. »
Esprimendo sopra un soggetto così lugubre qualche pensiero, che ha di comune con Hervey7, egli desidererebbe che i cimiteri non fossero rilegati fuor dei guardi pietosi; e si duole di quella nuova legge che li getta fuori dalle città, ed alla quale rimprovera di contendere il nome ai morti. Il poeta è ingiusto, perocchè è permesso di porre inscrizioni, ed epitaffi sui sepolcri; ma è peraltro rispettabile cotesta ingiustizia, poichè essa proviene dal vivo dolore ch’ei prova, perchè il luogo, ove riposano le ceneri di Parini, non è distinto da alcun segno onorifico di simil genere. Da ciò prendendo occasione di trasformare in satira il suo8 canto elegiaco, si mette a riprendere con acrimonia i compatriotti di Parini, che non curarono i preziosi avanzi di quel poeta i di cui canti
«Il lombardo pungean Sardanapalo
«Cui solo è dolce il muggito de’ buoi
«Che dagli antri Abduani e dal Ticino
«Lo fan d’ozi beato e di vivande»
. . . . . . . . . .
«... a lui (Parini) non ombra pose
«Tra le sue mura la città, lasciva
«D’evirati cantori allettatrice,
«Non pietra, non parola; e forse l’ossa
«Col mozzo capo gl’insanguina il ladro
«Che lasciò sul patibolo i delitti».
Oltre all’esser ciò sommamente duro, e amaro9 non è nemmeno esatto. Noi non crediamo esservi in Lombardia un Sardanapalo. Che se alcuno meritasse tal nome per esser beato d’ozi e di vivande, vi sarebbero dei Sardanapali in tutte le parti della terra10, a Zante non meno che a Milano. Da qualche anno in qua non è da rimproverarsi a questa città il torto d’essere d’evirati cantori allattatrice11. L’immagine poi della testa insanguinata di un ladro giustiziato, è troppo stentata, troppo ispida, e di gusto troppo cattivo, per poter scusarla col quidlibet audendi d’Orazio12. Essa ripugna, principalmente in un poema, che non deve respirar altro che una dolce, religiosa e consolante malinconia13. Non c’è alcuno fra i poeti, che hanno parlato di sepolcri, che abbia usato un’immagine sì disgustosa. La loro sensibilità era sempre accompagnata dalla sana e verace filosofia. In quei cimiteri ove senza distinzione son riuniti gli avanzi dell’umanità, Virgilio non vedeva nulla di più contrastante che i nemici che la morte aveva riconciliati:
Hic, motus animorum, atque haec certamina tanta
Pulveris exigui jactu compressa quiescit14.
Ed è su tal soggetto che Hervey esclamava:
. «Perchè non vedesi regnar tra i viventi quella unione, quella pace, che regnano nella società de’ morti?15».
Orazio senza dare uno sguardo penoso ai vizi di coloro ch’erano vissuti, e le ceneri dei quali trovavansi necessariamente confuse con quelle degli uomini dabbene, contentavasi di dire:
Mixta senum ac juvenum densantur funera. Questa sì, è vera filosofia, e forse anche vera sensibilità16; l’affettazione d’una selvaggia misantropia, è ben lontana dall’una, e dall’altra. L’autore la spinge fino a chiamar gli uomini Umane belve17, al tempo istesso ch’ei parla delle più incontestabili prove di sensibilità, ch’essi abbiano mai date nel costruire sepolcri,
«Dal dì che nozze e tribunali ed are
«Dier alle umane belve esser pietose
«Di sè stesse e d’altrui, toglieano i vivi
«All’etere maligno cd alle fere
«1 miserandi avanzi che natura
«Con veci eterne a sensi altri destina».
Dopo questi collerici ghiribizzi18 contro la specie umana, il nostro poeta espone benissimo i vantaggi, che recarono i sepolcri ai viventi, e i religiosi ed utili atti dei quali furono l’occasione o l’oggetto.
«A egregie cose il forte animo accendono
«L’urne de’forti..... e bella
«E santa fanno al peregrin la terra
«Che le ricetta».
«Placando quelle afflitte alme col canto,
«I Prenci Argivi eternerà per quante
«Abbraccia terre il gran padre Oceàno.»
«E tu onore di pianti, Ettore, avrai
«Ove fia santo e lacrimato il sangue
«Per la patria versalo, e finchè il Sole
«Risplenderà su le sciagure umane».
Alcuni severi censori hanno accusato l’autore d’aver fatto entrare nella composizion dei suoi versi quella sorte d’asprezza che regna nella maggior parte de’ suoi sentimenti, e dei suoi pensieri. Certo che coi distinti talenti onde egli è ampiamente fornito, avrebbe potuto render più dolce la sua versificazione; ma egli, senza fallo, ha creduto che il suo stile poetico aver dovesse una fisonomia analoga ai suoi pensieri. Sembra che abbia temuto di esprimerli troppo mollemente, adoperando un linguaggio più grato agli orecchi delicati. Ma finalmente ogni scrittore d’un certo merito, ha uno stile suo proprio, come ogni uomo degno di tal nome ha il suo carattere particolare; e siccome egli è sol proprio dei vili il non avere un carattere deciso, così è proprio soltanto degli spiriti mediocri il non usar che il linguaggio del volgo.
Guill...
Ella vede dalle mie note quanto ha sbagliato su’ passi da lei citati, molto più dunque su la tessitura la quale dipende dalle transizioni. E le transizioni sono ardue sempre a chi scrive, e sovente a chi legge; specialmente in una poesia lirica, e d’un autore che, non so se per virtù o per vizio, transvolat in medio posita, ed afferrando le idee cardinali, lascia a’ lettori la compiacenza e la noia di desumere le intermedie. Ma chi traintende le parole che hanno significato certo in sè stesse, come mai potrà cogliere le transizioni formale da tenuissime modificazioni di lingua e da particelle che acquistano senso e vita diversa secondo gli accidenti, il tempo, il luogo in cui son collocate? Nè ella dannerebbe la disparità di colorito nel poema, s’ella potesse discernere le mezze tinte che guidano riposatamente da un principio affettuoso ad una fine veemente. Però l’estratto ch’ella ne fa non è, nè poteva essere esatto. Piacciale dunque di leggerlo com’io lo darò, acciocch’ella possa conoscere, se non altro, lo scheletro d’un componimento reputalo non indegno delle sue censure.
L’estratto mostrerà come questo componimento, spogliato che sia delle immagini dello stile e degli affetti, rimanga senza un’unica idea nuova. Ma il numero delle idee è determinato; la loro combinazione è infinita: e chi meglio combina meglio scrive. Ricchissima sorgente di combinazioni era a’ poeti greci e latini l’applicazione delle storie e delle favole alla morale. Chi non sa che gli uomini egregi sono malignati in vita e celebrati dopo la morte? Ma Orazio applicò a questa sentenza le tradizioni di Romolo, di Bacco, de’ Tindaridi, e d’Ercole:
Romulus et Liber pater, et cum Castore Pollux
Post ingentia facta Deorum in templa recepti.
Dum terras hominumque colunt genus, aspera bella
Componunt, agros assignant, oppida condunt,
Ploravere suis non respondere favorem
Speratum meritis. Diram qui contudit hydram
Notaque fatali portenta labore subegit
Comperit invidiam supremo fine domari.
Urit enim fulgore suo qui praegravat artes
Infra se positas; extinctus amabitur idem.
E se il piloto ti dirizzò l’antenna
Oltre l’isole Egée, d’antichi fatti
Certo udisti suonar dell’Ellesponto
I liti, e la marea mugghiar portando
Alle prode Retée l’armi d’Achille
Sovra l’ossa d’Aiace. A’ generosi
Giusta di glorie dispensiera è Morte.
Nè senno astuto, nè favor di regi
All’Itaco le spoglie ardue serbava,
Chè alla poppa raminga le ritolse
L’onda incitata dagli inferni Dei.
Così la fantasia del lettore corre a secoli dimenticati; si compiace dell’entusiasmo poetico che trae il mare e l’inferno alla vendetta dell’ingiustizia; e vede la verità che non parla ma opera. E perchè il sentimento com’ella dice non s’inaridisse, l’autore non doveva scansare i dettagli d’erudizione, bensì usarne meglio; non seppe: e però prega i censori d’insegnargli non ch’ei deve far meglio — e’ lo sa — ma se si possa, e come.
Eccole l’estratto.
I monumenti inutili a’ morti giovano a’ vivi perchè destano affetti virtuosi lasciati in eredità dalle persone dabbene: solo i malvagi, che si sentono immeritevoli di memoria, non la curano; a torto dunque la legge accomuna le sepolture de’ tristi e dei buoni, degl’illustri e degli infami.
Istituzione delle sepolture nata col patto sociale. Religione per gli estinti derivata dalle virtù domestiche. Mausolei eretti dall’amor della patria agli eroi. Morbi e superstizioni de’ sepolcri promiscui nelle chiese cattoliche. Usi funebri de’ popoli celebri. Inutilità de’ momunenti alle nazioni corrotte e vili.
Le reliquie degli eroi destano a nobili imprese, e nobilitano le città che le raccolgono: esortazioni agl’italiani di venerare i sepolcri de’ loro illustri concittadini; que’ monumenti ispireranno l’emulazione agli studi e l’amor della patria, come le tombe di Maratona nutriano ne’ Greci l’abborrimento a’ Barbari.
Anche i luoghi ov’erano le tombe de grandi, sebbene non vi rimanga vestigio, in fiammano la mente de’ generosi. Quantunque gli uomini d egregia virtù sieno perseguitati vivendo, e il tempo distrugga i lor monumenti, la memoria delle virtù e de’ monumenti vive immortale negli scrittori, e si rianima negl’ingegni che coltivano le muse. Testimonio il sepolcro d’Ilo, scoperto dopo tante età da’ viaggiatori che l’amor delle lettere trasse a peregrinar alla Troade; sepolcro privilegiato dai fati perchè protesse il corpo d’Elettra da cui nacquero i Dardanidi autori dell’origine di Roma, e della prosapia de’ Cesari signori del mondo. L’autore chiude con un episodio sopra questo sepolcro:Ivi posò Erittonio, e dorme il giusto
Cenere d’Ilo; ivi l’Iliache donne
Sciogliean le chiome, indarno ahi! deprecando
Da’ lor mariti l’imminente fato;
Ivi Cassandra, allor che il Nume in petto
Le fea parlar di Troia il dì mortale,
Venne; e all’ombre cantò carme amoroso,
E guidava i nepoti, e l’amoroso
Apprendeva lamento a’giovinetti;
E dicea sospirando: Oh se mai d’Argo,
Ove al Tidide e di Laérte figlio
Pascerete i cavalli, a voi permetta
Ritorno il ciclo, invan la patria vostra
Cercherete! Le mura opra di Febo
Sotto le lor reliquie fumeranno.
Ma i Penati di Troia avranno stanza
In queste tombe; chè de’ Numi è dono
Servar nelle miserie altero nome.
E voi, palme e cipressi, che le nuore
Piantan di Priamo, e crescerete, ahi! presto
Di vedovili lacrime innaffiati,
Proteggete i miei padri: e chi la scure
Asterrà pio dalle devote frondi
Men si dorrà di consanguinei lutti
E santamente toccherà l’altare:
Proteggete i miei padri. Un dì vedrete
Mendico un cieco errar sotto le vostre
Antichissime ombre, e brancolando
Penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne,
E interrogarle. Gemeranno gli antri
Secreti; e tutta narrerà la tomba
Ilio raso due volle e due risorto
Splendidamente su le mute vie
Per far più bello l’ultimo trofeo
Ai fatali Pelidi. Il sacro vate,
Placando quelle afflitte alme col canto,
1tprenci Argivi eternerà per quante
Abbraccia terre il gran padre Oceano.
E tu onore di pianti, Ettore, avrai
Ove fia santo e lacrimato il sangue
Per la patria versato, e finche il Sole
Risplcnderà su le sciagure umane.
E finchè il Sole
Risplenderà su le sciagure umane
l’autore s’è studiato di raccorre tutti i sentimenti d’una vergine profetessa che si rassegna alla fatale ed inevitabile infelicità de mortali, che la compiange negli altri perchè sente tutto il dolore della sua propria, e che prevedendola perpetua su la terra la assegna per termine alla fama del più nobile e del men fortunato di tutti gli eroi. Ove l’autore avesse mirato al patetico avrebbe amplificati questi affetti; mirava invece al sublime, e li ha concentrati24: e credendo a Longino non tentò più melodia ne’ suoi versi25. Se non che forse ei non ha conseguito se non se la severità e l’oscurità, compagne talor del sublime.
Che se fra peccati di questo carme gl’italiani non trovano nè aridità di sentimento, nè stanchezza di fantasia, cosa s’ha egli a pensare di lei? o ch’ella ha inteso senza sentire — o che ha censurato senza intendere. Non le appongo la prima colpa, perch’ella non ha dato ancor prove di fibra cornea: bensì la tengo per convinto di studio immaturo della nostra lingua: e a lei non resta che il merito di una nobile confessione, di cui nè Plutarco nè Dionisio Longino arrossirono, il primo nel paralello di Demostene e di Cicerone non s’attenta a paragonare la loro eloquenza; l’altro nel Trattato del sublime26 si reputa incompetente a tanto giudizio; eleggendo quei due magnanimi, sebben versatissimi nella romana letteratura, di apparire men dotti per non farsi sospettare impudenti.
Poiché io pubblico questa lettera io voleva soddisfare al debito che ha ogni scrittore di rivolgere ciò che stampa a qualche pubblica utilità, enti accingeva a parlare sulle cause e gli effetti morali dell’articolo a cui ho ardito rispondere, ed a compiangere seco lei la mendicità, la sguaiataggine e la schiavitù de’ nostri giornali. Ma presso lo stampatore di quest’opuscolo trovo pronto a pubblicarsi un volume di versioni dal greco, e nel proemio queste sentenze. —
„Ai danni che si producono dal non sapere degli Scrittori, un altro poi se ne aggiunge, e gravissimo; quello cioè delle insane decisioni che tutto dì si pronunziano intorno alle opere letterarie. E in questa parte, più assai che col sottrarre la debita lode agli esimi, si suole generalmente commetter gran fallo col celebrare i mediocri e gl’infimi, e col mettere alto quanto le stelle i deliri de le fantasie più sfrenate, o più deboli con tanta pompa di elogi, con quanta non si applaudirebbe ai voli delle menti più vigorose e più caste. E l’arroganza di questi giudizi ci viene per lo più da tali uomini, che o poco o nulla s’intendono di quelle cose, su le quali con usurpata autorità si accostano a dar sentenza, quand’essi pure non siano sospinti a ciò dalla cieca passione, o da la abitudine, o forse ancor da gli sproni di una turpe venalità. Intanto è loro mercè se quei giovani, i quali o non sanno o non si ardiscono ancora di giudicar per se soli, perdono ogni norma sicura per discernere il vero bello dal falso, e se gli scrittori più dispregevoli, stoltamente adulati, si affezionano vie maggiormente ai loro vizi, e li tengono per virtù. D’altra parte alcuni di quelli, che pur sono in via di buoni progressi sedotti da coteste lusinghe, e meno solleciti del suffragio dei pochi saggi e dell’immortalità del nome, che dei passeggeri e popolari applausi, si distolgono dal retto cammino e corrono ad ingrossare la folla degli scrittori ampollosi e scorretti. Mentre parecchi, dei valorosi giustamente offesi del sentirsi anteporre, od equiparare i più imbelli, s’intepidiscono nell’amor de lo scrivere, e del tutto volentieri se ne allontanano. Nella qual cosa essi imitano l’esempio di Achille, il quale non veggendosi onorato quanto gli pareva che si competesse a la sua virtù, volle fuggire ogni occasione di mostrarla; e perciò ritraendosi co’ suoi più cari a le navi, nel suo segreto l’ire addolciva; rimirando le disciplinate schiere dei Greci fuggir taciturne dinanzi alla vociferante e disordinala turba dei Barbari — .„
Il professore, Lamberti, elegantissimo autore delle versioni, pensò quello che io penso, e lo dice meglio ch’io non so. L’ho trascritto per presentarle con la mia lettera alcuna cosa degna di lei.
Onde finirò deplorando la dignità d’un uomo suo pari costretto, pour donner le ton aux juornalistes, a scrivere di ciò che non sa; costretto, per l’amore di noi studenti, ad affrontare la taccia, per non dir altro, di accattabrighe; costretto infine — e qui sa il cielo s’io m’investo di tutta l’angoscia del suo cuore paterno — costretto a far tradurre, e senza poter correggere i barbarismi de’ traduttori, i suoi bei parti francesi nel bastardo italiano d’una gazzetta che senza stile giudica dello stile. Ma così va il mondo, monsieur Guill...! la colpa è d’altri, pur troppo, e noi n’abbiam l’onta e la pena: ella parlando di ciò che non intende; io rispondendo a chi non può intendermi.
- Brescia 26 Giugno 1807.
ugo foscolo
Deorum. manium. iura. sancta. sunto.
XII TAB.
All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne
Confortate di pianto è forse il sonno
Della morte men duro? Ove più il Sole
Per me alla terra non fecondi questa
5Bella d’erbe famiglia e d’animali,
E quando vaghe di lusinghe innanzi
A me non danzeran l’ore future,
Nè da te, dolce amico, udrò più il verso
E la mesta armonia che lo governa,
10Nè più nel cor mi parlerà lo spirto
Delle vergini Muse e dell’Amore,
Unico spirto a mia vita raminga,
Qual fia ristoro a’ dì perduti un sasso
Che distingua le mie dalle infinite
Ossa che in terra e in mar semina morte?15
Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme,
Ultima Dea, fugge i sepolcri; e involve
Tutte cose l’obblio nella sua notte;
E una forza operosa le affatica
Di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe20
E l’estreme sembianze e le reliquie
Della terra e del ciel traveste il tempo.
Ma perchè pria del tempo a sè il mortale
Invidierà l’illusion che spento
Pur lo sofferma al limitar di Dite?25
Non vive ei forse anche sotterra, quando
Gli sarà muta l’armonia del giorno,
Se può destarla con soavi cure
Nella mente de’ suoi? Celeste è questa
Corrispondenza d’amorosi sensi,30
Celeste dote è negli umani; e spesso
Per lei si vive con l’amico estinto
E l’estinto con noi, se pia la terra
Che lo raccolse infante e lo nutriva,
Nel suo grembo materno ultimo asilo35
Porgendo, sacre le reliquie renda
Dall’insultar de’ nembi e dal profano
Piede del vulgo, e serbi un sasso il nome,
E di fiori adorata arbore amica
Le ceneri di molli ombre consoli.40
Sol chi non lascia eredità d’affetti
Poca gioia ha dell’urna; e se pur mira
Dopo l’esequie, errar vede il suo spirto
Fra ’l compianto de’ templi Acherontei,
O ricovrarsi sotto le grandi ale45
Del perdono d’Iddio: ma la sua polve
Lascia alle ortiche di deserta gleba
Ove nè donna innamorata preghi,
Nè passeggier solingo oda il sospiro
Che dal tumulo a noi manda Natura.50
Pur nuova legge impone oggi i sepolcri
Fuor de’ guardi pietosi, e il nome a’ morti
Contende. E senza tomba giace il tuo
Sacerdote, o Talia, che a te cantando
Nel suo povero tetto educò un lauro55
Con lungo amore, e t’appendea corone;
E tu gli ornavi del tuo riso i canti
Che il lombardo pungean Sardanapalo,
Cui solo è dolce il muggito de’ buoi
Che dagli antri abduani e dal Ticino60
Lo fan d’ozi beato e di vivande.
O bella Musa, ove sei tu? Non sento
Spirar l’ambrosia, indizio del tuo nume,
Fra queste piante ov’io siedo e sospiro
Il mio tetto materno. E tu venivi65
E sorridevi a lui sotto quel tiglio
Ch’or con dimesse frondi va fremendo
Perchè non copre, o Dea, l’urna del vecchio,
Cui già di calma era cortese e d’ombre.
Forse tu fra plebei tumuli guardi70
Vagolando, ove dorma il sacro capo
Del tuo Parini? A lui non ombre pose
Tra le sue mura la città, lasciva
D’evirati cantori allettatrice,
Non pietra, non parola; e forse l’ossa75
Col mozzo capo gl’insanguina il ladro
Che lasciò sul patibolo i delitti.
Senti raspar fra le macerie e i bronchi
La derelitta cagna ramingando
Su le fosse e famelica ululando;80
E uscir del teschio, ove fuggìa la Luna,
L’ùpupa, e svolazzar su per le croci
Sparse per la funerea campagna,
E l’immonda accusar col luttuoso
Singulto i rai di che son pie le stelle85
Alle obblîate sepolture. Indarno
Sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade
Dalla squallida notte. Ahi! sugli estinti
Non sorge fiore ove non sia d’umane
Lodi onorato e d’amoroso pianto:90
Dal dì che nozze e tribunali ed are
Dier alle umane belve esser pietose
Di sè stesse e d’altrui, toglieano i vivi
All’etere maligno ed alle fere
I miserandi avanzi che Natura95
Con veci eterne a’ sensi altri destina.
Testimonianza a’ fasti eran le tombe,
Ed are a’ figli; e uscìan quindi i responsi
De’ domestici Lari, e fu temuto
Su la polve degli avi il giuramento:100
Religïon che con diversi riti
Le virtù patrie e la pietà congiunta
Tradussero per lungo ordine d’anni.
Non sempre i sassi sepolcrali a’ templi
Fean pavimento; nè agl’incensi avvolto105
De’ cadaveri il lezzo i supplicanti
Contaminò; nè le città fur meste
D’effigïati scheletri: le madri
Balzan ne’ sonni esterrefatte, e tendono
Nude le braccia su l’amato capo110
Del lor caro lattante, onde nol desti
Il gemer lungo di persona morta
Chiedente la venal prece agli eredi
Dal santuario. Ma cipressi e cedri
Di puri effluvi i zefiri impregnando115
Perenne verde protendean su l’urne
Per memoria perenne; e prezïosi
Vasi accogliean le lagrime votive.
Rapìan gli amici una favilla al Sole
A illuminar la sotterranea notte,120
Perchè gli occhi dell’uom cercan morendo
Il Sole; e tutti l’ultimo sospiro
Mandano i petti alla fuggente luce.
Le fontane versando acque lustrali
Amaranti educavano e viole125
Su la funebre zolla; e chi sedea
A libar latte o a raccontar sue pene
Ai cari estinti, una fragranza intorno
Sentia qual d’aura de’ beati Elisi.
Pietosa insania che fa cari gli orti130
De’ suburbani avelli alle britanne
Vergini, dove le conduce amore
Della perduta madre, ove clementi
Pregaro i Geni del ritorno al prode
Che tronca fe’ la trîonfata nave135
Del maggior pino, e si scavò la bara.
Ma ove dorme il furor d’inclite gesta
E sien ministri al vivere civile
L’opulenza e il tremore, inutil pompa
E inaugurate immagini dell’Orco140
Sorgon cippi e marmorei monumenti.
Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo,
Decoro e mente al bello Italo regno,
Nelle adulate reggie ha sepoltura
Già vivo, e i stemmi unica laude. A noi145
Morte apparecchi riposato albergo,
Ove una volta la fortuna cessi
Dalle vendette, e l’amistà raccolga
Non di tesori eredità, ma caldi
Sensi e di liberal carme l’esempio.150
A egregie cose il forte animo accendono
L’urne de’ forti, o Pindemonte; e bella
E santa fanno al peregrin la terra
Che le ricetta. Io quando il monumento
Vidi ove posa il corpo di quel grande155
Che, temprando lo scettro a’ regnatori,
Gli allor ne sfronda, ed alle genti svela
Di che lagrime grondi e di che sangue;
E l’arca di colui che nuovo Olimpo
Alzò in Roma a’ Celesti; e di chi vide160
Sotto l’etereo padiglion rotarsi
Più Mondi, e il Sole irradiarli immoto,
Onde all’Anglo che tanta ala vi stese
Sgombrò primo le vie del firmamento:
Te beata, gridai, per le felici165
Aure pregne di vita, e pe’ lavacri
Che da’ suoi gioghi a te versa Apennino!
Lieta dell’aer tuo veste la Luna
Di luce limpidissima i tuoi colli
Per vendemmia festanti, e le convalli170
Popolate di case e d’oliveti
Mille di fiori al ciel mandano incensi:
E tu prima, Firenze, udivi il carme
Che allegrò l’ira al Ghibellin fuggiasco,
E tu i cari parenti e l’idïoma175
Dèsti a quel dolce di Calliope labbro,
Che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma
D’un velo candidissimo adornando,
Rendea nel grembo a Venere Celeste;
Ma più beata che in un tempio accolte180
Serbi l’Itale glorie, uniche forse
Da che le mal vietate Alpi e l’alterna
Onnipotenza delle umane sorti,
Armi e sostanze t’invadeano, ed are
E patria, e, tranne la memoria, tutto.185
Che ove speme di gloria agli animosi
Intelletti rifulga ed all’Italia,
Quindi trarrem gli auspici. E a questi marmi
Venne spesso Vittorio ad ispirarsi,
Irato a’ patrii Numi; errava muto190
Ove Arno è più deserto, i campi e il cielo
Desîoso mirando; e poi che nullo
Vivente aspetto gli molcea la cura,
Qui posava l’austero; e avea sul volto
Il pallor della morte e la speranza.195
Con questi grandi abita eterno: e l’ossa
Fremono amor di patria. Ah sì! da quella
Religïosa pace un Nume parla:
E nutrìa contro a’ Persi in Maratona
Ove Atene sacrò tombe a’ suoi prodi,200
La virtù greca e l’ira. Il navigante
Che veleggiò quel mar sotto l’Eubea,
Vedea per l’ampia oscurità scintille
Balenar d’elmi e di cozzanti brandi,
Fumar le pire igneo vapor, corrusche205
D’armi ferree vedea larve guerriere
Cercar la pugna; e all’orror de’ notturni
Silenzi si spandea lungo ne’ campi
Di falangi un tumulto e un suon di tube
E un incalzar di cavalli accorrenti210
Scalpitanti su gli elmi a’ moribondi,
E pianto, ed inni, e delle Parche il canto.
Felice te che il regno ampio de’ venti,
Ippolito, a’ tuoi verdi anni correvi!
E se il piloto ti drizzò l’antenna215
Oltre l’isole Egée, d’antichi fatti
Certo udisti suonar dell’Ellesponto
I liti, e la marea mugghiar portando
Alle prode Retèe l’armi d’Achille
Sovra l’ossa d’Ajace: a’ generosi220
Giusta di glorie dispensiera è morte:
Nè senno astuto, nè favor di regi
All’Itaco le spoglie ardue serbava,
Chè alla poppa raminga le ritolse
L’onda incitata dagl’inferni Dei.225
E me che i tempi ed il desio d’onore
Fan per diversa gente ir fuggitivo,
Me ad evocar gli eroi chiamin le Muse
Del mortale pensiero animatrici.
Siedon custodi de’ sepolcri, e quando230
Il tempo con sue fredde ale vi spazza
Fin le rovine, le Pimplèe fan lieti
Di lor canto i deserti, e l’armonia
Vince di mille secoli il silenzio.
Ed oggi nella Tròade inseminata235
Eterno splende a’ peregrini un loco
Eterno per la Ninfa a cui fu sposo
Giove, ed a Giove diè Dàrdano figlio,
Onde fur Troja e Assàraco e i cinquanta
Talami e il regno della Giulia gente.240
Però che quando Elettra udì la Parca
Che lei dalle vitali aure del giorno
Chiamava a’ cori dell’Eliso, a Giove
Mandò il voto supremo: E se diceva,
A te fur care le mie chiome e il viso245
E le dolci vigilie, e non mi assente
Premio miglior la volontà de’ fati,
La morta amica almen guarda dal cielo
Onde d’Elettra tua resti la fama.
Così orando moriva. E ne gemea250
L’Olimpio; e l’immortal capo accennando
Piovea dai crini ambrosia su la Ninfa
E fe’ sacro quel corpo e la sua tomba.
Ivi posò Erittonio: e dorme il giusto
Cenere d’Ilo; ivi l’Iliache donne255
Sciogliean le chiome, indarno, ahi! deprecando
Da’ lor mariti l’imminente fato;
Ivi Cassandra, allor che il Nume in petto
Le fea parlar di Troja il dì mortale,
Venne; e all’ombre cantò carme amoroso,260
E guidava i nepoti, e l’amoroso
Apprendeva lamento a’ giovinetti.
E dicea sospirando: Oh se mai d’Argo,
Ove al Tidide e di Laerte al figlio
Pascerete i cavalli, a voi permetta265
Ritorno il cielo, invan la patria vostra
Cercherete! le mura, opra di Febo,
Sotto le lor reliquie fumeranno;
Ma i Penati di Troja avranno stanza
In queste tombe; chè de’ Numi è dono270
Servar nelle miserie altero nome.
E voi palme e cipressi che le nuore
Piantan di Priamo, e crescerete ahi! presto
Di vedovili lagrime innaffiati.
Proteggete i miei padri: e chi la scure275
Asterrà pio dalle devote frondi
Men si dorrà di consanguinei lutti
E santamente toccherà l’altare,
Proteggete i miei padri. Un dì vedrete
Mendico un cieco errar sotto le vostre280
Antichissime ombre, e brancolando
Penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne,
E interrogarle. Gemeranno gli antri
Secreti, e tutta narrerà la tomba
Ilio raso due volte e due risorto285
Splendidamente su le mute vie
Per far più bello l’ultimo trofeo
Ai fatati Pelìdi. Il sacro vate,
Placando quelle afflitte alme col canto,
I prenci argivi eternerà per quante290
Abbraccia terre il gran padre Oceàno.
E tu, onore di pianti, Ettore, avrai,
Ove fia santo e lagrimato il sangue
Per la patria versato, e finchè il Sole
Risplenderà su le sciagure umane.295
NOTE
AI SEPOLCRI
Ho desunto questo modo di poesia da’ Greci, i quali dalle antiche tradizioni traevano sentenze morali e politiche presentandole non al sillogismo de’ lettori, ma alla fantasìa ed al cuore. Lasciando agl’intendenti di giudicare sulla ragione poetica e morale di questo tentativo, scriverò le seguenti note onde rischiarare le allusioni alle cose contemporanee, ed indicare da quali fonti ho ricavato le tradizioni antiche.
Verso 8-9 . . . . . . . Il verso
E la mesta armonia che lo governa.
Epistole e poesie campestre d’Ippolito Pindemonte.
v. 44. Fra ’l compianto de’ templi Archerontei
- «Nam jam saepe homines patriam carosque parentes.
- «Prodiderunt vilare Acherusia TEMPLA petentes27.
chiamavano Templa anche i cieli28.
v. 57-58 . . . . . . . i canti
Che il Lombardo pungean Sardanapalo.
Il Giorno di Giuseppe Parini.
v. 64 Fra queste piante ov’io siedo.
Il boschetto de’ tigli nel sobborgo orientale di Milano.
v. 70 . . . . fra plebei tumuli.
Cimiteri suburbani a Milano.
v. 97 Testimonianza ai fasti eran le tombe.
«Se gli Achei avessero innalzato un sepolcro ad Ulisse, quanta gloria ne sarebbe ridondata al suo figliuolo29!».
v. 98 . . . . are a’ figli.
- «Ergo instauramus Polydoro funus et ingens
- «Aggeritur tumulo tellus, stant manibus ARAE
- «Coeruleis moestae vittis atraque cupresso30.
Uso disceso sino a’ tempi tardi di Roma, come appare da molte iscrizioni funebri.
v. 98-99 . . . . uscian quindi i responsi
De’ domestici Lari.
«Manes animae dicuntur melioris meriti quae in corpore nostro Genii dicuntur; corpori renuntiantes, Lemures; cum domos incursionibus infestarent, Larvae; contra si faventes essent, LARES familiares31».
Verso 117 e seg. . . . . preziosi
Vasi accogliean le lagrime votive
I Vasi lacrimatori, le lampade sepolcrali, e i riti funebri degli antichi.
v. 125-126 Amaranti educavano e viole
Su la funebre zolla.
- «Nunc non e manibus illis,
- «Nunc non e tumulo fortunataque favilla
- «Nascentur violae32?
v. 126-127. . . . . . . e chi sedea
A libar latte
Era rito de’ supplicanti e de' dolenti di sedere presso l’are e i sepolcri.
- «Illius ad tumulum fugiam supplexque sedebo
- «Et mea cum muto fata querar cinere33.
v. 128-129. . . una fragranza intorno
Sentia qual d’aura de’ beati Elisi
«Memoria Josiae in compositione unguentorum facta opus pigmentarii»34. E in un’urna sepolcrale:
ΕΝ ΜΥΡΟΙΣ
ΣΟ ΤΕΚΝΟΝ
Η ΨΥΧΗ
«Negli unguenti, o figliuolo, l'anima tua»35.
v. 131-132 . . . . . . le britanne
Vergini.
«Vi sono de’ grossi borghi e delle piccole città in Inghilterra, dove precisamente i Campi Santi offrono il solo passeggio pubblico alla popolazione; vi sono sparsi molti ornamenti e molta delizia campestre»36.
v. 134-135-136 . . . . al prode
Che tronca fe’ la trïonfata nave
Del maggior pino, e si scavò la bara.
L’ammiraglio Nelson prese in Egitto a’ Francesi l’Oriente vascello di primo ordine, gli tagliò l’arbore maestro, e del troncone si preparò la bara; e la portava sempre con sè.
Verso 154 e seg. . . . il monumento
Vidi ove posa il corpo di quel grande.
Mausolei di Niccolò Machiavelli, di Michelangelo, architetto del Vaticano: di Galileo, precursore di Newton; e d’altri grandi nella chiesa di Santa Croce in Firenze.
v. 173-174 E tu prima, Firenze, udivi il carme
Che allegrò l’ira al Ghibellin fuggìasco.
È parere di molti Storici che la Divina Commedia fosse stata incominciata prima dell’esilio di Dante.
v. 175-176. . . . i cari parenti e l’idioma
Desti a quel dolce di Callìope labbro.
Il Petrarca nacque nell’esilio, di genitori fiorentini:
v. 179. . . . . Venere Celeste.
Gli antichi distingueano due Veneri; una terrestre e sensuale, l’altra celeste e spirituale37: ed aveano riti e sacerdoti diversi.
v. 183-184 Irato a’ patrii Numi errava muto
Ove Arno è più deserto.
Così io scrittore vidi Vittorio Alfieri negli ultimi anni della sua vita. Giace in Santa Croce.
v. 193 Ove Atene sacrò tombe a’ suoi prodi
«Nel campo di Maratona è la sepoltura degli Ateniesi morti nella battaglia; e tutte le notti vi s’intende un nitrir di cavalli, e veggonsi fantasmi di combattenti»38. L’isola d’Eubea siede rimpetto alla spiaggia ove sbarcò Dario.
v. 205. . . . delle Parche il canto.
«Veridicos Parcae coeperunt edere cantus»39.
Le parche cantando vaticinavano le sorti degli uomini nascenti e de’ morenti.
v. 210-211 . . . . dell’Ellesponto
I liti.
«Gli Achei innalzino a’ loro Eroi il sepolcro presso l'ampio Ellesponto, onde i posteri navigatori dicano: Questo è il monumento d’un prode anticamente morto40. E noi dell’esercito sacro de’ Danai ponemmo, o Achille, le tue reliquie con quelle del tuo Patroclo, edificandoti un grande ed inclito monumento ove il lito più eccelso nell’ampio Ellesponto, acciocchè dal lontano mare si manifesti agli uomini che vivono e che vivranno in futuro41.
Verso 212-213 Alle prode Retée l’armi d’Achille
Sovra l'ossa d’Ajace.
«Lo scudo d’Achille innaffiato del sangue d’Ettore fu con iniqua sentenza aggiudicato al Laerziade; ma il mare lo rapì al naufrago facendolo nuotare non ad Itaca, ma alla tomba d’Aiace; e manifestando il perfido giudizio dei Danai, restituì a Salamina la dovuta gloria42. Ho udito che questa fama delle armi portate dal mare sul sepolcro del Telamonio prevaleva presso gli Eolii che posteriormente abitarono Ilio»43. Il promontorio Retèo che sporge sul Bosforo Tracio è celebre presso tutti gli antichi per la tomba d’Ajace.
v. 229 Eterno . . . un loco.
I recenti viaggiatori alla Troade scopersero le reliquie del sepolcro d’Ilo antico Dardanide44.
v. 230-231 . . . La ninfa a cui fu sposo
Giove ed a Giove diè Dardano figlio.
Tra le molte origini de’ Dardanidi, trovo in due scrittori greci45 che da Giove e da Elettra, figlia di Atlante, nacque Dardano. Genealogia accolta da Virgilio e da Ovidio46.
v. 248-249 . . . . L’Iliache donne
Sciogliean le chiome.
Uso di quelle genti nell’esequie e nelle inferie:
- «Stant manibus arae,
- «Et circum Iliades crinem de more solutae47.
v. 251 Cassandra.
- «Fatis aperit Cassandra futuris
- «Ora, dei jussu, non umquam credita Teucris48.
v. 273 Mendico un cieco.
Omero ci tramandò la memoria del sepolcro d’Ilo49. È celebre nel mondo la povertà e la cecità del sovrano Poeta.
- «Quel sommo
- «D’occhi cieco, e divin raggio di mente,
- «Che per la Grecia mendicò cantando:
- «Solo d’Ascra venian le fide amiche
- «Esulando con esso, e la mal certa
- «Con le destre vocali orma reggendo
- «Cui poi tolto alla terra, Argo ed Atene,
- «E Rodi a Smirna cittadin contende:
- «E patria ei non conosce altra che il cielo50.
Poesia di un giovine ingegno nato alle lettere e caldo d’amor patrio: la trascrivo per tutta lode, e per mostrargli quanta memoria serbi di lui il suo lontano amico.
v. 278 Ilio raso due volte
Da Ercole51, e dalle Amazzoni52
v. 281 Ai fatati Pelìdi.
Achille, e Pirro ultimo distruttore di Troja.VESTIGI
DELLA STORIA
DEL
SONETTO ITALIANO
dall’anno
Quae legat ipsa Lycoris.
Virgil. eglog. X.
alla donna gentile
Non vi rincresca, Donna gentile,di custodire questo libercoletto come cosa mia e vostra ad un tempo. Non ch’io voglia invanire dell’essermi ajutato della memoria; tanto più che m’avrà forse tradito, da ch’io vivo in paese dove i poeti italiani sono noti appena di nome; nè ho libri che mi accompagnino nell’esilio. Bensì mi compiaccio di mandarvi tal cosa fatta segnatamente per voi; affinchè se per gli anni avvenire la fortuna mi contendesse di ricevere i doni vostri graziosi, e di mandarvi alcuno de’ miei, voi rileggendo ad ogni principio d’anno questo libretto, possiate, Donna gentile, e ricordarvi e accertarvi ch’io vissi e vivrò, sino all’ultimo de’ giorni miei, vostro amico —
- Hottingen 1 Gennaio 1816
ugo foscolo
Quanto più mi distrugge il mio pensiero
Che la durezza altrui produsse al mondo,
Tanto ognor, lasso! in lui più mi profondo,
E col fuggir della speranza, spero.
5Io parlo meco, e riconosco il vero,
Chè mancherò sotto sì grave pondo
Ma il mio fermo desio tanto è giocondo
Ch’io bramo e seguo la cagion ch’io pero.
Ben forse alcun verrà dopo qualche anno,
10Il qual leggendo i miei sospiri in rima,
Si dolerà della mia dura sorte:
E chi sa! che colei che or non mi estima,
Visto con il mio mal giunto il suo danno,
Non deggia lagrimar della mia morte.
Chi è questa che vien che ogni uom la mira?
Che fa tremar di caritate l’a’re?
E mena seco Amor, sì che parlare
Null’uom ne puote; ma ciascun sospira?
5Ahi Dio? che sembra quando gli occhi gira!
Dicalo Amor, ch’io nol saprei contare:
Cotanto d’umiltà donna mi pare,
Che ciascun altra inver di lei chiam’ira.
Non si poria contar la sua piacenza;
10Che a leî s’inchina ogni gentil virtute,
E la Beltate per sua Dea la mostra.
Non è sì alta già la mente nostra,
E non s’è posta in noi tanta salute
Che propriamente n’abbiam conoscenza.
Negli occhi porta la mia donna amore,
Perchè si fa gentil ciò ch’ella mira:
Ov’ella passa ogni uom ver lei si gira
E cui saluta fa tremar lo core,
Sì che bassando il viso tutto smuore,
Ed ogni suo difetto allor sospira:
Fugge dinanzi a lei superbia ed ira;
Aiutatemi donne, a farle onore.
Ogni dolcezza, ogni pensiero umìle
Nasce nel core a chi parlar la sente,
Ond’è beato chi prima la vide:
Quel ch’ella par quando un poco sorride
Non si può dire nè tenere a mente;
Si è novo miracolo e gentile!
Mille dubii in un dì, mille querele
Al tribunal dell’alta imperatrice
Amor contra me forma irato, e dice: —
Giudica chi di noi sia più fedele:
Questi, solo per me spiega le vele
Di fama al mondo ove saria infelice. —
Anzi d’ogni mio mal sei la radice,
Dico, e provai già del tuo dolce il fele. —
Ed egli; Ahi falso servo fuggitivo!
È questo il merto che mi rendi, ingrato,
Dandoti una a cui in terra egual non era? —
— Che val, grido, se tosto me n’hai privo? —
Io no; risponde. — Ed ella: A sì gran piato
Convien più tempo a dar sentenza vera.
In qual parte del Cielo in quale Idea
Era l’esempio onde natura tolse
Quel bel viso leggiadro in ch’ella volse
Mostrar quaggiù quanto lassù potea?
5Qual ninfa in fonti, in selve mai qual Dea
Chiome d’oro sì fine all’aura sciolse?
Quando un cor tante in sè virtuti accolse?
Benché la somma è di mia morte rea!
Per divina bellezza indarno mira,
10Chi gli occhi di costei giammai non vide
Come soavemente ella gli gira:
Non sa come Amor sana e come ancide,
Chi non sa come dolce ella sospira
E come dolce parla e dolce ride.
Chi è costei che nostra etate adorna
Di tante meraviglie e di valore?
E in forma umana in compagnia d’Amore
Fra noi mortali come Dea soggiorna?
5Di senno e di beltà dal ciel s’adorna
Qual spirto ignudo e sciolto d’ogni errore;
E per destin la degna a tanto onore
Natura, che a mirarla pur ritorna.
In lei quel poco lume è tutto accolto
10E quel poco splendor che a’ giorni nostri
Sovra noi cade da benigne stelle.
Tal che ’l Maestro de’ stellati chiostri
Si lauda, rimirando nel bel volto;
Che fè già di sua man cose sì belle.
LEONELLO D’ESTE
viveva
Amor m’ha fatto cieco; e non ha tanto
Di carità che mi conduca in via;
Mi lascia per dispetto in mia balìa,
E dice; Or va; tu che presumi tanto.
5Ed io perchè mi sento in forza alquanto,
E spero di trovar chi man mi dia,
Vado; ma poi non so dove mi sia:
Sicché mi fermo ritto su d’un canto.
Amore allora, che mi sta guatando,
10Mi mostra per disprezzo e mi ostenta,
E mi va canzonando in alto metro:
Nè ’l dice così pian ch’io non lo senta,
Ond io rispondo così borbottando:
Mostrami almen la via ch’io torni indietro.
LORENZO DE’ MEDICI
morto
Belle fresche purpuree viole,
Che quella candidissima man colse,
Qual pioggia o qual puro aer produr volse
Tanto più vaghi fior che far non suole?
Qual rugiada, qual terra, ovver qual Sole
Tante vaghe bellezze in voi raccolse?
Onde il soave odor Natura tolse,
O il ciel ch’a tanto ben degnar ne vuole?
Care mie violette, quella mano
Che v’elesse intra l’altre, ov’eri, in sorte,
V’ha di tante eccellenze e pregio ornate;
Quella che il cor mi tolse e di villano
Lo fè gentil, a cui siate consorte,
Quella dunque, e non altri, ringraziate.
PIETRO BEMBO
sonetto
Già donna, or Dea; nel cui virginal chiostro,
Scendendo in terra a sentir caldo e gelo,
S’armò per liberarne il Re del cielo
Da l’empie man de l’avversario nostro.
I pensier tutti e l’uno e l’altro inchiostro,
Cangiata veste, e con la mente il pelo,
A te rivolgo: e, quel che agli altri celo,
Le interne piaghe mie ti scopro e mostro:
Sanale; che puoi farlo: e dammi aita
A salvar l’alma da l’eterno danno;
La qual, se dal cammin dritto impedita,
Le Sirene gran tempo schernita hanno,
Non tardar tu; che omai della mia vita
Si volge il terzo e cinquantesim’anno.
VITTORIA COLONNA
morta
Ahi quanto fu al mio Sol contrario il fato
Che con l’alta virtù de’ raggi suoi
Pria non v’accese; che mill’anni e poi,
Voi sareste più chiaro, ei più lodato!
5Il nome suo col vostro stile ornato
Che fa scorno agli antichi invidia a noi,
A mal grado del tempo avreste voi
Dal secondo morir sempre guardato.
Potess’io almen mandar nel vostro petto
10L’ardor ch’io sento, o voi nel mio l’ingegno
Per far la rima a quel gran merto eguale!
Che così temo il ciel non prenda a sdegno
Voi, perchè preso avete altro soggetto;
Me, che ardisco parlar di un lume tale.
VERONICA GAMBARA
morta
Altri boschi, altri prati ed altri monti,
Felice e lieto Bardo, or godi e miri;
Ed altre ninfe vedi in vaghi giri
Danzar cantando intorno a fresche fonti:
5E ad altri che a mortali ora racconti
I moderati tuoi santi desiri;
Ne più fuor del tuo petto escon sospiri
Di dolor segni manifesti e conti:
Ma beato dal ciel nascer l’aurora,
10E sotto i piedi tuoi vedi le stelle
Produr girando i vari effetti suoi;
E vedi che i pastor, d’erbe novelle
Sacrificio li fanno; e dicon poi:
Sii propizio a chi t’ama e a chi t’onora.
Già corsi l’Alpi gelide e canute,
Malfida siepe alle tue rive amate,
Or sento, Italia mia, l’aure odorate
E l’aere pien di vita e di salute.
5Quante mi deste al cor, lasso! ferute,
Membrando la fatal vostra beltate,
Culti poggi, antri verdi, ed ombre grate,
Da’ ciechi figli tuoi mal conosciute!
Oh felice colui che un breve e colto
10Terren fra voi possiede, un antro, un rivo,
Sua cara donna, e di fortuna un volto!
Ebbi i miei tetti e le mie paci a schivo;
Ahi giovenil desìo fallace e stolto!
Or vo piangendo che di lor son privo.
GIO. DELLA CASA
morto
O sonno! o, della queta umida ombrosa
Notte, placido figlio! o de’ mortali
Egregi, conforto; oblio dolce de’ mali
Sì gravi, ond’è in vita aspra e noiosa!
5Soccorri al core omai che langue; e posa
Non ave; e queste membra stanche e frali
Solleva: a me ten vieni, o sonno! e l’ali
Tue brune sovra me distendi e posa.
Ov’è il silenzio che il dì fugge e il lume?
10E i lievi sogni che con non secure
Vesti già di seguirti han per costume?
Lasso! che in van te chiamo; e queste oscure
E gelide ombre invan lusingo. Ahi piume
D’asprezza colme! ahi notti acerbe e dure!
Quella cetra gentil che in su la riva
Cantò di Mincio, Dafni e Melibeo,
Sì che non so, se in Menalo o in Liceo,
In quella o iu altra età, simil s’udiva;
5Poi che con voce più canora e viva
Celebrato ebbe Pale ed Aristeo,
E le grand’opre che in esilio feo
Il gran figliuol d’Anchise e della Diva;
Dal suo Pastore in una quercia ombrosa
10Sacrata pende; e se la move il vento,
Par che dica superba e disdegnosa;
Non sia chi di toccarmi abbia ardimento;
Che se non spero aver man sì famosa,
Del gran Tiliro mio sol mi contento.
TORQUATO TASSO
morto
Amore alma è del Mondo; Amore è mente
Che volge in Ciel per corso obliquo il Sole,
E degli erranti Dei l’alte carole
Rende al celeste suon veloci e lente:
5L’aria, l’acqua, la terra, il fuoco ardente,
Misto a’ gran membri dell’immensa mole
Nudre il suo spirto; e s’uom s’allegra e duole
Ei n’è cagione, o speri anco e pavente.
Pur, benchè tutto crei, tutto governi,
10E per tutto risplenda e in tutto spiri,
Più spiega in noi di sua possanza amore:
E disdegnando i cerchi alti e superni
Posto ha la sede sua ne’ dolci giri
De’ be’ vostr’occhi,e il tempio ha nel mio core.
ALESSANDRO TASSONI
morto
Questa Mummia col fiato in cui Natura
L’arte imitò d’un uom di carta pesta
Che par mover le mani e i piedi a sesta
Per forza d’ingegnosa architettura;
5Di Filippo da Narni è la figura,
Che non portò giammai scarpa, nè vesta
Che fosser nuove, o cappel nuovo in testa;
E cento mila scudi ha su l’usura.
Vedilo col mantel spelato e rotto
10Ch’ei stesso ha di fil bianco ricucito,
E la gonnella del piovano Arlotto.
Chi volesse saper, di ch’è il vestito
Che già quattordici anni e’ porta sotto.
Non troveria del primo drappo un dito.
FRANCESCO REDI
morto
Lunga è l’arte d’Amor, la vita è breve;
Perigliosa la prova, aspro il cimento,
Difficile il giudizio: e al par del vento
Precipitosa l’occasione e lieve.
5Siede in la scuola il fero mastro, e greve
Flagello impugna al crudo ufficio intento;
Non per via del piacer, ma del tormento
Ogni discepol suo vuol che s’alleve.
Mesce i premi al castigo; e sempre amari
10I premi sono, e tra le pene involti,
E tra gli stenti, e sempre scarsi e rari.
Eppur fiorita è l’empia scuola, e molti
Già vi son vecchi; eppur non v’è chi impari:
Anzi imparano tutti a farsi stolti.
BENEDETTO MENZINI
morto
Mentr’io dormia sotto quell’elce ombrosa
Parvemi, disse Alcon, per l’onde chiare
Gir navigando donde il Sole appare
Sin dove stanco in grembo al mar si posa.
5E a me, soggiunse Elpin, nella fumosa
Fucina di Vulcan parve d’entrare,
E prender armi d’artificio rare
Grand’elmo e spada ardente e fulminosa.
Sorrise Uranio, che per entro vede
10Gli altrui pensier col senno; e in questi accenti
Proruppe e s’acquistò credenza e fede.
Siate, o pastori, a quella cura intenti
Che giusto il Ciel dispensator vi diede,
E sognerete sol greggi ed armenti.
ALESSANDRO GUIDI
morto
Non è costei della più bella Idea
Che lassù splenda a noi discesa in terra;
Ma tutto il bel che nel suo volto serra
Sol dal mio forte immaginar si crea.
5Io la cinsi di gloria e fatta ho Dea,
E in guiderdon le mie speranze atterra;
Lei posi in regno, e me rivolge in guerra,
E di mio pianto e di mia morte è rea.
Tal forza acquista un amoroso inganno;
10E amar convienimi, ed odiar dovrei
Come il popolo oppresso odia il tiranno.
Tutta mia colpa è il crudo oprar di lei;
Or conosco Terrore e piango il danno.
Arte infelice è il fabbricarsi i Dei!
GIO. BATTISTA ZAPPI.
morto
In quella età ch’io misurar solea
Me col mio capro, e il capro era maggiore.
Io amava Clori, che insin da quell’ore
Maraviglia, e non donna a me parea.
5Un dì le dissi, io t’amo; e il disse il core,
Poichè tanto la lingua non sapea;
Ed ella un bacio diemmi e mi dicea:
Pargoletto, ah non sai che cosa è amore!
Ella d’altri s’accese, altri di lei;
10Io poi giunsi all’età ch’uom s’innamora,
L’età degl’infelici affanni miei:
Ciori or mi sprezza, io l’amo insin d’allora:
Non si ricorda del mio amor costei;
Io mi ricordo di quel bacio ancora.
CORNELIO BENTIVOGLIO
morto
Vidi; ahi memoria rea delle mie pene!
In abito mentito io vidi Amore
Ampio gregge guidar, fatto pastore,
Al dolce suon delle cerate avene:
E il riconobbi all’aspre sue catene
Ch’usciano un poco al rozzo manto fuore;
E l’arco vidi che il crudel signore
Indivisibilmente al fianco tiene.
Onde gridai; Povere greggi! ascoso
È il lupo in vesta pastoral; fuggite,
Pastor, fuggite il suono insidìoso.
Allora Amor: Tu che le insidie ordite
Scopristi, ed ami si l’altrui riposo.
Tutte prova in te sol le mie ferite.
QUIRICO ROSSI
morto
Io nol vedrò; poichè il cangiato aspetto
E la vita che sento venir meno,
Mi diparte dal dolce aer sereno,
Nè mi riserba al sanguinoso obbietto
5Ma tu, Donna, il vedrai questo diletto
Figlio, che stringi vezzeggiando al seno,
D onta, di strazi, e d’amarezza pieno,
Barbaramente lacerato il petto.
Che fia allor, che fia? e qual mai frutto
10Corrai dall’arbor trionfale? Oh quanto
Si prepara per te dolore e lutto!
Così largo versando amaro pianto
Il buon vecchio dicea. Con ciglio asciutto
Maria si stava ad ascoltarlo intanto.
Quando Gesù con l’ultimo lamento
Schiuse le tombe e la montagna scosse,
Adamo rabuffato e sonnolento
Levò la testa, e sovra i piè rizzosse.
5Le torbide pupille intorno mosse
Piene di meraviglia e di spavento;
E palpitando addimandò chi fosse
Quei che pendeva insanguinato e spento.
Come lo seppe, alla rugosa fronte
10Al crin canuto, ed alle guance smorte
Con la pentita man fè danni ed onte:
Poi volto lagrimoso alla consorte,
Ei gridò sì che rimbombonne il monte;
Io per te diedi al mio Signor la morte.
GIUSEPPE PARINI
morto
Quell’io che già con lungo amaro carme
Amor derisi e il suo regno polente;
E chiamai dietro me l’Itala gente.
Col mio riso maligno, ad ascoltarme;
5Or sento anch’io sotto l’indomite arme,
Fra la folla del popolo imminente,
Dietro le rote del gran carro lente
Dall’offeso tiranno strascinarme.
Ognuno per veder la infame multa.
10Corre, urta, grida al suo propinquo: È quei;
E il beffator comun beffa ed insulta.
Io scornato abbassando gli occhi rei,
Seguo il mio fato; e il mio nemico esulta —
Imparate a deridere gli Dei!
VITTORIO ALFIERI
morto
O cameretta, che già in te chiudesti
Quel grande alla cui fama è angusto il mondo.
Quel gentile d’amor mastro profondo
Per cui Laura ebbe in terra onor celesti;
5O di pensier soavemente mesti
Solitario ricovero giocondo!
Di che lagrime amare il petto inondo
Nel veder che ora inonorato resti!
Prezioso diaspro, agata, ed oro
10Foran debito fregio e appena degno
Di rivestir sì nobile tesoro.
Ma no: tomba fregiar d’uom ch’ebbe regno
Vuolsi; e por gemme ove disdice alloro:
Qui basta il nome di quel divo ingegno.
Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo
Di gente in gente; mi vedrai seduto
Su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
4Il fior de’ tuoi gentili anni caduto:
La madre or sol, suo dì tardo traendo,
Parla di me col tuo cenere muto:
Ma io deluse a voi le palme tendo;
8E se da lunge i miei tetti saluto,
Sento gli avversi Numi, e le secrete
Cure che al viver tuo furon tempesta;
11E prego anch’io nel tuo porto quiete:
Questo di tanta speme oggi mi resta!
Straniere genti, l’ossa mie rendete
14Allora al petto della madre mesta.
ALTRI SONETTI
DELLO
STESSO AUTORE
Col precedente Sonetto in morte d’un suo Fratello, il Foscolo compie la serie da lui riunita sotto il titolo — Vestigi della Storia del Sonetto Italiano — cui fa tosto succedere le Postille che bello ornamento arrecano alla sua fatica. Noi però stimiamo opportuno il riportarle alla fine de’ seguenti Sonetti, parte de’ quali furono dall’autore pubblicati nel 1803 colle liriche che in questa nostra edizione precedono i Sepolcri, e parte in altri tempi a quell’epoca assai posteriori. Ad ogni modo li raccogliamo qui in corpo come a luogo più conveniente, perchè più conforme all’ordine delle materie per noi stabilito.
I.
Perchè taccia il rumor di mia catena
Di lagrime, di speme e di amor vivo,
E di silenzio; chè pietà mi affrena
4Se con lei parlo, o di lei penso e scrivo.
Tu sol mi ascolti, o solitario rivo,
Ove ogni notte Amor seco mi mena,
Qui affido il pianto e i miei danni descrivo,
8Qui tutta verso del dolor la piena;
E narro come i grandi occhi ridenti
Arsero d’immortal raggio il mio core,
11Come la rosea bocca e i rilucenti
Odorati capelli, ed il candore
Delle divine membra, e i cari accenti
14M’insegnarono alfin pianger d’amore.
II.
Così gl’interi giorni in lungo, incerto
Sonno gemo! ma poi quando la bruna
Notte gli astri nel ciel chiama e la luna,
4E il freddo aer di mute ombre è coverto;
Dove selvoso è il piano più deserto,
Allor, lento io vagando, ad una ad una
Palpo le piaghe onde la rea fortuna,
8E amore e il mondo hanno il mio core aperto.
Stanco mi appoggio or al troncon d’un pino,
Ed or, prostrato ove strepitan l’onde,
11Con le speranze mie parlo e deliro.
Ma per te le mortali ire, e il destino
Spesso obbliando, a te, donna, io sospiro:
14Luce degli occhi miei chi mi t’asconde?
III.
Nè più mai toccherò le sacre sponde
Ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell’onde
4Del greco mar, da cui vergine nacque
Venere, e fea quelle isole feconde
Col suo primo sorriso, onde non tacque
Le tue limpide nubi e le tue fronde
8L’inclito verso di Colui che l’acque
Cantò fatali, ed il diverso esiglio
Per cui bello di fama e di sventura
11Baciò la sua petrosa Itaca Ulisse?
Tu non altro che il canto avrai del figlio,
O materna mia terra; a noi prescrisse
14Il fato illacrimata sepoltura.
IV.
Forse perchè della fatal quïete
Tu sei l’immago a me sì cara, vieni,
O Sera! E quando ti corteggian liete
4Le nubi estive e i zeffiri sereni,
E quando dal nevoso aere inquiete
Tenebre, e lunghe, all’universo meni,
Sempre scendi invocata, e le secrete
8Vie del mio cor soavemente tieni.
Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
Che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
11Questo reo tempo, e van con lui le torme
Delle cure, onde meco egli si strugge;
E mentre io guardo la tua pace, dorme
14Quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.
V.
Non son chi fui: perì di noi gran parte:
Questo che avanza è sol languore e pianto;
E secco è il mirto, e son le foglie sparte
4Del lauro, speme al giovenil mio canto;
Perchè dal dì ch’empia licenza e Marte
Vestivan me del lor sanguineo manto,
Cieca è la mente e guasto il core, ed arte
8L’umana strage arte è in me fatta, e vanto.
Che se pur sorge di morir consiglio,
A mia fiera ragion chiudon le porte
11Furor di gloria, e carità di figlio.
Tal di me schiavo, e d’altri, e della sorte,
Conosco il meglio ed al peggior mi appiglio,
14E so invocare, e non darmi la morte.
VI.
Meritamente, però ch’io potei
Abbandonarti, or grido alle frementi
Onde che batton l’alpi, e i pianti miei
4Sperdano sordi del Tirreno i venti.
Sperai, poichè mi han tratto uomini e Dei
In lungo esilio fra spergiure genti
Dal bel paese ove or meni sì rei,
8Me sospirando, i tuoi giorni fiorenti.
Sperai che il tempo, e i duri casi, e queste
Rupi ch’io varco anelando, e le eterne
11Ov’io qual fiera dormo atre foreste,
Sarien ristoro al mio cor sanguinente;
Ahi vota speme! Amor fra l’ombre inferne
14Seguirammi immortale, onnipotente.
VII.
Solcata ho fronte, occhi incavati intenti;
Crin fulvo, emunte guance, ardito aspetto;
Labbro tumido acceso, e tersi denti,
4Capo chino, bel collo, e largo petto;
Giuste membra, vestir semplice eletto;
Ratti i passi, i pensier, gli atti, gli accenti,
Sobrio, umano, leal, prodigo, schietto;
8Avverso al mondo, avversi a me gli eventi.
Talor di lingua, e spesso di man prode;
Mesto i più giorni e solo, ognor pensoso,
11Pronto, iracondo, inquieto, tenace:
Di vizi ricco e di virtù, do lode
Alla ragion, ma corro ove al cor piace:
14Morte sol mi darà fama e riposo.
VIII.
E tu ne’ carmi avrai perenne vita
Sponda che Arno saluta in suo cammino
Partendo la città che del latino
4Nome accogliea finor l’ombra fuggita.
Già dal tuo ponte all’onda impaurita
Il papale furore e il ghibellino
Mescean gran sangue, ove oggi al pellegrino
8Del fero vate la magion si addita.
Per me cara, felice, inclita riva
Ove sovente i piè leggiadri mosse
11Colei che vera al portamento Diva
In me volgeva sue luci beate,
Mentr’io sentia dai crin d’oro commosse
14Spirar ambrosia l’aure innamorate.
IX.
Pur tu copia versavi alma di canto
Su le mie labbra un tempo, Aonia Diva,
Quando de’ miei fiorenti anni fuggiva
4La stagion prima, e dietro erale inanto
Questa, che meco per la via del pianto
Scende di Lete ver la muta riva:
Non udito or t’invoco; ohimè! soltanto
8Una favilla del tuo spirto è viva.
E tu fuggisti in compagnia dell’ore,
O Dea! tu pur mi lasci alle pensose
11Membranze, e del futuro al timor cieco.
Però mi accorgo, e mel ridice amore,
Che mal ponno sfogar rade, operose
14Rime il dolor che deve albergar meco.
X.
Che stai? già il secol l’orma ultima lascia
Dove del tempo son le leggi rotte
Precipita, portando entro la notte
4Quattro tuoi lustri, e obblio freddo li fascia.
Che se vita è l’orror, l’ira, e l’ambascia,
Troppo hai del viver tuo l’ore prodotte;
Or meglio vivi, e con fatiche dotte
8A chi diratti antico esempi lascia.
Figlio infelice, e disperato amante,
E senza patria, a tutti aspro e a te stesso,
11Giovine d’anni e rugoso in sembiante,
Che stai? breve è la vita, e lunga è l’arte;
A chi altamente oprar non è concesso
14Fama tentino almen libere carte.
XI.
Era la notte; e sul funereo letto
Agonizzante il genitor vid’io
Tergersi gli occhi, e con pietoso aspetto
4Mirarmi e dirmi in suon languido: addio.
Quindi scordato ogni terreno obbietto
Erger la fronte, ed affissarsi in Dio;
Mentre disciolta il crin batteasi il petto
8La madre rispondendo al pianto mio.
Ei volte a noi le luci lacrimose,
Deh basti! disse e a la mal ferma palma
11Appoggiò il capo, tacque, e si nascose.
E tacque ognun: ma alfin spirata l’alma
Cessò il silenzio e a le strida amorose
14La notturna gemea terribil calma.
- ↑ Nelle molte chiose che l’autore fece a questo componimento ci si fa beffe senza pietà degli eruditi e de’ pedanti che chiama cicale pasciute non d’attica rugiada **, e nei quali ebbe da principio i più fieri avversari, dovendo loro naturalmente rincrescere un giovine che — «diceva inutile e vana ogni sapienza quando non è riscaldata dalla passione.... che se anche sanno tutto quello che trovasi nei mille volumi delle loro librerie, sono freddi e muti come le pagine su cui consumano la vita senz’altro desiderio fuor di quello di sentirsi proclamare eruditi»: — e fu per questo ch’essi lavorarono manibus pedibusque per iscoprire qualche sbaglio in questa versione, e grandemente esultarono al ritrovare un errore d’interpetrazione d’un verso di Ovidio, e gridarono tosto ch’ei non sapea di latino per vendicarsi di quello scherno o di quella usurpazione di mestiere che sembrava loro di scorgere in quel lavoro. Ad ogni modo se il nostro greco-italico-letterato trascorse oltre i giusti confini nel dispregio degli eruditi, quanto non si può a lui perdonare se per dileggiarli compose il dotto Commento alla chioma di Berenice.
** V. il Discorso sulla ragione poetica di Callimaco, tom. i, p. 189 di questa edizione. - ↑ Sino dal 1831 fu in Lugano pubblicato un volumetto col titolo di Poesie inedite di Ugo Foscolo. Non profittiamo noi d’alcuno di que’ giovanili componimenti per la nostra raccolta sì perchè in niun conto erano dall’autore tenuti, come può rilevarsi dalla precedente dedicatoria , e sì perchè invece di giovare alla fama di lui ed al progresso degli studi, potrebbero per avventura servire d’esca alla malevolenza ed all’invidia. — E qui ne piace avvertire che anche le liriche rimate che l’autore reputò non indegne del pubblico, e che noi riproduciamo accresciute di due altri inediti componimenti, derivano il loro pregio maggiore dalla passione, il qual pregio e abbastanza raro per compensarci di quello della dolcezza e dell’ornamento che qualche volta si lascia desiderare.
- ↑ Questo capitolo stampato non ha guari in Milano in un almanacco con qualche cangiamento, e attribuito a G. Baretti, noi lo abbiamo trovato unito alla cantata che segue, fra gli scritti del Foscolo colla data di Bellosguardo 15 Giugno 1813 e lo pubblichiamo perciò come cosa sua.
- ↑ Questa lettera (come fu già scritto) potrebbe anche oggidì ricevere qualche nuovo indirizzo nel bel paese o fuori, all’uscire di qualche nuovo giudizio sul merito di chi la dettò: e giacchè la maggior parte de’ giudizi che anche con penna dottissima ed esercitatissima si danno tuttavia in molte parti del mondo letterario sono giudizi da monsieur, si dubita se al Foscolo, che non ne ha punto l’aria, possa toccarne uno conveniente. E giova credere che tanto i letterati come gli scrittori de’ giornali saranno ben cauti nel pronunciare sentenza sopra di lui, ove considerino che quando si pose e in Italia e in Inghilterra a scrivere de’ giornali andò del paro co’ mi- migliori giornalisti particolarmente di quella nazione, che è quanto dire si allontanò più che mai dalle idee e dallo stile di un monsieur.
- ↑
“Qual fia ristoro a’ dì perduti un sasso
“Che distingua le mie dalle infinite
“Ossa che in terra e in mar semina morte?
S’ella avesse concepita la forza di questa frase, io non le desterei il rimorso d’aver calunniato d’arroganza l’autore, che nè qui, nè mai chiede un sasso distinto per se. - ↑ Nè qui l’autore parla di sè:
« Sol chi non lascia eredità d’affetti
« Poca gioia ha dell’urna; e se pur mira
« Dopo l’esequie, errar vede il suo spirto
« Fra ’l compianto de’ templi Acherontei,
« O ricovrarsi sotto le grandi ale
« Del perdono d’Iddio; ma la sua polve
« Lascia alle ortiche di deserta gleba
« Ove nè donna innamorata preghi
« Nè passeggier solingo oda il sospiro
«Che dal tumulo a noi manda natura. - ↑ Sarò obbligatissimo al sig. Guill... se m’indicherà i passi che l’autore ha di comune con Hervey, perch’io men acuto non seppi osservarli.
- ↑ S’ella prende per elegia una poesia lirica, la colpa non è dell’autore: nè Pindaro, perchè spesso pianga, o sferzi, sarà men lirico. E se in questi versi citati vi è satira nel pensiero, che trova ella di satirico nello stile? non tanto le cose, quanto i modi di esporle distinguono i generi di poesia: precetto non ignoto a lei uomo dottissimo, ma per l’inesperienza della nostra lingua non applicato a questo passo.
- ↑ Il Parini punge i nobili oziosi: se il Parini li ha emendati, l’autore è colpevole perchè siegue a pungerli.
- ↑ Pungeteli da per tutto.
- ↑ Non li alletta, perchè da qualche anno in qua gli evirati sono invecchiati. Nè tutti i cantori evirati denno ringraziare il norcino: la validità e la paura castrano l’ingegno e il cuore di molti altri; e la castrazione aiuta a ingrassare. Non è egli vero, monsieur Guill... ?
- ↑ Il Parini giace in uno de’ cimiteri nei quali si portano anche i cadaveri de’ giustiziati. — Ma la morte riconcilia tutti — No; la morte annienta ne’ sepolti il senso della virtù e de’ delitti. Ma i vivi che hanno anima e patria non si riconciliano mai col teschio di un malfattore che insanguina le reliquie, d’un nomo d’altissima mente e di santi costumi. Se non che forse la patria e l’anima non hanno a che fare ne’ giornali.
- ↑ Alla p. 48 not. 2 si vedrà quali fallimenti questo poema deve respirare.
- ↑ Questi versi hanno a che fare co’ morti come Virgilio ha a che fare con lei. Ella gli scrive come li trovò citati dal traduttore francese d’Hervey nel primo sermone. Li rilegga col contesto nelle Georgiche, lib. iv, vers. 86. Virgilio raccomanda al colono di dividere le api combattenti gittando nella mischia un pugno di polvere: così questi sdegni e queste battaglie represse da un po’di polvere si calmeranno. — Scriva Hi motus; non Hic motus; e quiescent non quiescit — perchè regalerebbe due solecismi a Virgilio che regala dei versi bellissimi a chi gl’intende.
- ↑ Il senso comune risponde: I morti si stanno in pace perchè son morti, e i vivi si fanno guerra perchè son vivi. Che se il buon pastore di Biddeford fosse disceso a visitar que’ cadaveri non li avrebbe per avventura trovati in tanta concordia. Milioni di esseri riprodotti dalle reliquie umane adempiono la legge universale della natura di distruggersi per riprodursi.
- ↑ Peccato che anche qui Latourneur non segni il luogo del verso ch’ei cita appiè della pagina terza d’Hervey! che ella non avrebbe fatto bello Orazio della vera filosofia e della vera sensibilità tutta propria de’ moderni scrittori. Non pareva ad Orazio che le ceneri de’tristi e de’ buoni fossero necessariamente confuse, bensì che la morte non perdonasse, ne a‘ vecchi nè a‘ giovani: il verso è nel lib. I, oda 28, ov’ella vedrà che funus non vuol dir cinis.
- ↑ Umane belve: prima del patto sociale gli uomini vivevano nello stato ferino; espressione disappassionala il G.B. Vico, e di tuttii gli scrittori di jus naturale. E s’ella, monsieur Guill..., volesse recare le sue cognizioni a quei selvaggi che non hanno nè are, nè connubii, nè leggi, s’accorgerebbe s’ei sono belve.
- ↑ È dunque ghiribizzo il dire che il patto sociale ammansò il genere umano; che la sepoltura sottrasse i morti dalle fiere, e i vivi dal contagio; e che gli avanzi dell’uomo si riproducono con altra vita e sott’altre forme? Ella non ha capilo nè una sola parola.
- ↑ L’autore incolpato d’oscurità rispose: Doversi l’oscurità apporre parte a chi legge, e parte a chi scrive; però egli si pigliava la metà della colpa. Ma sapendo che l’ignoranza non vuole arrendersi colpevole in nulla, tentò di provvederle con alcune note, e citò a pag. 26 questo verso
Veridicos Parcae coeperut edere cantus.
Catullo epital: di Tetide ver. 306.
Ed avrebbe anche citalo Tibullo, Platone, ed Omero s’ei non avesse ba iato più alla intelligenza del passo che alla boria d’erudizione. Ma che dirò io di quest’accusa? Ch’ella non sa di latino? sarei maligno, perch’io la crederei impostore. — Ch’ella dissimula la nota? sarei più maligno, perchè la crederei calunniatore. — Ch’ella non ha letto tutto il libro? mi appiglio a questa congettura come la più discreta; ed è convalidata dall’argomento che chi giudica senza intendere può anche giudicar senza leggere.
- ↑ Ma nel carme non si parla della tomba d’Achille nè di Patroclo; bensì in una nota per incidenza.
- ↑ Per censurare i mezzi d’un libro bisogna saperne lo scopo. Young ed Hervey meditarono sui sepolcri da cristiani: i lor libri hanno per iscopo la rassegnazione alla morte e il conforto d’un’altra vita; ed a’ predicatori protestanti bastavano le tombe de’ protestanti. Gray scrisse da filosofo: la sua elegia ha per iscopo di persuadere l’oscurità dilla vita, e la tranquillità della morte; quindi gli basta un cimiterio campestre. L’autore considera i sepolcri politicamente, ed ha per iscopo di animare l’emulazione politica degl’italiani con gli esempi delle nazioni che onorano la memoria e i sepolcri degli uomini grandi: però dovea viaggiare più di Young, d’Hervey e di Gray, e predicare non la resurrezione de’ corpi, ma delle virtù.
- ↑ Omero nel carme non va su le sepolture de’ Greci, ma de’ principi Troiani.
- ↑ Vegga a pag. 53 di questo II. vol.
- ↑ Quello sommamente è sublime che dà molto da pensare. Longino, sez. vii.
- ↑ Il ritmo armonioso e studiato disdice al sublime. Sez. xli.
- ↑ Sez. xii
- ↑ Lucrezio, lib. iii, 85.
- ↑ Terenzio, Eunuco Att. iii, Sc. 5. Ed Ennio presso Varone de l. i, lib. vi.
- ↑ Odissea, lib. xiv. 369.
- ↑ Virgilio, Eneid. lib. iii, 62. ibid. 305; lib. vi, 177.
- ↑ Apuleio, de Deo Socratis.
ARA SEPULCRI. - ↑ Persio, Sat. i, 38.
- ↑ Tibullo, lib. ii, eleg. viii.
- ↑ Ecclesiastici, cap. xlix, i.
- ↑ Iscrizioni antiche illustrate dall’abate Gaetano Marini p. 184.
- ↑ Ercole Silva, Arte de’ giardini inglesi p. 327.
- ↑ Platone, nel Convito, e Teocrito, Epigram. xiii.
- ↑ Pausania, Viaggio nell’Attica, c. xxxii.
- ↑ Catullo, Nozze di Tetide vers. 306.
- ↑ Iliade, lib. vii, 86.
- ↑ Odissea, lib. xxiv, 76 e seg.
- ↑ Analecta veterum Poetarum, editore Brunch, vo. iii, Epigram. anonimo cccxc.
- ↑ Pausania, Viaggio nell’Attica, cap. xxxv.
- ↑ Le Chevalier, Voyage dans la Troade, seconda edizione. — Notizie d’un viaggio a Costantinopoli dell’ambasciadore inglese Liston, di M. Hawhins, e del D. Dallaway.
- ↑ Lo scoliaste antico di Licofrone al verso 19. - Apollodoro, Bibliot. lib. iii, cap. 12.
- ↑ Eneide, lib. viii, 134. Fasti, lib. iv, 31.
- ↑ Virgilio Eneide lib. iii, 65.
- ↑ Idem, lib, ii, 246.
- ↑ Iliade, lib. xi, 166.
- ↑ Versi d’Alessandro Manzoni in morte di Carlo Imbonati.
- ↑ Pindaro, Istmica v. epod. 2.
- ↑ Iliade, lib. viii, 189.