Ricordi delle Alpi/Parte Prima/V

Miserie a macca

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V.

Miserie a macca.

— Morto Tonio, la Ghita, vinta da tante brutte traversie, non resse più; e indi a poco le si mise a vacillare la ragione. L’aveste veduta, la mia povera moglie, stare per lunghissime ore seduta sull’ordinaria sua seggiola di legno, sempre intenta ai letticciuolo del nostro Tonio! Di prendere un boccon di cibo, non se ne parli; e, strano! le sue labbra non aprivansi più nemmeno a pregare, ella sì divota e amante della religione e della Madonna! La rocca ed il pennecchio, polverosi, erano scordati là in un canto della cucina; l'unico oggetto che parea ridarle i sensi, erano poche immagini di santi e una della Vergine, alle quali Tonio costumava in certe solennità accendere pochi ceri.

La Ghita, dopo un mese di questo soffrire, non sembrava più quella; avreste detto la fosse lì per ispirare a momenti. Le figlie le prodigavano ogni più affettuosa cura; ma — [p. 36 modifica]come tutte le donne — finivano per aggravarla, dando nelle solite lagrime.

In fine mia moglie buttossi a letto, dove giacque per più d’un anno: ogni giorno la miseria cresceva, perchè il lavoro mancava e i bisogni si raddoppiavano. Oh, quanti sacrifizi non ci toccarono a quei giorni! fortunatamente nella peggiore distretta il signor Rienzo era sempre lì, vero angelo di soccorso.

Finalmente la mia donna si rimise alquanto in forze; ma, per quanto si facesse, restò sempre una cosa da speziale. — È vero, che si potè andare innanzi con meno angustie di prima; ma figuratevi qual vita fosse la nostra con Zino bandito e Cecco al servizio dell’Austria! E tutte le disgrazie si fossero fermate lì! me ne sarebbe rimasto da ridere. E pure, lo credereste?

Un bel giorno (erano già due anni che Cecco stava a soldo) mi giunge una lettera, di quelle che vi straziano il cuore con dolori d’inferno. In essa il povero mio figlio mi narrava ch’era allo spedale di Praga tutto lacero nel dorso.... per patita bastonatura....

I dannati dell’inferno non credo soffrano come sofferse allora Brogio! Sor Rienzo, che mi aveva letto e spiegato quel foglio fatale, si prese il caritatevole incarico di comunicarlo disforme dal vero alla famiglia; ma il mio [p. 37 modifica]dolore era troppo forte perchè potessi nasconderne ogni traccia: però, fu necessario coprire la cosa prendendo per pretesto una malattia naturale; ma si ebbe a sudar assai per celare tanta crudeltà in casa.

Or, sapete perchè quegli scherani avessero bastonato e malconcio così il mio Cecco? deccovelo: non avendo e’ potuto soffrire da un esoso caporale croato l’eterno appellativo di «porca taliana» lanciato sempre contro di lui e dei nostri, sciolse la lingua, e finì con dirgli, che sarebbe venuto il tempo, che gl’Italiani avrebbero fatto pagare a misura di carbone tutte le infamie commesse da lui e da’ suoi pari in casa nostra. Il povero giovane che, sin da bambino s’aveva appreso a odiare gli austriaci, venutigli maggiormente in odio per quanto soventi gliene raccontava anche sor Rienzo, non aveva potuto mai patire un insulto da loro: rimbeccò; e fu punito col sangue.

Dunque battiture; e per queste il mio Cecco si giacque a letto un buon mese, ma fece fermo proponimento, che non avrebbe mai più servito sotto la bandiera dell’Austria; mancava l’occasione, che non tardò. Era il 1848, cioè l'anno dopo le bastonate patite: chiamato il suo reggimento in Lombardia per combattere i milanesi rivendicati in libertà nelle Cinque [p. 38 modifica]Giornate, riuscì a trafugarsi in Piemonte, dove venne iscritto nella schiera delle Guide, elle furono poi con Carlo Alberto nelle nostre pianure.... E io potei ancora con le mie buone gambe correre ad abbracciarlo in Milano; ma quelli furono gli ultimi baci del povero Brogio, chè il Cielo avea fisso, ch’ei lasciasse le ossa nell’infelice battaglia di Custoza.

Sì, ve lo giuro, questa morte non mi ha così percosso come il brutto affare della bastonatura; davvero, parola di galantuomo!

A questo si aggiunse un altro gran dolore, la malattia della buona Ghita; la quale messasi a letto, non se ne levò, che per andarsene al riposo del camposanto. Tanto suo soffrire l’aveva renduta scema affatto di mente, e ridotta in tale stato da mettere pietà persino alle pietre.... Povera mia Ghita! donne come quella se ne veggono ben poche....

— E Zino! diss’io tutto intenerito di così melanconica storia.

— Zino, vedete, fu anzi il vero veleno che rôse la vita della Ghita: ma lui, meschino! non ci ebbe poi tanta colpa. Che avrei fatto io, se mi fossi trovato a suo posto? il cuore mi dice, che non avrei forse evitato la sua disgrazia.

Dapprima si die’ assiduo assiduo al lavoro, [p. 39 modifica]e con gravi e sudati risparmi era persino giunto a mandarci non iscarsi sollievi dalla prossima Svizzera; ma, dopo un paio d’anni, scorgendo non poter fare per noi quanto avrebbe voluto il suo cuore, ci si volse con lettere sì calde e ripetute, che non potemmo rifiutargli il permesso di passare a Genova e tentare l’America. Vi dico, ch’erano lettere da schiantare il cuore: «Qui, ripeteva, non posso più vivere; oltre l’Atlantico farò fortuna, e mi sarà dato sollevarvi solo di là da tante miserie.»

Accondiscendemmo: partì e giunse a Montevideo, dove, per quanto ci fece sapere, rabbrezzò qualche cosa; e infatti il bravo Zino ce ne diede prove con mandarci volta a volta qualche sommetta, per cui potevasi vincere le crescenti angustie della famiglia. Ma questo sollievo non durò più di un anno; chè dal marzo 1859 cessò ogni sua corrispondenza e, malgrado replicate lettere, sempre con tanta esattezza e bontà speditegli dall’ottimo sor Rienzo, nessuna voce ce ne è più pervenuta.

Fu specialmente dopo quest’ultima sventura, che la Ghita non trovò più conforto a medicarle la troppo larga ferita del cuore.

E così, mio signore, me ne rimasi solo alla guardia di Dio; però, e’ che non si [p. 40 modifica]scorda di chi gli si rivolge, mi concesse fortuna di collocare successivamente a marito le mie care tre figlie — Anna, Elisabetta e Caterina; alle quali il lavoro e l’onestà non mancano di provvedere quanto è necessario alla vita di noi povera gente. Onde di tanti mali patiti non mi resterebbe sì acerba ricordanza, se non sapessi che questi mi vennero tutti, proprio tutti, sulle spalle per colpa di quei birboni di austriaci. Ma, d’un’altra cosa devo ringraziare ancora Domineddio; di avermi, quattro anni fa, fatto grazia di vedere i bastonatori di mio figlio cacciati come tanti cani dai nostri monti dalle schiere garibaldine, e dalla Lombardia dai Francesi e dai nostri prodi soldati. Adesso le mie figlie mi hanno reso bravamente nonno di cinque nipoti; all’Anna toccarono due maschiotti, ch’è una delizia a mirarli; la Elisabetta non potè avere che due figlie; ma le sono sì rotonde e vispe, da farne proprio scapitare due poma fresche e novelle. La Caterina, ultima, ha partorito un maschio, a cui per consiglio di sor Rienzo abbiamo imposto il nome di Vittorio, quello del Re; al primogenito dell’Anna, quel di Giuseppe, e s’ha per inteso quello di Garibaldi. A queste belle e buone cose non si sarebbe pensato davvero, se non ce le metteva in capo sor Rienzo, ch’è tutto [p. 41 modifica]dottrina e gazzette; e poi queste le sono idee da loro signori; noi poveri diavoli,... sa bene,... non ci si raccappezza. Adesso non mi resta che pregare il cielo d’avermi conservato sin qui; ma in fede mia le dico, che non morrei contento, se non vedessi del tutto libera dagli Austriaci anche la povera Venezia....1 Così i miei nipoti non correranno più rischio di servire uomini, che bastonano il loro simile.

Io mi separai dall’onesto popolano con una di quelle strette di mano passionate, che dicono tanto. Il buon uomo mi guardò fisso, e tutto sorridente: — L’ho ben annoiata! soggiunse ancora, n’è vero?

— Sentite, Brogio, gli risposi lì sull’andare; non avrei potuto passare ora più bella, nè più cara di questa, se fossi stato con un principe. Co’ galantuomini si sta sempre bene!

— Come si contenta di poco! sclamò slegando l’asino, e avviandosi a casa.

Mentre mi dirigevo al ponte d’Arquino, in preda alle idee suscitate da tale incontro: — Ecco, diceva meco stesso, com’è questo popolo, che gli uomini in tocco e in sottana, i Coribanti d’ogni colore passati agli onori del tabernacolo, s’ostinano a gridare pigro, [p. 42 modifica]ottuso e nimico di ogni generoso affetto. Oh, lasciate pure che ne dicano corna, e lo disdegnino in tutto l’anno, ma verrà un dì che gli faranno buona ciera e carezze, la vigilia cioè del pubblioo comizio, quando l’interesse li vellica a gridare a’ quattro venti, che tutto viene dal popolo, e che senza il popolo nulla si può, nè si deve mai fare. Passato il pericolo, li vedete voi come mutan modi e linguaggio!

La virtù non è cosa nuova, e fiorisce dovunque; ma, più che ne’ piani popolosi, nelle città marinare o nelle primarie metropoli, la troverete fulgida e bella di verecondo candore nelle gole dei monti, in seno di valli romite, sulle ardue cime delle alpi: ivi il lavoro, la semplicità, la buona fede, i vicendevoli affetti sono più vivo cemento di concordia, di pace e di quiete; e le gare, le ambizioni, gli scialacqui, i piaceri non vi hanno ancora risvegliato tutte le più perniciose febbri della corruzione e del vizio.

Ai monti si è più prossimi alle semplici costumanze della natura!

«O più bella che questo almo giocondo
Lume, che universo orna ed avviva;
O tu, che d’altro più sublime cielo
Muovi, e se’ luce di più nobil mondo,

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Pura immortal virtude,
Se l’umil prego a tanta cima arriva,
Per Dio, saetta de’ tuoi raggi e sgombra
Parte del fosco velo,
Onde l’errante secolo t’adombra;
E mostra tue bellezze, conosciute
Ben altramente a la stagione antica;
Sì ch’ogni tua nimica
Alma discerna al folgorar tuo santo,
Chè senza te noi siam viltade e pianto.2

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Note

  1. Si noti la data del racconto, 1865.
  2. Giovanni Marchetti, Rime e prose.