Rubin e il problema della trasformazione dei valori in prezzi di produzione/Capitolo 2.2

La “legge del valore”

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Capitolo 2.1 Capitolo 3

Come appena accennato, la legge del valore è per Rubin il meccanismo che l'economia mercantile si dà per regolare il lavoro sociale e integrare in esso i lavori dei produttori privati autonomi e indipendenti, liberi organizzatori della loro attività economica e decisori d'ultima istanza per loro stessi su dove impiegare il proprio lavoro, e perciò, fondamentalmente proprietari dei mezzi di produzione che utilizzano (o comunque non asserviti a essi). In questo modello economico teorico il “capitalista” non esiste ancora1 e verrà introdotto nel prossimo dedicato all'analisi del prezzo di produzione come legge dell'equilibrio dell'economia capitalistica (ivi, 200-203); ci occupiamo quindi solo di un aspetto della società capitalistica, quello dello scambio di merci tra semplici produttori.

I produttori non hanno altro modo di conoscere la distribuzione sociale del lavoro se non attraverso il sistema dei prezzi che ricavano sul mercato dalla domanda in rapporto all'offerta. Nessun produttore può influenzare la produzione sociale se non con la sua capacità di offrire una diversa quantità di merci, modificandone quindi i prezzi di mercato variando il rapporto tra offerta e domanda sociale: in caso di differenza di guadagni a parità di lavoro investito si verificherà in un periodo sufficientemente lungo una redistribuzione sociale del lavoro da quelli meno remunerativi a quelli più remunerativi, fino a che una stessa quantità di lavoro socialmente equivalente2 impiegata anche in rami differenti fornisca a ciascun produttore uguali vantaggi, cioè la stessa quantità di valore, di denaro. I lavori spesi per merci diverse dal valore uguale sono concretamente diversi, ma socialmente eguali.

La situazione ipotetica di equilibrio generale è il risultato della vendita dei prodotti ai loro valori. Tutti i produttori hanno cercato di impiegare il loro lavoro in quelle attività più remunerative, compatibilmente con la loro qualificazione; la società ha ridistribuito le forze produttive, cessa ogni movimento. In questo stato di cose i prezzi delle merci dei vari lavori corrispondono all'effettiva equiparazione che la società ha fatto di tali lavori: in quel dato momento, cioè con quel dato livello di forze produttive, la vendita ai valori esprime effettivamente la distribuzione del lavoro coerente con il livello delle forze produttive sociali impiegate per la produzione di ciò che la società - pagante - ritiene utile.

Tale situazione in cui tutti i lavori possono dirsi “socialmente eguali” è quella di equilibrio generale: i prezzi delle merci non sono spuri a causa di momentanei squilibri di domanda e offerta, ma corrispondono ai loro valori, la situazione teorica in cui ogni trasferimento di lavoro da un ramo all'altro è cessato perché nessun trasferimento ulteriore provocherebbe maggiori guadagni.

Numerose sono state le critiche mosse contro la teoria del valore-lavoro, obiettanti che nella realtà i prezzi non sono praticamente mai uguali ai valori, che uguali quantità di lavoro non sempre portano gli stessi guadagni. Tale divergenza costante dei prezzi delle merci dai loro “prezzi d'equilibrio” - i valori - non sarebbe però affatto un difetto della teoria del valore, ma anzi una sua conferma: è solo grazie a questa divergenza dal prezzo d'equilibrio che la società può modificare al sua produzione trasferendo lavoro da un settore all'altro, aumentando la tecnologia e la produttività all'interno dei rami di produzione, innalzando le sua potenzialità e qualifiche (Rubin 1976, 64). Se le merci si scambiassero sempre a prezzi corrispondenti ai valori, la produzione mercantile non sarebbe in grado di rispondere alle mutate esigenze della società nel tempo; nella produzione mercantile, che è produzione cieca e anarchica, ogni legge regolatrice non può che essere legge di natura (Marx 1964, 107) al di fuori della coscienza degli uomini. Tale prezzo d'equilibrio funge quindi da centro di gravità dei prezzi di mercato, quotidianamente oscillanti e diversi dal prezzo medio ma sempre tendenti ad esso, come in forza di una qualche legge.

A parere di chi scrive, la “scoperta” di questo prezzo d'equilibrio fin qui esposta non lascia spazio a particolari dubbi o difficoltà di comprensione: con le premesse sociologiche fatte in precedenza, che nel modello di società capitalistica ultra-semplificata di cui stiamo trattando3 lo spostamento d'investimento del proprio lavoro cessi non appena ogni lavoro dia gli stessi benefici, non è certo un risultato che stupisce e potremmo considerarlo quasi un corollario delle premesse sociologiche della società di mercato finora poste. Che le forze produttive di ogni società mercantile (compreso il capitalismo) si distribuiscano sulla base del valore di scambio delle loro merci, che deve gravitare attorno ad un prezzo d'equilibrio poiché ciò è l'unico meccanismo ordinatore, è cosa accettata persino dalla scuola austriaca che non ha alcuna difficoltà ad ammettere e a sbandierare come i prezzi delle merci gravitino effettivamente attorno al un prezzo quantomeno assimilabile al “prezzo di produzione” (Böhm-Bawerk et al. 1971, 61).

Quello che interessa a noi, all'analisi marxiana e soprattutto a quella di Rubin, è scoprire qual è la forza sociale che spinge i prezzi a uniformarsi al prezzo d'equilibrio; la scoperta di tale legge è la scoperta del meccanismo fondamentale della società mercantile. Il non aver proseguito adeguatamente questo aspetto è, per Rubin e Marx, il grande limite dell'economia politica classica, che non si è “mai posto neppure il problema del perché quel contenuto [il lavoro] assuma quella forma, [\ldots ] del perché il lavoro rappresenti se stesso nel valore” (Rubin 1976, 91; Marx 1964, 112), il valore, e a sua volta collegarlo alla sua sostanza: il lavoro socialmente necessario, che è una determinata quantità di lavoro astratto. Ma anch'esso, fenomeno puramente sociale in quanto equiparazione sociale di lavori per mezzo di merci, è causalmente determinato da quei fattori tecnico-concreti del lavoro4 (dato “il duplice carattere del lavoro, concreto e astratto”5), dalla produttività del lavoro.

Per Rubin l'aumento della produttività media è un fattore tecnico-materiale che incrementa la produzione materiale non variando il tempo di lavoro speso, cioè esprimendosi in una diminuzione della quantità di lavoro concreto speso in media nella produzione per unità di merce. Tale diminuzione influisce in maniera determinante su quanto il nuovo lavoro sia equiparato sul mercato e su come sia raggiunto il nuovo equilibrio, poiché il lavoro nelle nuove condizioni di produttività aumentata intende presentarsi dapprima sul mercato come “lavoro che vale di più”, dal momento che con meno tempo produce quanto gli altri in più tempo; così, per fare un'ipotesi, se prima i tessitori vendevano 10 metri10 metri di stoffa a 1 sterlina l'uno impiegando una giornata (es. 10 ore) e ottenendo quindi un ricavo di 1 sterlina all'ora come tutti gli altri, ora in una giornata possono produrre 20 metri e aspettarsi un ricavo di 20 sterline, sfregandosi le mani nel pensiero di essere remunerati il doppio dei loro amici fabbri e di tutti gli altri. Che vada in questo modo (espansione della produzione tessile) o in quell'altro (cioè un mercato che non assorbe una produzione così elevata allo stesso prezzo di 1 sterlina a metro), l'effettiva equiparazione sociale dei lavori che si compie nella compravendita eguaglia i lavori che costituiscono parte del lavoro complessivo con certe quantità di lavoro astratto, lavoro socialmente equivalente (ma reificato in merci in funzione dell'equiparazione stessa). I maggiori guadagni rispetto alle ore di lavoro investite è il segnale che attira a lavorare nella tessitura (e nelle nuove condizioni) una parte di coloro che lavoravano in altri settori meno remunerativi e che possono entrarvi6, continuando a espandere la produzione fintanto che il prezzo non si sarà livellato a un punto dove cessa il movimento di lavoro, la sua redistribuzione sociale. In tal punto cessa la nuova equiparazione sociale dei lavori e l'attribuzione della qualità e quantità astratta ai lavori concreti, fissandosi sul mercato l'espressione della quantità di lavoro astratto, il valore: uguali quantità di lavoro astratto creano uguali quantità di valore. In altre parole, potremmo dire con un esempio che: supposta [dal mercato come risultante dell'equiparazione di merci e del conseguente processo di redistribuzione sociale del lavoro fondato sulle forze produttive esistenti in quel momento nella società] l'equivalenza sociale di 8 ore da avvocato con 16 ore da bracciante agricolo, dunque che per la società 8 ore da avvocato e 16 ore da bracciante sono la stessa quantità di lavoro astratto, la stessa parte aliquota del lavoro sociale complessivo, allora tali lavori creano [reificandosi in merci, dunque prodotti vendibili sul mercato] nello stesso tempo la medesima quantità di valore.

Secondo Rubin i prezzi di mercato delle merci - e ancor più quelli individuali dei singoli prodotti - non sono quindi sempre corrispondenti ai valori, ma da essi vengono determinati. I prezzi coinciderebbero con i valori solo nel caso puramente accidentale di un equilibrio generale: laddove ciò avvenisse, infatti, i prezzi fornirebbero uguale valore per uguale quantità di lavoro astratto, uguale quantità denaro per lavori considerati socialmente uguali, dove tale uguaglianza sociale si afferma nel fatto che è cessato ogni trasferimento di lavoro da un settore all'altro. Ma ciò è un caso estremamente raro poiché nelle società mercantili i produttori sono autonomi nell'organizzazione della loro attività economica, rivoluzionando continuamente i loro processi produttivi e prodotti, creano nuovi mercati, stabilendo di continuo nuovi standard, nuovi tempi di lavoro socialmente necessari.

Rubin afferma che la redistribuzione sociale del lavoro è il movimento con cui qualsiasi società basata sulla divisione del lavoro adegua il sistema produttivo alle mutate esigenze; all'interno di una società-azienda si registrano cambiamenti di produttività e conseguentemente di obiettivi, modificando la produzione per obbedire a nient'altro che alla “legge dell'efficacia e dell'efficienza”7, cioè cercando di fare in modo che la produzione giunga a risultato e che lo faccia nel modo meno dissipativo possibile. Nella società mercantile semplice, invece, i lavori vengono trasferiti da una parte all'altra in obbedienza cieca8 alla legge del valore: cambiamenti di produttività modificano le quantità di lavoro astratto delle merci, che si rispecchiano in un diverso valore che, infine, determina la distribuzione del lavoro sociale (Rubin 1976, 54). Nel precedente esempio, nessuno avrebbe avuto il potere - a suon di decreti, di prediche o di maledizioni - né di avviare né di far cessare l'afflusso di lavoro nel settore tessile, se non la legge del valore: a causa dell'aumento della produttività del settore, il valore di queste merci è inferiore a quello precedente perché per la loro produzione si sta spendendo già quel nuovo tempo di lavoro lavorativo sociale che la società effettivamente può spendere per quella merce (ivi, 65)9, che è inferiore rispetto al precedente. Di conseguenza i prezzi debbono crollare, adeguandosi al nuovo valore.

La legge del valore è dunque la legge dell'equilibrio dell'economia mercantile, forza che influenza e determina i prezzi di mercato e attraverso essi il lavoro sociale:


“Le fluttuazioni dei prezzi di mercato sono in realtà il barometro, l'indice del processo di distribuzione del lavoro sociale che si svolge in profondità della vita economica. Ma è un barometro alquanto insolito, che non si limita ad indicare il tempo, ma lo modifica. Le diverse fasi del tempo atmosferico variano anche senza le indicazioni del barometro. Ma le fasi della distribuzione sociale del lavoro si succedono solo entro le fluttuazioni dei prezzi e sotto la loro pressione.” (ibidem).


e ancora:


“Se il movimento dei prezzi di mercato collega due fasi della distribuzione sociale del lavoro, possiamo porre una stretta correlazione tra l'attività degli agenti economici e il valore. La spiegazione di tale correlazione andrà ricercata all'interno del processo sociale di produzione, non in fenomeni esterni [\ldots ] che non siano collegati da un rapporto funzionale permanente. Per esempio, non cercheremo la spiegazione nelle valutazioni soggettive individuali [\ldots ] considerate astrattamente rispetto al processo produttivo.” (ibidem).

Note

  1. Tantomeno esistono le ulteriori specie di capitalisti, oggetto dell'analisi di Marx nel III Libro del Capitale: imprenditori, capitalisti commerciali, banchieri, ecc.
  2. Rubin è molto rigoroso a non considerare come sinonimi il lavoro “socialmente equivalente” con quello “astratto”, cioè lavoro socialmente equivalente reificato in merci e tipico della società mercantile. Tuttavia, siccome la nostra analisi è sempre riferita nel contesto della società mercantile, in questa sede utilizzeremo questi termini come equivalenti, se non diversamente specificato, poiché ritengo il primo maggiormente immediato e chiaro.
  3. E del quale trattano il Rubin dei capitoli fino al diciottesimo, nonché il Marx della prima sezione del primo libro del Capitale.
  4. Per “lavoro” qui si intende sempre l'attività lavorativa umana nel suo complesso, l'attività economica, e non il “lavoro” come fattore di produzione, lavoro materialmente umano. Sono lavoro quelle attività con cui l'uomo è artefice della produzione materiale, anche in forma sociale diretta o indiretta; d'altra parte dopo aver specificato dell'estraneità della teoria del valore da qualsiasi concezione che vede il valore delle merci come un fenomeno materiale che abbia origini fisiologico-materiali, è conseguente il rigetto totale anche di quelle teorie che vedono il valore come una creazione di tutti i fattori di produzione (lavoro e capitale). Trattando del capitalismo invece parleremo del lavoro inteso come lavoro materialmente umano in forma “fluida”, potenziale, come fattore di produzione, usando il termine adoperato continuamente da Marx: lavoro vivo, contrapposto al capitale, lavoro morto, lavoro passato reificato in merce (anzi, capitale).
  5. Rubin 1976, 56.
  6. Cioè possiedono le necessarie qualifiche, capacità, esperienza, specializzazione, ecc. Si prescinde per ora dalla questione degli strumenti di lavoro e dell'organizzazione.
  7. Che Marx chiama anche “legge tecnica dello stesso processo di produzione” (1964, 388), pur riferendosi in questo caso al tempo di lavoro socialmente necessario come forza esterna che condiziona i produttori. Viene sottolineata anche in questo caso la differenza tra lavoro immediatamente sociale (soggetto soltanto all'efficacia ed efficienza produttiva rispetto agli obiettivi) e il lavoro sociale mediato dalle merci (soggetto soltanto al valore di esse).
  8. Poiché la legge del valore si presenta ai produttore come “legge di natura” (Marx 1964, 107), legge della distribuzione del lavoro complessivo nella società mercantile.
  9. Marx scrive: “la legge del valore delle merci determina quanto la società può spendere, nella produzione di ogni particolare genere di merci, della somma di tempo lavorativo che ha disponibile.” (Marx 1964, 399).