Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799/Frammenti di lettere dirette a Vincenzio Russo/Frammento III

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Frammenti di lettere dirette a Vincenzio Russo - Frammento II Frammenti di lettere dirette a Vincenzio Russo - Frammento IV

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FRAMMENTO III

POTERE ESECUTIVO


II potere esecutivo di Pagano è Io stesso che il potere esecutivo francese. Che in Napoli si chiami «arcontato» anziché «direttorio», che la durata sia di due anni e non di cinque, differenze son queste, le quali non meritano veruna attenzione.

Si è pensato, come Rousseau, che i dittatori non abusarono del potere loro confidato, sol perché l’ebbero per sei mesi: se lo avessero avuto per due anni, sarebbero stati tentati a perpetuarvisi. Ma questa brevitá di tempo porta seco poca istruzione negli affari ed un cangiamento troppo sollecito di massime e di princípi, che io credo sempre funesto a tutte le repubbliche.

La nazione napolitana non offre per il potere esecutivo una forma nazionale. Questo potere è il piú indocile di tutti, e la sua organizzazione si è creduta sempre la piú diffícile parte di una costituzione. Ma io, senza pretendere di diminuire tale difficoltá, ti dirò che essa è divenuta maggiore da che si son volute travagliar delle costituzioni sul tavolino, obbliando gli uomini; e quindi ne è avvenuto che siesi perduta la vera cognizione delle cose e della loro importanza. Si sono separate quelle cose che non si doveano separare, e son cresciute le difficoltá di ben ordinare il potere esecutivo da che si son trascurati gli altri poteri, de’ quali l’esecutivo non era che un risultato. Forse non siamo stati mai tanto lontani dalla vera scienza della legislazione quanto lo siamo adesso, che crediamo di averne conosciuti i princípi piú sublimi.

Vuoi tu una prova di quello che io ti dico? Prendi qualunque costituzione delle tante che gli uomini hanno avute finora, ed indicamene una sola che i nostri filosofi non dicano di essere cattiva. Intanto le nazioni che le aveano ne erano contente, e sono state felici e grandi per quelle costituzioni appunto che [p. 242 modifica]noi tanto biasimiamo. Temo molto che, volendo fare una costituzione che piaccia ai filosofi, non si produca la desolazione de’ popoli.

Io distínguo in ogni forma di governo il diritto dall’esercizio del diritto. L’oggetto del diritto è la felicitá pubblica, ma essa non si ottiene se non esercitando i diritti. La costituzione piú giusta è quella in cui ciascuno conserva i diritti suoi; ma quella sola costituzione, in cui l’esercizio di questi diritti produce la felicitá, merita il nome di costituzione regolare.

È facile rimontare all’origine, analizzar la natura del contratto sociale, far la dichiarazione de’ diritti dell’uomo e del cittadino; ma far che l’uomo, non sempre saggio e di rado giusto, non abusi de’ diritti suoi, o ne usi sol quanto richiegga la felicitá comune, hoc opus hic labor. Quindi io reputo quasiché inutili tutte le ricerche che si fanno per sapere qual sia il piú giusto de’ governi; non ne troveremo allora nessuno: contentiamoci di sapere qual sia il piú regolare. Spesso noi perdiamo il governo regolare per voler cercare il giusto.

I1 governo democratico (tu intendi bene che il nostro non è tale) potrá forse essere il piú giusto, ma non può esser regolare se non dove il popolo sia saggio; il monarchico potrá non esser giusto, ma, ogni volta che il monarca sia saggio, è sempre regolare. Ma un sovrano saggio sul trono è meno raro di un popolo saggio ne’ comizi.

I piú regolari de’ governi, dice Aristotile, sono quelli dove gli ottimi governano; io vi aggiugnerei quello dove coloro che governano sono ottimi. Or, siccome il principio corruttore di ogni governo è l’amor di se stesso, che può sull’uomo piú dell’amor della patria; cosí, quando ti riesca estinguere questo amor di se stesso, farai che gli ottimi governino; quando, non potendo estinguerlo, ti riesca impedirne gli effetti, farai sí che quei che governano siano ottimi. Dall’uomo non conviene sperar tanto per la volontá che egli abbia di fare il bene, quanto per l’impotenza in cui sia di far il male. Ogni volta che l’uomo potrá fare una legge a suo vantaggio e potrá farla eseguire, sii pur certo che la fará ad onta di tutte le considerazioni di pubblico bene. [p. 243 modifica]

Che farai tu per riparare a questo inconveniente? Dividerai i poteri? Non basta. Tra questi poteri ve n’è uno, il quale è sempre piú forte degli altri, ed o presto o tardi opprimerá i piú deboli. Se tu non dividi le forze, non avrai fatto nulla. Quando Dionisio aspirava alla tirannide e, fingendo timori per la sua vita, chiedeva al popolo di Siracusa una guardia, i siracusani non si perdettero dietro inutili distinzioni di potere, ma risposero: — Noi accorderemo una guardia a te per difenderti dal popolo, ed un’altra ne riterremo noi per difendere il popolo da te. — Non ti pare che i siracusani intendessero meglio di noi i princípi di libertá?

La costituzione inglese si è occupata molto della divisione delle forze, ed è stata su tale oggetto piú scrupolosa che sulla divisione dei poteri; piú della costituzione inglese se ne è occupata quella di Svezia e l’americana; ed in Francia stessa piú delle altre costituzioni vi è stata attenta la prima. Ma questa divisione di forze dipende dalle circostanze politiche di una nazione; e bene spesso lo stato delle cose ed il corso degli avvenimenti vincono la prudenza dell’uomo: cosicché, volendo troppo dividere la forza armata, si corre rischio d’indebolirla soverchio, e sacrificare cosí alla libertá della costituzione l’indipendenza della nazione.

Ogni nazione ha bisogno di una data somma di forza e di un dato grado di energia nella sua forza per mantenere la tranquillitá interna e la sicurezza esterna; e questo bisogno è minore o maggiore, secondo lo stato politico della nazione. In Inghilterra potrete, per esempio, diminuir l’influenza del potere esecutivo sulla forza di terra, e cosí diminuir l’energia di questa forza, perché poco è il bisogno che ne ha la nazione; grandissima al contrario è l’influenza del potere esecutivo sulla forza marittima, grandissima è l’energia di questa forza, perché grandissimo è il bisogno che ha della medesima una societá isolare. Ordinate in Francia la forza di terra nel modo istesso in cui è ordinata in Inghilterra: che farete voi? Rovinerebbe la Francia, come rovinerebbe l’Inghilterra, se volesse estendere alla forza di mare quegli ordini che ha per la forza di terra. [p. 244 modifica]

Quale stranezza è mai quella di credere che si possa diminuire la forza di uno Stato! Se uno Stato ha bisogno di poche forze, le sue forze saran piccole; ma non ti lusingare di potere impunemente diminuir quella forza di cui la nazione ha bisogno. Che se tu vorrai dividerla, io ti dimando: quella parte di forza, che togli al potere esecutivo e commetti ad un altro potere, rimarrá inoperosa o sará attiva? Nel primo caso ti viene a mancare la forza necessaria alla conservazione dello Stato; nel secondo tu non farai che un giuoco di parole, poiché ogni potere che dispone della forza io lo chiamo «potere esecutivo».

Ecco la differenza tra i legislatori antichi e moderni. Non mai quelli si avvisarono d’indebolire i poteri, perché si avvidero che l’indebolimento potea solo impedire il bene: essi avrebbero conservata sempre tanta forza da fare il male. Se il potere esecutivo non avrá tanta forza da difendere le frontiere, ne avrá però sempre tanta da circondare, da opprimere un collegio elettorale. Invece dunque d’indebolire i poteri, essi li rendevano piú energici, e cosí, essendo tutti egualmente energici, venivano a bilanciarsi a vicenda.

Ma, se la forza armata di una nazione deve assolutamente dipendere dal potere esecutivo, vi sono tante altre forze, meno pericolose, ma non meno difficili a superarsi, che si possono mettere in guardia dagli altri poteri; ed in questa ripartizione appunto di forza e di opinione consiste tutto il mirabile delle grandi legislazioni. I costumi de’ maggiori, il rispetto per la religione, i pregiudizi istessi dei popoli servon talora a frenare i capricci dei piú terribili despoti, anche quando al potere esecutivo sia riunito il legislativo: quali vantaggi non se ne potrieno sperare ove i poteri fossero divisi?

Non so se tu hai paragonato mai il dispotismo di un sultano di Costantinopoli con quello di un imperatore di Roma. Di questo paragone io mi sono piú volte occupato. Non ti dirò giá con Linguet che in Costantinopoli vi sia piú libertá che non eravene in Parigi sotto Luigi decimoquinto, ma ardisco dirti però che, dovendo scegliere, avrei amato meglio vivere in Costantinopoli che in Roma. Il dispotismo turco è piú feroce, ma meno [p. 245 modifica]crudele, piú terribile ai greci che ai turchi; se le tue ricchezze non tentano la rapacitá di un bassá, se il tuo grado non offende la gelosia di un visir, tu vivrai tranquillo, come i piccoli arboscelli che sono tranquilli in mezzo al vortice della tempesta, che schianta ed atterra le eterne querce ed i superbi pini della montagna. Una parte di te stesso almeno è sicura. La tua opinione, la tua moglie, la sicurezza della tua persona sono sempre sicure: tu vedrai mille volte il despota arrestarsi e rompere le sue intraprese in faccia al pubblico costume, alla religione, agli usi tuoi, i quali son tanto cari al popolo, che non potrebbe il despota offenderli senza concitar contro di sé l’odio del popolo intero, sempre piú potente de’ giannizzeri suoi. Pare che i discendenti di Osmano si sien transatti coi seguaci loro, e, mentre si han riserbato il diritto di poter fare moltissimo, molto ancora han dichiarato di non poter fare. Ma in Roma qual era quella cosa che salva rimanesse dal furore dei Cesari? Cesare era tutto; egli censore, egli pontefice, egli augure, egli tribuno, egli console; l’opinione pubblica, la religione, il costume, i riti, i diritti, tutto era nelle sue mani, e nulla rimaneva in guardia del popolo. Questa differenza tra i diversi generi di dispotismo non mi pare che siesi avvertita abbastanza: il primo dispotismo è quello di una nazione ancora barbara, il secondo delle corrotte; il primo è il dispotismo della forza, il secondo è il dispotismo della legge.

A questo secondo dispotismo si corre, quando per soverchio amore di regolaritá si vogliono tôrre al popolo tutt’i suoi costumi, tutte le sue opinioni, tutti gli usi suoi, i quali io chiamerei «base di una costituzione». Questa base deve poggiare sul carattere della nazione, deve precedere la costituzione; e mentre con questa si determina il modo in cui una nazione debba esercitare la sua sovranitá, vi debbono esser molte cose piú sacre della costituzione istessa, che il sovrano, qualunque sia, non deve poter alterare. I popoli dal dispotismo barbaro (che con linguaggio di Aristotile chiamar si potrebbe «eroico»), in cui il despota può molto, perché non ha altro freno che il solo carattere nazionale, o sia la sola base di una costituzione, passano allo stato di [p. 246 modifica]governo regolare, in cui le leggi frenano il soverchio arbitrio che lasciavano i soli costumi. Ma, se un despota s’impadronisce delle leggi o, ciò che val lo stesso, se ne usurpa l’apparenza, allora si cade nel dispotismo dei popoli corrotti, che Aristotile chiamerebbe (panbasilios).

È pericoloso estendere soverchio l’impero delle stesse leggi, perché allora esse rimangono senza difesa. Le leggi da per loro stesse son mute: la difesa la dovrebbe fare il popolo; ma il popolo non intende le leggi, e solo difende le sue opinioni ed i costumi suoi. Questo è il pericolo che io temo, quando veggo costituzioni troppo filosofiche, e perciò senza base, perché troppo lontane dai sensi e dai costumi del popolo.

Tutto dunque in una nazione deve formar parte della costituzione. Questa è la ragione per cui tanto difficile è il farne una nuova, e tanto pericoloso il cangiarne una antica. Io non saprei condannare la soverchia severitá di Zeleuco: quante volte noi crediamo utile una novitá, che è solamente pericolosa!

Dopo le sue opinioni ed i suoi costumi, il popolo nulla ha di piú caro che le apparenze della regolaritá e dell’ordine. Quelle leggi sono piú rispettate dal popolo, che con maggiori solennitá esterne colpiscono i sensi. Vuoi tu che un popolo sia attaccato alla legge? Devi fare in modo che non si possa ingannare giammai sulla natura della medesima, che non possa cadere in errore tra le operazioni del governo e le risoluzioni del sovrano. Cosí l’attaccamento alla solennitá della legge difenderá la sua costituzione.

Questa solennitá della legge si può portare a tal grado di evidenza, da render legittima e senza pericolo finanche l’insurrezione contro gli ordini del governo: niun inconveniente infatti essa produceva presso i cretesi, le leggi dei quali serviron di modello a Licurgo. Montesquieu, ricercando le ragioni di tale fenomeno, per seguir le astruse e frivole, si lasciò sfuggir le facili e vere. Come mai obbliò Montesquieu che la costituzione inglese avea quasi quell’istesso che si ammirava nella cretese? Ma noi molte volte, per spiegare un fenomeno, incominciamo dal crederlo un miracolo. [p. 247 modifica]

In Francia si volle stabilire per massima costituzionale l’insurrezione. Ma, senza quelle circostanze che l’accompagnavano e che la dirigevano in Creta, essa non avrebbe potuto produrre altro che la guerra civile. Per buona sorte della Francia questa massima fu guillottinata con Robespierre. I francesi aveano fondata la loro costituzione sopra princípi troppo astrusi, dai quali il popolo non può discendere alle cose sensibili se non per mezzo di un sillogismo; e quando siamo a sillogismo, allora non vi è piú uniformitá di opinioni e non si potrá sperare regolaritá di operazioni. Il popolo vede i fatti ed abusa dei princípi. Filangieri accusa i romani di uno smoderato amore di particolarizzare, che essi mostrano in tutte le loro leggi; e non si avvede che su di esso era fondata la loro libertá. La costituzione romana era sensibile, viva, parlante. Un romano si avvedeva di ogni infrazione dei suoi diritti, come un inglese si avvede delle infrazioni della Gran carta. Invece di questa, immagina per poco che gl’inglesi avessero avuto la Dichiarazione dei diritti dell’ uomo e del cittadino: essi allora non avrebbero avuto la bussola che loro ha servito di guida in tutte le loro rivoluzioni. I romani eccedettero nella smania di voler particolarizzar tutto, per cui negli ultimi tempi formarono dei loro diritti un peso di molti cameli. Ma, mentre conosciamo i loro errori, evitiamo anche gli eccessi contrari, e teniamoci quanto meno possiamo lontani dai sensi. Se la moltiplicitá dei dettagli forma un bosco troppo folto, nel quale si smarrisce il sentiero, i princípi troppo sublimi e troppo universali rassomigliano le cime altissime dei monti, donde piú non si riconoscono gli oggetti sottoposti.

Dopo che avrete divisi i poteri, assodata la base della costituzione e fortificata la legge coll’opinione e colle solennitá esterne, per frenare la forza vi resta ancora a dividere gl’interessi. Fate che il potere di uno non si possa estendere senza offendere il potere di un altro; non fate che tutt’i poteri si ottenghino e si conservino nello stesso modo; talune magistrature perpetue, talune elezioni a sorte, talune promozioni fatte dalla legge, cosicché un uomo, che siasi ben condotto in una carica, sia sicuro di ottenerne una migliore senza aver bisogno del favor [p. 248 modifica]di nessuno; tutte queste varietá, lungi dal distruggere la libertá, ne sono anzi il piú fermo sostegno, perché cosí tutti i possidenti, e coloro che sperano, temono un rovescio di costituzione, che sarebbe contrario ai loro interessi. Per questa ragione negli ultimi anni della repubblica romana il senato ed i patrizi furono sempre per la costituzione.

Talora, moltiplicando i modi delle elezioni, se ne trovano taluni, che sono piú ragionevoli e conducono ad elezioni migliori. È giusto che il popolo, per esempio, elegga i suoi giudici; ma, quando avrá scelti i giudici dipartimentali, mi piacerebbe che costoro fra il loro numero scegliessero colui che debba sedere nel tribunale supremo di cassazione. Il popolo è il giudice dei buoni, ma solo i buoni possono esser giudici degli ottimi.

Molte volte quelle parti di una costituzione, che, guardate isolatamente, sembrano difettose, nell’insieme producono un ottimo effetto; come molte volte due veleni riuniti cessano di esser nocivi. In Roma i tribuni aveano un potere troppo esteso, perché potevano opporsi non solo agli atti del senato che fossero anticostituzionali, ma anche a quelli che essi credessero contrari al pubblico bene: cosí molte volte non solo frenavano il potere esecutivo, ma lo distruggevano. Ma il senato dall’altra parte avea anche esso un potere immenso, che ben poteva misurarsi con quello dei tribuni; e questi poteri, che erano forse ambedue eccedenti, continuando ad essere proporzionati tra loro, non producevano giammai la distruzione, ma solo una gara, la quale si convertiva in vantaggio della nazione: ciascuno dei partiti, per vincere l’altro, dovea trarre il popolo a sé, e non poteva farlo se non offerendogli vantaggi maggiori dell’altro.

Molte massime, di quelle che noi crediamo assiomi delle scienze politiche, mi sembrano inesatte; onde avvien poi che esse non si trovano sempre vere in pratica. Si è calcolato, per esempio, il potere che si può affidare ad una persona, e non si è avuto riguardo alla sicurezza del potere; anzi si è voluto diminuir la sicurezza (e sotto nome di «sicurezza» s’intende anche la durata) a proporzione che si è accresciuto il potere. Ma non si è riflettuto che il soverchio potere, quando è piú sicuro, è anche [p. 249 modifica]piú umano, e che per renderlo feroce basta renderlo incerto e sospettoso. Senza i necessari temperamenti, si è voluto riunire il soverchio potere colla breve durata e coll’elezione; si è fomentata l’ambizione ed il sospetto, ed invece della libertá si è ottenuta la guerra civile.

Si è creduto che il potere esecutivo diminuisca di forza in ragione che cresce il numero delle persone alle quali è affidato; e tutta l’opera dei nostri filosofi è stata quella di determinare il numero degl’individui dei quali debba comporsi un dato governo, per una data nazione, onde non sia né languido né troppo attivo. Il numero impedisce l’usurpazione, che è l’ultimo grado di attivitá; l’unitá impedisce la debolezza, che porta seco la dissoluzione e la morte politica della nazione. Ma i romani, immaginando un senato cui davano per ministro un consolo, aveano ordinato un potere che riuniva il numero e l’unitá, che avea tutta la maturitá nella discussione e tutta l’attivitá nell’esecuzione: l’interesse particolare del consolo animava la lentezza del senato, l’interesse del senato dirigeva l’attivitá del consolo, ed il popolo, tra ’l consolo ed il senato, godeva gli effetti dell’energia del governo senza temere per la sua sicurezza.

Quando si è ricercata la proporzione tra il numero delle persone e l’attivitá, non si è avvertito che il potere esecutivo ha due parti distintissime tra di loro. Dopo che si sará determinato ciò che si debba fare, prima di farlo convien discutere come far si debba. La prima operazione appartiene al potere legislativo; le altre due sono del potere esecutivo. Ma di esse i scrittori hanno obbliata la prima: o l’hanno confusa colle funzioni del potere legislativo, ed hanno distrutto il potere esecutivo; o l’hanno confusa colla stessa esecuzione, e lo hanno disorganizzato.

Difficile è il giudizio delle costituzioni, e spesso quel che noi crediamo un male produce un bene. Quando tu per soverchio amore di regolaritá togli ogni forza all’opinione, rendi tutte le elezioni uniformi, limiti allo stesso tempo la durata di ogni magistratura; allora priverai il popolo di ogni difesa: la costituzione non avrá piú base. Invece di dividere gl’interessi privati, li riunirai, perché tutti ne avranno un solo, quale è quello [p. 250 modifica]di perpetuarsi nelle cariche, e non vi potranno pervenire che per le stesse strade: tutti saranno concordi ad opprimere il popolo... Un re ereditario, dice Mably, parlando della costituzione della Svezia, quando non ad altro, serve a togliere agli altri l’ambizione di esserlo; ed io credo la monarchia temperata meno di quel che si pensa nemica degli ordini liberi. Nel silenzio del tuo gabinetto tu applaudirai a te stesso; ma i saggi rideranno della tua vanitá, e la tua costituzione, rovesciata dopo tre anni, sará una fiaccola ridotta in cenere, ludibrio di quegli stessi fanciulli, che un momento prima applaudivano al suo passaggiero splendore...