Ricordanze della mia vita/Parte terza/XXXI. La morte della mia mente

XXXI. La morte della mia mente

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XXXI

(La morte della mia mente).

versi


     È morta, è morta! Due gemine stelle
lucevano nel cielo: una si spense
e cadendo vanì: l’altra sorella
senza luce rimasta e senza amore,
per gl’infiniti, oscuri, sconsolati
spazi dell’universo va piangendo
e cercandola invano. Alle compagne,
che van pel firmamento pellegrine,
e scintillano liete del sorriso
di quella Intelligenza che le move
e le innammora, chiede l’affannata:
«dite, dov’è l’intelligenza mia?»
«È morta», le rispondono, «è caduta
nel nulla che circonda l’universo».
La disperata prosegue l’andare.
E al nulla va, ché non desia che il nulla.

     Rinverdirá, rifiorirá quel tronco
che il turbine e la folgore percosse,
e solcato lasciò di larghe piaghe?
L’albero rigoglioso or fatto è brullo
e secco tronco; e di vitali umori
piú la terra nol nutre inaridita.

     O giorni lucidissimi, o sereni
della mia giovinezza, dove siete?
Una tenebra fitta e dolorosa
stammi d’intorno; il lume che splendeva
nella mia mente è spento, e l’armonia
che dentro il cor mi risonava, or tace.
Orbo cammino, e levo il mento in suso

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disiando che vengami negli occhi
un raggio di bellezza: brancolando
cerco il vero e nol tocco: ad ogni passo
par che mi si apre sotto i piedi ignota
voragine, entro cui precipitando
i’ non vi trovo mai fondo, né morte.

O Lume, o Mente, o Intelligenza mia,
dove se’ tu? Come garzon che piange
su l’amata fanciulla che per lento
morbo sfioria languendo e si moriva:
cosí piango su te, che a poco a poco
vidi mancarmi, e disparire in guisa
di fumo che nell’aere vanisce.
Chi mi rapì la mia diletta? Forse
sí bella altrui non era: a me leggiadra
m’inleggiadria tutte le cose. Meco
ella nacque, e gemelle innammorate
trascorrevam le solitarie vie
della vita mortale, riguardando
serenamente gli uomini, e le loro
gioie, e gli affanni, e l’opre, e l’insolente
giuoco della Fortuna, e le rovine
del tempo, lento domator del tutto.
Era amore ogni cosa intorno a noi.
Noi sentivamo il palpito segreto
della terra, che d’erbe, d’animali
e di tutti i colori e le vaghezze
s’ammanta per parer piú bella al cielo,
che la mira con tanti occhi ridenti.
E quando vedevam piú forti e ardite
nell’aere librate altre gemelle
gli spazi navigar del firmamento:
«levati», mi diceva, «Anima, ardisci»;
e del disio portate entrambe il volo
dell’aquile prendendo, fin nel sole
giungemmo, e quivi a due vive fontane,
donde talor piovon spruzzi in terra,
bevemmo il vero e il bello. Oh, vita mia,
or chi mi guida il volo, ed a quell’acque
mi riconduce? Per me spento è il sole,
seccate le sue fonti, e in mezzo al buio
dell’universo un ventilare io sento:
certamente è la morte che a me viene.

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     Il tagliar d’una spada
apremi le palpebre,
e una voce m’interroga: «Che vedi?»
«Una spada rovente
in questo universale tenebrore
splender sinistramente».
«Or ch’hai veduto, credi.
La spada del dolore
è il solo ver che esiste in mezzo al niente.
Quella che chiamano — luce di scienza
è breve tenue — fosforescenza
che delle lucciole — sta sotto l’ale.
Perché la dicono — luce immortale?

               «La parola creava
          un mondo, e il colorava.
          Ed essa d’ogni cosa
          è la sustanza ascosa,
          il nocciolo del frutto
          che vietato e gustato
          produsse tanto lutto.

               «Cosí gli uomini sciocchi
          credettero con gli occhi
          proprio di vedere
          le ragioni immortali
          e de’ beni e de’ mali.
          Ma fu solo un parere
          fu un’eco ripercossa
          a cui dier polpa ed ossa.

               «Il vero è tutto buio,
          e non ha alcun colore,
          come il tempo continuo
          non distinto per ore
          né altro se ne sente
          che il dolore del niente.
          Questa vostra ragione
          s’affatica s’affanna
          con un bocciuol di canna
          far bolle di sapone:
          che vaganti, tremanti,
          infine si disciolgono

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          in gocciole di pianti.
          Ed a voi par che in mano
          tenga del mondo il perno,
          e ne sieda al governo.
          Sì, ne avete le prove!
          Quanto riso mi move
          questo genere umano!»

               Questa voce crudele
          il cor m’empie di fiele.
          O mia mente perduta, dove sei?
          Salvami da costei.

12 maggio 1855.