Saggi critici/«Clelia o la Plutomania». Commedia in tre atti dell'attore G. Gattinelli

«Clelia o la Plutomania». Commedia in tre atti dell'attore G. Gattinelli

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«Clelia o la Plutomania». Commedia in tre atti dell'attore G. Gattinelli
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«CLELIA O LA PLUTOMANIA»

Commedia in tre atti dell’attore G. Gattinelli.


Finora dei lavori drammatici pel concorso del 1856 non è stato rappresentato, nel teatro Carignano, che una commedia del Gattinelli, intitolata: Clelia o la Plutomania.

Vittorio e Clelia si sposano contro il volere de’ loro genitori. Dopo alcun tempo, Clelia, resa giá madre, è abbandonata dal marito, che si dá a vita licenziosa e dissipata, ed è scacciato dalla casa paterna. La giovane, preso il nome della madre e spacciatasi per vedova, facendo lezioni di musica, provvede alla propria ed alla educazione della figliuola; sicché, in poco tempo, di rozza ed incolta che era, diviene una compitissima signora. Accolta in casa del suocero, come maestra, e saputolo innamorato di sé, maneggiasi cosí destramente, che corregge il marito e lo riconcilia col padre.

A quest’azione se ne annoda un’altra. Il suocero, Maurizio Arpioni, è un plutomaniaco, un giuocatore alla Borsa. Mosso da sete di guadagno, cumula speculazioni sopra speculazioni, e, quando crede di aver rovinato il suo concorrente, Andrea Casani, si trova di aver rovinato il proprio figlio. Clelia, che è il «Deus ex machina» di questa commedia, si vale del potere che ha sul suo cuore per emendarlo.

Quasi queste due azioni non bastino, l’autore ve ne aggiunge alcune altre accessorie: l’amore tra Agata e Luigi [p. 305 modifica]Ardenti, l’amore tra Emanuele poeta drammatico e Vittorina figlia di Clelia, l’amore tra Antonio e Giustina; e i tre amori riescono, secondo il solito, in tre matrimonii. Dimenticavo una vecchia, che la fa da giovine e cerca marito.

Di questi fatti incidentali toccheremo appresso. Parliamo ora delle due azioni principali. Quantunque ugualmente importanti, e distinte di scopo e di contenuto pure non costituiscono un dualismo vizioso, avendo la loro unitá in Clelia, nella quale le due azioni, che camminano parallelamente l’una accanto all’altra, s’incontrano e si riuniscono. In effetto, Clelia persegue un doppio fine con lo stesso mezzo, valendosi dell’amore che il suocero le porta per conseguire la sua emendazione sotto il doppio rispetto di padre e di uomo. Aggiungerò che Maurizio non è un cattivo padre per durezza di cuore, per mala natura, ma principalmente per avarizia, increscendogli che il figlio «disperdesse il suo danaro», come dice il Gattinelli; sicché la sua riconciliazione col figlio è giá un passo alla sua emendazione: le due azioni cosí s’implicano e si suppongono a vicenda.

Ma se la concezione si può giustificare, può dirsi il medesimo della esecuzione? Sono due azioni tutte e due principali, che procedono di fronte; che naturalmente s’intoppano, s’intricano, si nuocono a vicenda: che frastagliano, dividono e quindi indeboliscono l’interesse. Si richiedea la grande perizia che il Gattinelli ha della scena per vincere questa difficoltá. E l’ha vinta.

Nel primo atto sono le due azioni intrecciate molto abilmente, si che vedete spiegarvisi innanzi a poco a poco le sparse fila di tutto l’ordito. Né ci volea meno di questa lunga preparazione, di questo lunghissimo primo atto, per gittare un po’ di luce in un intrigo cosí complicato. Il quale scopo l’autore ha saputo conseguire senza il tedio de’ racconti, mostrandoci gli antecedenti e i caratteri dei personaggi e lo stato presente delle cose, base della favola, per via di brevi dialoghi e d’incidenti e d’incontri collegati naturalmente. Poi, delle due azioni, l’una è per lo piú rappresentata, l’altra per lo piú narrata: l’una [p. 306 modifica]ha luogo sotto l’occhio dello spettatore, l’altra fuor della scena; l’una in casa, l’altra in citta. La qual disposizione è naturale; essendo il luogo della scena la casa di Maurizio, a cui mettono capo i due intrighi: sicché ciò che si fa in famiglia noi lo vediamo, ed i personaggi che vengono e vanno ci fan conoscere l’altra azione che ha luogo al di fuori. Con quest’abile disposizione le due azioni non s’impediscono, non si urtano, non istancano l’attenzione. Anzi l’autore dal concorso delle due azioni ha cavato i piú belli effetti della sua commedia; poiché, non essendo costretto a rappresentare quello che avviene fuori della scena, ma a farcene sapere l’essenziale per via di notizie, che se ne danno da quelli che vengono, nasce spesso un contrasto comico tra quello che si dice in casa e quello che si fa al di fuori; e cosí, mentre Maurizio fa il sentimentale con Clelia, lo vedete tutto a un tratto piantarla, sapendo che ci è danaro a riscuotere.

E che la difficolta sia stata vinta, si può anche inferire dall’impressione; poiché non mi pare che la commedia abbia generata in nessun punto stanchezza o disattenzione o esitazione negli spettatori, che in mezzo ad un nugolo d’incidenti non hanno mai perduto il filo degli avvenimenti. Ho a dir tanto male della commedia, che ben mi si perdonerá di essermi alquanto indugiato sopra questa parte buona.

Nel giudizio de’ lavori d’arte non soglio mai attenermi alle nude regole, che spesso creano un gusto artificiale. Non sono di quelli che innanzi a’ casi di Olindo e Sofronia corrono subito con l’animo al paragrafo tale di Aristotile, o innanzi al suicidio di Bruto si domandano se è classico o romantico: simili a quei medici che alla vista di strazianti dolori stannosi senza batter palpebra, dicendo in cuor loro: — Ecco un bel caso da studiare. — Amo la scienza, ma a patto che l’uomo vi si conservi vivo al di sotto; pregio la critica, ma a patto che non falsi o distrugga l’ingenuitá de’ miei sentimenti. Quando sono al teatro, io voglio godere, e mi c’illudo, e mi abbandono alle mie impressioni come l’ultimo del volgo; tanto che, se alcuno mi domanda allora del mio giudizio, io ho dimenticato Aristotile [p. 307 modifica]ed Hegel e Gioberti e tutta la mia scienza, e sto 11 confuso ed impacciato, incapace di rispondere altro, se non che: — Ho riso; ho pianto. — Vuoi tu, o critico, giudicare bene? Conserva questa facoltá preziosa, conservati uomo; e guardati soprattutto dalle tue teoriche, che, scisse dal sentimento, sono vuote e morte astrazioni.

La scienza critica è fondata sulla veritá e freschezza delle prime impressioni, che tu devi riandare ed esaminare diligentemente. Siccome la poetica non può tener luogo del genio, cosí la critica non può tener luogo del gusto; ed il gusto è il genio del critico. Si dice che il poeta nasce; anche il critico nasce; anche nel critico ci è una parte geniale, che gli dee dar la natura.

Nella Clelia ci sono alcune parti patetiche, ma la Ristori (Clelia), il Boccomini (Vittorio) ed il Gattinelli (Maurizio) hanno pianto soli e troppo; noi ci siamo rimasi indifferenti. Al contrario, si è riso dall’un capo all’altro; né ci è stato un solo momento che si sia sentito noia o stanchezza, salvo nelle parti serie. Certo, vi sono stati alcuni visi arcigni, alcuni uomini severi, ne’ quali certi motti, che faceano ridere attorno, generavano disgusto; i quali aggrottavano le ciglia e gridavano — oh! oh!,— a gran dispetto di Bellotti Bon, messo in terzo a far ridere, quando la Ristori e Boccomini aveano voglia di piangere. Sono dissonanze incidentali e perdonabili; ma la commedia, nel suo insieme, è stata udita con diletto, ed ha prodotto alcune volte una certa espansione di allegria.

Tale è l’impressione. Io posso ora raccogliermi in me stesso: riflettermi su di essa e determinarne il valore. Mi son subito domandato, se l’impressione prodotta sul pubblico avèa un carattere estetico. Mi spiego. Si è riso. Ma anche il saltimbanco fa ridere; anche tanti melensi in tante conversazioni; anche le scimmie fanno ridere co’ loro attucci, con le loro boccacce. Perché dal riso si possa inferire la bontá di un lavoro comico, è mestieri che il riso esprima la soddisfazione della nostra facoltá artistica, o, in altre parole, che abbia un valore estetico: che svegli la nostra immaginazione e la renda operosa. [p. 308 modifica]Certo, il poeta si può indirizzare a’ sensi, al cuore, alla mente, non però come ultimo scopo, ma come via a giungere fino all’immaginazione. Vi sono, per esempio, de’ poeti, che credono di aver fatto tutto, quando sono giunti fino al pianto; ma vi è anche un pianto inestetico, come il pianto della Ristori nel terzo atto, dove il pubblico rimane indifferente, perché la sua immaginazione rimane oziosa. Victor Hugo capita alcuna volta in questo difetto. Porta tanto lungi il patetico, che il cuore usurpa il luogo a tutte le altre facoltá. Il poeta dee aver cuore, ma non si che turbi ed inaridisca la fantasia: le Muse sono fanciulle serene, che convertono i pensieri e i sentimenti in immagini. Non è artistico il tuo pensiero, quando m’invoglia a meditare e non a fantasticare. Non è estetico il tuo pianto, quando mi strazia senza scaldarmi. Non è poetico il tuo riso, quando la bocca ride e la fantasia dorme. Una sciabolata ti può far piangere di dolore, ma quel pianto non ha niente di estetico: parte dal senso e rimane nel senso. Al contrario, se tu piangi per paura, l’arte vi può aver luogo, poiché la tua fantasia è turbata da mille immagini ingrandite del pericolo che ti sta sopra, e queste immagini si riflettono e si riproducono negli spettatori: sei poeta tu e rendi poeta lo spettatore. Similmente, una storpiatura di parola genera un riso inestetico, perché questa buffoneria volgare non ti dá che il fatto materiale, sterile, il confronto della parola storpiata con la parola nella sua integritá; e poi?... e poi niente altro; non ti desta ima sola idea accessoria, una sola immagine; parte dal senso e rimane nel senso. Ma, se quella storpiatura ti dá una nuova parola, che abbia un significato opposto alla prima, o che alluda alla situazione o a qualche personaggio; ove sia ciò ben fatto, vi può essere arte; perché non si tratta piú di un semplice confronto o giudizio, ma tutta la situazione, tutto intero il carattere, ti si affaccia innanzi; e, mentre ridi, ti si affollano tante altre idee accessorie che il riso si prolunga e s’innalza fino all’allegria. Ond’è chiaro che non ogni pianto è tragico, né ogni riso è comico.

Ciò posto, non esito a dire: la commedia del Gattinelli ha [p. 309 modifica]prodotta una impressione rare volte estetica. Ha tenuto viva la mia attenzione, mi ha fatto ridere, mi ha fatto godere; ma non di quel godimento che si gusta innanzi alle bellezze dell’arte e che si chiama estetico. Mi ci sono divertito, come mi diverto a guardare de’ fuochi artificiali o le boccacce di un buffone di piazza. E perché?

Perché il comico egli lo ha cavato da particolari occasionali, esteriori, volgari, e non dall’intimo stesso della situazione; perché quegli stessi particolari fanno una impressione materiale e passaggi era senza lasciare alcuna traccia nell’immaginazione.

Guardiamo prima alla situazione. Il Gattinelli ha inteso tanto parlare dello scopo morale, e che la commedia dee essere emendatrice de’ costumi, e che il vizio dee esser punito e la virtú premiata, e che so altro, che in luogo di abbandonarsi allo spontaneo ed ingenuo sentimento dell’arte, ha dovuto far seco il seguente ragionamento: — Ecco qua un discolo e un giocatore di Borsa, due viziosi in iscena: che ne faremo? La poesia è un sacerdozio; i critici non aprono bocca che non ti parlino di scopo morale. Una commedia senza scopo morale! Tolga il cielo! La passerei bella. Meglio una poesia senza poesia, che senza scopo morale. Bisogna dunque delle due cose l’una, o che i miei due viziosi la finiscano male, o che si convertano a santa vita. — Il Gattinelli ha scelto il partito piú mite; ed ecco in mezzo una savia donna, che si propone di emendare il marito ed il suocero. Cosi il discolo diviene un buon marito ed un buon padre, ed il suocero manda al diavolo la Borsa e i danari e l’avarizia, facendo in un minuto tante buone azioni, da cancellare tutte le cattive della sua vita. Vi fu chi disse, non senza spirito: — Questi plutomaniaci sono, in veritá, buona gente. — Un altro chiamò questa «la commedia delle con versioni». A dire il vero, in grazia dello scopo morale, la commedia finisce col negare sé stessa. Nel giudicare un lavoro soglio per prima cosa spogliarlo di tutti gli accessori ed afferrarne il sostanziale. Che cosa è in fondo questo lavoro? È la conversione di due viziosi operata da una donna. Scopo [p. 310 modifica]seriissimoriissimo, che non ha in sé niente di comico, anzi è la negazione della commedia.

La commedia è la parte prosaica e difettosa della vita, che cerca di farsi valere di rincontro alla poesia e alla morale, a ciò ch’è bello, nobile, generoso, ecc., sostituendovisi e prendendone l’abito esteriore; onde un poeta francese ebbe a dire che «la commedia è la scimmia della tragedia». L’uomo vizioso, per esser comico, non dee porsi come vizioso, sentirsi tale, vergognarsene, averne rimorso; in questo caso abbiamo non piú la commedia, ma il dramma. Deve egli esser contento di sé, parlar leggermente de’ suoi difetti, beffarsi de’ nobili caratteri, degli uomini di cuore, come di bambini, puritani, spartani, inesperti del mondo, viventi nelle nuvole, ed opporre al loro ideale il mondo reale, la vita pratica, il positivo; tale è il fondo della commedia. In apparenza è la negazione della poesia, la caricatura della severa probitá ed onesta, la parodia di tutte le virtú, di tutte le grandi azioni che si ammirano nelle tragedie: una scuola d’immoralitá. Che si ha a fare? — Poniamo in iscena i viziosi e convertiamoli, facciamone gente da bene, risponde il Gattinelli; cosí salviamo la capra e i cavoli. — Cosi avrai uccisa la capra e non avrai salvati i cavoli; avrai distrutta la commedia nella sua radice e non avrai fatta la tragedia. Immaginate il Cardinal Borromeo che si fa a convertire don Abbondio. E voi di quel divino dialogo del Manzoni volete farmene una commedia? e non vedete che il comico li si dissolve a poco a poco sino alla compiuta negazione di sé stesso? Guardate in ultimo don Abbondio, guardatelo commosso e pensoso; egli è cosí poco comico, come Maurizio, che finisce col piangere e col dire: «mea culpa».

E lo scopo morale? Facciamo dunque che i due viziosi sieno in ultimo vituperati, che loro incolga qualche disgrazia. Adagio. O questa fine procede per istretta catena di cause ed effetti da tutti gli antecedenti, ed avrete distrutta la commedia, non ci potendo essere schietta allegria comica, quando lo spettatore vegga a poco a poco balenarsi dinanzi il precipizio, al quale i due viziosi inconsapevolmente camminano incontro; o questa [p. 311 modifica]fine procede per caso, e voi non avrete conseguito lo scopo morale, dicendo lo spettatore in cuor suo: — Poteva succedere altrimenti. — Vedete, dunque, in quanti impacci si dee trovare un povero galantuomo per questo benedetto scopo morale.

Volete voi una ricetta perché senza stillarvi il cervello conseguiate lo scopo morale? È semplicissima; non ve ne date pensiero: siate artisti, ubbidite all’arte. Credete dunque che l’arte sia in sé cosa immorale: si che vi bisogni soprapporle uno scopo morale? Ma la commedia? Che sorta di moralitá vi può essere nella commedia? essa che rappresenta il reale, il positivo, la materia, e lo gitta in viso con aria di scherno all’ideale, allo spirito? Qui la quistione si fa seria. E so ben io un saccente che voleva sbandita dalla societá la commedia, come scuola di corruzione; e so ben io un pedante che, frantendendo Hegel, negava alla commedia la qualitá di arte. Le due conclusioni vanno insieme. Se la commedia non è morale, perché è la caricatura di ogni nobile cosa, la commedia non è arte, perché è la materia che fa la caricatura dello spirito, la prosa che fa la baia alla poesia, il reale che si beffa dell’ideale. Ma ella è l’una e l’altra cosa; è moralitá e arte. In che modo?

Rimanendo commedia, rappresentazione del vizio; e tanto vi sará piú di moralitá e di arte, quanto la rappresentazione sará piú viva. Rappresentatemi la plutomania, ma non m’introducete un poeta drammatico che declami pedantescamente contro di essa: le prediche lasciatele al pulpito. Rappresentatemi la plutomania bene, e non sentirete bisogno, per esser morale, di convertire il plutomaniaco, o di fargli rompere il collo. Perché, quando voi mi rappresentate il vizio, la prosa, la materia, il reale, che si {ione esso, e sol esso, come il sostanziale, l’ideale, il vero, il serio della vita, scoppia irresistibilmente il riso. E il vostro riso è un attestato di moralitá e di arte. Voi ridete perché siete un uomo morale ed avete il sentimento dell’arte; perché vi si rivela subito il contrasto fra quello che è nelle pretensioni dell’uomo vizioso e quello che è nella vostra coscienza. Rendete il vizio ridicolo; fateci ridere a spese di Maurizio; il riso è piú morale che tutte le conversioni e le [p. 312 modifica]punizioni del mondo. Aristotile dicea che il pianto purga le passioni; anche il riso. È inutile avvertire ch’io parlo di difetti e non di colpe, le quali non generano riso, ma orrore e disgusto, e non appartengono alla commedia.

Per questo mal compreso scopo morale il Gattinelli, non contento di Clelia, introduce nell’azione un poeta, che è come il moralista della commedia. Qui predica contro la plutomania, lá contro la vita licenziosa; Clelia è il missionario, egli è il predicatore; ed hanno stretto lega offensiva e difensiva contro i due formidabili viziosi, contro il plutomaniaco padre ed il discolo figlio. Che cosa è avvenuto? Che si ride a spese del predicatore, contro l’intenzione dell’autore. Quando in effetti Vittorio o Luigi Ardenti gli rispondono per le rime, il pubblico ride insieme con loro; ride non di loro, ma del poeta drammatico, che cosí fuor di luogo viene a sciorinarti le sue lezioni; ride non de’ suoi sentimenti, ma della sua pedanteria.

Lo scopò dunque di questa commedia non è comico; pure la commedia potrebbe, fino a un certo punto, andare avanti, se i mezzi fossero comici, se l’azione si potesse svolgere comicamente. Ma è peggio ancora.

Quali sono le situazioni? Un uomo, che ha abbandonata la moglie giá madre; che s’innamora della figlia senza conoscerla; che incontra la moglie in casa del padre suo dopo quindici anni; che, ottenuto il perdono, nel sommo della felicitá, ha la notizia di aver perduto alla Borsa tutto il suo. Un padre di famiglia, che per avarizia scaccia di casa il figlio, da cui ha la vita salva in un tumulto» popolare, mezzo di riconciliazione; che tende insidie ad un onesto operaio, padre anch’egli di famiglia, per subissarlo; che, credendo di rovinar lui, rovina il proprio figlio; che riconosce nella sua innamorata la moglie del figliuolo. Una donna, tradita dal marito, che soffre con eroica serenitá la miseria e la sventura; che s’introduce in casa del suocero per riacquistare un marito ed uno stato; che è costretta a far lieto viso a tutti e mescolarsi negli scherzi frivoli di una famiglia leggiera. Che momento solenne è il suo incontro col marito! Con che rimescolamento si sente la sua romanza! Con che trepidazione [p. 313 modifica]si attende l’abboccamento tra’ due sposi! E queste situazioni sarebbero comiche! Ma qui vi è materia da dieci tragedie.

Quali sono gli affetti? Trapassi subiti a grandi gioie, a grandi dolori; rimorso e vergogna e pentimento nel figlio, e nella gioia del perdono, acquistando moglie e figlia, ecco sopraggiungere l’angoscia della miseria, rovinato, e rovinato dal padre; nuovi rimorsi, nuovi dolori, nuove gioie. E quanto contrasto di affetti nella donna! quante ansietá! quanti passaggi dal timore alla speranza, dal riso al pianto! Non parlo del suocero che in una sola giornata soffre le agitazioni di tutta intera una vita. Questi affetti corrispondono ad un tragico «pathos», e giungono spesso fino allo strazio.

Quali sono i caratteri? Un figlio discolo, ma giá attinto dal rimorso: per entro alla sua leggerezza penetra un elemento serio, che, a poco a poco, se ne insignorisce e consuma ogni parte comica. Un padre, fatto dall’avarizia crudele, snaturato padre, cattivo uomo, piú odioso che comico, ma che dall’amore viene a poco a poco emendato, rifatto, reso capace di nobili e generose azioni. Una donna, cinta dalla doppia aureola della virtú e della sventura, carattere assolutamente serio, posto lí per annichilare con la sua presenza ogni specie di comico. Sono, questi, caratteri stupendi in un dramma, assurdi in una commedia.

Si potrebbe dire che qui è solo quistione di parole. Vi spiace che il Gattinelli abbia intitolato il suo lavoro commedia; e voi chiamatelo dramma. Ma no, il Gattinelli ha voluto fare da senno una commedia: cavare da queste situazioni, da questi affetti, da questi caratteri una commedia; ed ha guastato situazioni, caratteri, affetti. Della sua concezione, la natura aveva fatto un dramma; egli ne ha fatto una commedia. Ora lo scrittore può concepire a questo o a quel modo; ma, quando ha giá innanzi bella ed intera la sua concezione, non è piú libero, dee ubbidire a quella.

Lo scopo è serio; ma il Gattinelli volea fare una commedia e gli ha tolto ogni serietá. Clelia con una romanza trionfa; con due parole converte lo sposo; con due occhiate trasforma l’avaro. [p. 314 modifica]Sembra piuttosto uno spettacolo di magnetismo o di magia, che una seria rappresentazione di un’azione umana. Il lavoro dovea consistere nei mezzi adoperati da Clelia per emendare il marito ed il suocero; questo, che è il sostanziale, si riduce a due o tre scene. Per conseguire il suo intento, dovea ella rivelarsi in tutta la serietá e profonditá del suo carattere, non potendo nascere i grandi effetti, che da caratteri fortemente pronunziati. Ma il Gattinelli ha cominciato dall’annullare il carattere principale, togliendogli ogni contorno, ogni disegno, ogni gradazione, cioè a dire ogni personalitá ed ogni bellezza. Clelia non è propriamente una creazione, un carattere artistico; perché Clelia è in sé un carattere severo e tragico; e l’autore, che voleva fare una commedia, si è veduto costretto a presentarlo di profilo e a lampi, con colori sbiaditi, in superficie, cioè a dire, ad annullare in esso ciò che ha di vitale e di personale, e a farne una vuota generalitá. Pensate un po’. È una donna sola, abbandonata da tutti; in casa del suocero, incognita, straniera amata dal padre di suo marito, in mezzo a persone sciocche o frivole o perverse, rassegnata nella sventura, forte di proposito, con un fine fisso innanzi alla mente ch’ella persegue a traverso tutti gli ostacoli. Dee dissimulare i suoi sentimenti, ridere spesso, mentre il suo cuore piange, esitare, sperare, temere, con la mente in continua tensione, col cuore in continui palpiti, con innanzi una cara figliuola, che raddoppia le sue agitazioni, che, inconsapevole, inacerba il dolore volendo temperarlo, che con le sue innocenti domande porta l’affetto fino allo strazio, che le impedisce ogni espansione. Sviluppate un po’ tutto questo, e voi avete una stupenda creazione. Ma si volea fare una commedia, e la commedia ha ucciso questo carattere.

Il discolo si presenta in iscena, quando è giá agitato dai rimorsi. Il processo naturale del lavoro dee condurre a questo: che il nuovo uomo si mostri in lui con una crescente vivacitá, che lo purifichi sempre piú, che il comico si vada ognora piú estinguendo; insino a che sparisca affatto, dal punto che conosce la moglie. Qual momento! Non solo il comico sparisce, ma sottentra in folla quanto di tenero o di straziante ti dá la [p. 315 modifica]tragedia. Ma tutto questo non era ne’ conti del Gattinelli. Per fare una commedia, ha guastato Clelia, ed ora ti guasta Vittorio. Il comico sopravvanza; que’ rimorsi sono capricci labili, che vanno e vengono, che non lasciano alcuna orma, che non partoriscono alcuna azione; sono un fantasma fuggevole, che si affaccia ed è cacciato via da una risata; e si rimane nel comico. Ma, quando gli giunge all’orecchio la voce della tradita moglie e la situazione diviene assolutamente seria, il Gattinelli si guarda bene dal rappresentarla, dallo svilupparla: come si fa in una commedia? L’azione è si rapida, sopravvengono tanti personaggi comici, tanti accidenti, che gli affetti piú serii trovano appena una interiezione per dire: — vedete che ci siamo anche noi. —

Il giocatore di Borsa non è in sé un personaggio comico: troppo egli è odioso. Non si tratta di un vizio, d’una inclinazione irrefrenabile al gioco; Maurizio è un cattivo uomo, che per sete di guadagno commette cattive azioni. Si può, per esempio, rappresentare comicamente il vizio dell’avarizia, come han fatto e Plauto e Molière e Goldoni; ma non le cattive azioni che ne sono conseguenza. Un avaro, che per danaro ruba o ammazza, non è più materia da commedia, ma da forca. Maurizio che, col riso sul labbro, gitta nella miseria un padre di famiglia! che, con la costanza dell’odio, non lo perde mai d’occhio! che torna giubilando e cantando «alleluja» nella credenza di averlo rovinato e scopre di aver rovinato il proprio figlio! Ma tutto questo, grazia a Dio, non è commedia. Non siamo ancora tanto corrotti che si possa ridere di queste cose: questo fa fremere. Maurizio è carattere da dramma: carattere nuovo e stupendo. Che orizzonte si presentava al Gattinelli! freddi calcoli dell’interesse; le colpevoli agitazioni e trepidazioni del giocatore; le subite vicissitudini della Borsa; e non fantasticare che oro, oro ammonticchiato sulle rovine di tanti infelici, ed appiattarsi come tigre per stendere le unghie all’improvviso, e fare un risolino d’amicizia all’operaio che tu vuoi rovinare, e cacciare tuo figlio, e rinnegare tua nuora, ed affamare i tuoi concittadini, e questo ridendo, facendo croci, prendendo l’aria [p. 316 modifica]dell’uomo dabbene! Tale è Maurizio. E nondimeno egli ama; e l’amore fa rivivere il suo cuore e lo purifica e lo nobilita innanzi a’ suoi occhi e ne fa un altro uomo. Ecco il Maurizio, che nasce direttamente dalla concezione del Gattinelli. Ma che ha fatto egli? Ciò che vi è di odioso e di tristo, lo ha gittato li crudo, senza rappresentazione estetica, e per farne un carattere comico si è gittato nel luogo comune dell’avarizia: volea fare una tazza, e ne è uscito un orciuolo; ha ritratto un lato accidentale di quel carattere. Non parlo poi dell’amore, che vi sta senza serietá, senza sviluppo; è il luogo comune del vecchio innamorato, che fa ridere alle sue spalle. «Ardo, ardo», esclama egli, domandando notizie delle granaglie e dell’orizzonte politico; e Luigi Ardenti gli risponde con molto buon senso: «Bagno gelato, bagno gelato». È un amore ridicolo, da cui non può uscire alcun serio effetto, tanto meno una cosí miracolosa conversione. Del resto, noto con piacere che qui ci è la sola parte comica che sia cavata dall’intimo stesso della situazione. Maurizio è avaro ed innamorato; e l’autore ha saputo giovarsi di questo contrasto per cavarne alcuni comici effetti.

Che dirò degli affetti? che delle situazioni? I piú gravi avvenimenti, che dovrebbero straziare o intenerire i cuori, hanno appena l’onore di qualche esclamazione. Eppure quegli avvenimenti determinano il significato della favola, ne costituiscono la parte integrale. Il marito riconosce in casa del padre suo la moglie, da lui tradita, dopo quindici anni: ciascuno si attende una effusione, un contrasto di sentimenti. È vero che il marito si sente venir male, mezzo comodissimo per dispensarlo dal commuovere e dal mostrarsi commosso. Gli svenimenti suppongono o precedono l’espressione dell’affetto; ma qui si finisce con alcuni pettegolezzi, e, dopo usciti gli altri personaggi, il marito dice a due suoi amici: «Non sapete? Ho trovato mia moglie. — Come? Tu hai moglie? — Una moglie ed una figlia». Per non guastar la commedia, l’autore ha guaste tutte le situazioni, tutti gli affetti.

La concezione è seria: il Gattinelli vuol farla comica e te la mutila, te rammiserisce. La concezione richiede una Clelia [p. 317 modifica]operosissima, da cui partano in gran parte gli avvenimenti, che eserciti un gran potere sulle situazioni, che modifichi i caratteri, determini gli affetti, che sia anima dell’intrigo. Tutto questo si riduce a poche scene. Situazioni, caratteri, affetti, scopo e mezzi, parte è soppresso, parte abbreviato, parte sformato. Che resta? Come il Gattinelli ha potuto riempire tre lunghi atti? Come in una situazione tanto seria destare cosí spesso il nostro riso?

Il Gattinelli è ricorso a’ luoghi comuni. Né potea altrimenti. Se vuoi cansare i luoghi comuni, tu dèi porti innanzi il tuo argomento, e profondarviti senza guardarti intorno. Ma l’argomento non gli dava la commedia, ed egli l’ha cercata in mezzi esteriori, e però generali ed astratti. Vi sono certi caratteri e certe situazioni generiche, divenute oramai convenzionali. Tali erano le maschere della nostra antica commedia dell’arte: il Pantalone, il Brighella, l’Arlecchino, ecc. Tali sono nel nostro teatro una fanciulla curiosa, una vecchia che fa la giovine, un’amante dispettosa, una servetta venale, un poeta pedante, un cacciatore di doti, ecc. Nel lavoro del Gattinelli vi è una vera pioggia di tali ingredienti, reminiscenze di repertorio. Egli ha alle mani un intrigo complicatissimo, due azioni da menare innanzi, due viziosi da rappresentare, il discolo ed il giocatore di Borsa: ha materia da due commedie. Ma tutto questo è trascurato: la vera commedia è posta ne’ caratteri accessorii, ed il padre ed il figlio, personaggi principali, fanno ridere, non per la parte che si attiene alla situazione, ma per quello che vi è di comune e di convenzionale nel discolo, nell’avaro, nel vecchio innamorato. Tutta questa materia da repertorio è passata per la testa del Gattinelli senza riceverne alcuna impronta. Un carattere, perché sia una creazione, dee aver una personalitá: vedete i personaggi del Goldoni. Con quanta precisione son disegnati! Con quanta sagacia son distribuite le mezze tinte, i chiaroscuri, le gradazioni! Come tutto è compenetrato, situazioni, caratteri, sentimenti, sicché ciascuna commedia ti pare una sola persona! Al Gattinelli sfugge ciò che un carattere ha di proprio e d’intrinseco, la sua anima, e non [p. 318 modifica]gli restano che contorni indeterminati e comuni a tutta la specie. E però osserverete che i piú felici effetti comici egli li trae non dall’intimo del personaggio, ma da rapporti tra cose disparate che si trovano insieme. Avendo profuso nella sua commedia caratteri ed incidenti, nascono dal loro incontrarsi contrasti ridicoli. In una scena Andrea paga Maurizio, Luigi Ardenti sospetta di avere un rivale, il poeta racconta un suo dramma a Vittorina, sua fidanzata. — «Chi vi ha dato questo danaro?», domanda Maurizio ad Andrea. «Chi è il mio rivale?», domanda Luigi ad Agata. A domande contemporanee succedono risposte contemporanee. «Uno che ha cuore piú umano del vostro.— Uno che ha maniere piú insinuanti delle vostre». Ritornano i primi: «Si rovinerá. — Lo ammazzerò». Rispondono i secondi: «Non si rovinerá. — Non lo ammazzerete». «Il dramma è finito», conchiude il poeta. «Il negozio è liquidato», conchiude Maurizio. — Queste antitesi simmetriche e grossolane sono indizio di povertá comica. Al che si aggiunge che la parte comica manca per lo piú di delicatezza ed è indirizzata alla parte piú materiale della nostra natura, scendendo talora fino alla piú volgare buffoneria: equivoco di parole, allusioni poco delicate, motti da trivio, comico di occasione. In veritá ci è di che maravigliarsi, veggendo il Gattinelli, che pure è uomo di spirito, mettersi sotto la protezione del vino di Caluso per ottenere gli applausi dell’uditorio.

Qui vi è ben poco di poesia. Il riso che nasce da rapporti o confronti, da equivoci o controsensi, da caratteri convenzionali, comuni, esauriti, rimane sterile, senza alcun potere sulla fantasia, senza destarti alcuna idea accessoria, senza valore estetico.

Il Gattinelli ha amato meglio di parlare a’ sensi del suo uditorio. Sono pochi quelli che intendono e pregiano le delicate bellezze dell’arte; un pubblico di cosí fino gusto è argomento di una perfezione estetica, alla quale non siamo ancor giunti. Siamo piú avanti per rispetto alla musica o al canto, che per rispetto alla poesia. Una falsa espressione nel tono o nel gesto di un attore facilmente ci sfugge; una stonatura è subito ripresa. [p. 319 modifica]

Il Gattinelli s’è rivolto a’ nostri sensi. — Dilettiamo gli occhi, egli ha detto, disponiamo in modo le cose che vi sieno de’ quadri, dei contrasti simmetrici, delle illusioni ottiche. E poi moltiplichiamo personaggi ed accidenti; serriamo il dialogo; sopprimiamo gradazioni e mezze tinte; facciamo una commedia a vapore, sf che lo spettatore passi di cosa in cosa, allettato sempre da novitá, da varietá. — Che n’è nato? Non ci è una sola azione sviluppata, un solo carattere disegnato; è un correre e correre, un succedersi rapido di fatti, come di cittá in un panorama. L’occhio è cosí esercitato, che non dá un istante di vita all’anima, non ci dá tempo di pensare, di fantasticare, di operare noi a nostra volta sullo spettacolo, di appropriarcelo e compierlo con la nostra immaginazione: rimaniamo storditi, passivi, con gli occhi aperti, con l’anima vuota. È la poesia nello stato d’infanzia o di decadenza, o quando siamo ancora tutto sensi, o quando, esausti e decrepiti, non ci rimane altro che il senso.

Ma io sono troppo severo col Gattínelli. Non ho potuto smettere l’abito di guardare anche nei lavori infimi alla perfezione. Nella presente mediocritá è pure non piccola lode fare una commedia che non ti annoia, che ti fa ridere, che ti tiene allegro, che attira, se non altro, la vista. Il Gattínelli ha una lunga esperienza del teatro, ed ha scelto i mezzi ch’egli sapeva piú acconci a fare effetto. Per esempio, non ha posto alcuna cura nello stile; la sua lingua è una specie di lingua franca, un italiano corrotto, come si parla a Torino o a Napoli. E che perciò? Chi vuoi che ponga mente allo stile o alla lingua? Non siamo ai tempi che un ateniese torceva il muso ad una frase o ad una parola men che elegante.

Ben so che cosa il Gattínelli potrebbe rispondere. — Voi siete un utopista, voi, con le vostre critiche! Perfezione, ideale, concezione, situazione! Le sono novelle. Io conosco il teatro e il mio pubblico, e mi governo coi tempi. Che mi contate voi d’impressione estetica e non estetica, di convenzionale e di personale? Sapeva ben io quel che mi faceva. —

Non ne dubito; non solo egli sapeva quel che si faceva, ma l’ha fatto benissimo. Dialogo rapido, quadri ben concertati. [p. 320 modifica]spettacoli svariati, sceneggiatura ben compresa, abilita tecnica non comune, azioni a passo di carica, moto perpetuo senza un istante di languore, sono tali pregi, che il Gattinelli se ne dee contentare. In questo genere di lavori tutto sensi, in cui lo spettacolo può piú che le parole, egli tiene uno dei primi luoghi. Certo, un artista coraggioso, conscio delle sue forze, può molto osare; e s’egli si levasse in piú alta regione, se sapesse parlare al cuore, se l’attenzione che molti pongono nelle scene, nelle vesti, nella parte mimica e spettacolosa, in tutto ciò che è esterno, sapesse egli attirarla potentemente al giuoco delle passioni e dei caratteri, son certo che la parte anche piú grossolana del pubblico lo intenderebbe e lo seguirebbe. Un buon pubblico forma i grandi artisti; e un buon artista ti crea un buon pubblico: vi è reciprocanza di azione. Ma il Gattinelli non ha confidato in sé stesso, ed ha scelto la via piú sicura; meglio primo in paese, che secondo in cittá. Vedremo chi sará colui, che il primo oserá; e che avrá piú fede in sé stesso e nel suo uditorio: colui sará il ristauratore del Teatro italiano.

[Nella «Rivista contemporanea» di Torino, a. III, i856, vol. V, pp. 323-36.]