Ricordanze della mia vita/Parte terza/XXIII. Il gruppo degli ergastolani politici

XXIII. Il gruppo degli ergastolani politici

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XXIII. Il gruppo degli ergastolani politici
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XXIII

(Il gruppo degli ergastolani politici).

Santo Stefano, 15 dicembre (1854).

Da che tutti i ventidue ergastolani politici siamo riuniti in queste due stanze, che hanno due finestre sul mare, l’ergastolo ci fa meno orrore. Io sento che mi ritorna un’aura di vita nella intelligenza che m’era spenta del tutto: non odo piú parole orribili di sangue e di misfatti: non vedo quelle facce, quelle belve parlanti, o le vedo quando voglio e sol da lontano. Siamo tra noi, abbiamo il gran conforto di poter liberamente parlare, di guardarci in viso senza dover subito bassare gli occhi per l’orrore, di guardare un’isoletta, il mare, e pochi battelli pescherecci: di dormire la notte senza udire il russare dell’assassino. Io non ho piú vicino a me quel calzolaio che mi martellava il cervello per tutto il giorno, e nelle prime ore della notte, quando cominciavo a dormire, ei mi svegliava con quello spietato martello che mi ammaccava e mi lacerava tutte le membra del corpo. Ora vicino al mio letto sta quello del mio buon Gennarino1, che la sera non si addormenta se prima non mi parla della sua famiglia e del suo paese, e di mille cose piacevoli, dopo le quali a un tratto prende un atteggiamento fanciullesco, si mette la mano sotto una guancia e s’addormenta: e la mattina prima di far giorno entrambi poggiamo una tavoletta sul letto suo o sul mio, e sovr’essa facciamo il caffè, che beviamo insieme.

Ieri sera mentre eravamo tutti coricati, e Gennarino mi narrava ciò che tante volte mi ha narrato, e che sempre mi par nuovo e mi dá nuovo dolore, il penoso viaggio che egli [p. 378 modifica] fece da Pescara a Gaeta, il dottore Innocenzo Veneziano che udí questo discorso, ci narrò distesamente come per ventisette giorni dall’ultima Reggio sino a Napoli egli con suo fratello, con Francesco Bellantonio, e con una quindicina di malfattori, fu menato a piedi, legato i polsi dalle manette, le braccia dalle funi; cosí mangiavano, cosí dormivano e solamente quattro volte in ventisette giorni furono disciolti dalla crudelissima catena ond’erano legati giorno e notte, perché fermaronsi quattro volte in quattro carceri sicuri. Gli strazi patiti dal povero dottore, dal fratello podagroso, condannato alla galera ed ora nel bagno di Procida, e dal giovane Bellantonio sono stati l’argomento d’un lungo e doloroso ragionamento iersera, e di un crudele sogno che io ho fatto stanotte. Nel quale mi pareva di essere anch’io legato cosí e trascinato dai gendarmi, e sentiva ribollirmi tutto il sangue agli insulti che quella gente stoltamente e ferinamente crudele faceva a me ed agli altri: e parevami che io avessi a un subito tanta forza da sciogliere tutti, ma non me stesso che mi sentiva legato da mani e da piedi da’ gendarmi che solo me volevano trascinare per terra per vendicarsi di me che aveva sciolti gli altri.

L’ergastolo è la casa de’ sogni: qui si sogna ad occhi aperti, e ad occhi chiusi: perché la speranza, che è il sogno de’ desti, ci fa parlare il giorno, ci muove il cervello la notte. La mattina come apriamo gli occhi, ciascuno, come tra persone oziose, racconta i suoi sogni, che sono fantasie stranissime. Ravvolti i letti, e spazzata la stanza ciascuno pensa a cuocersi il cibo, che è fave, o fagiuoli, o ceci, o lenti, o pasta, e raramente si ha un po’ di carne, o un po’ di pesce, e non da tutti. Mentre i fuochi ardono, e le pentole bollono, (finalmente dopo tante fatiche abbiamo potuto dimostrare e persuadere che i carboni sono innocenti nelle mani nostre, e che ci servono per cucinare non per fabbricare coltelli) alcuni fumano, alcuni passeggiano, altri chiacchierano a sproposito, altri legge, altri scrive, altri fa niente, altri sbeffa; spesso sembriamo una gabbia di matti. Mezz’ora prima del mezzodí ciascuno spiega una salvietta su le tavole del suo letto, o [p. 379 modifica] sovra a un tavolino che s’apre e si chiude come un libro, pone su la salvietta un pane, un orciuolo o un bicchiere d’acqua, una scodella entro cui versa il cotto, e quasi tutti a un tempo pranziamo, e compagnescamente l’uno offre all’altro di ciò che ha. Pochi mangiano a coppia: quasi tutti soli; spesso per un giorno o piú si uniscono due o tre, poi ciascuno torna solo. Le continue sofferenze ci han renduto tutti bisbetici; la mancanza di ogni libertá fa desiderare a ciascuno di essere liberissimo in ciò che egli può. L’ergastolano è un uomo d’eccezione, diverso da tutti gli altri, anche dagli stessi condannati ai ferri; certi giorni, certe ore del giorno ha la febbre. Se si facesser tra noi alquante compagnie, se uno in ciascun giorno o in ciascuna settimana, avesse l’incarico di provvedere o di cucinare per gli altri, costui avrebbe un peso enorme, si sentirebbe oppresso da un giogo insopportabile. E poi non v’è spazio, non vi sono utensili, non vi è maniera d’accomunarsi nel desinare. Se n’è fatta molte volte esperienza: ma ciascuno ha desiderato di esser libero anche nel suo capriccio. Oh chi è condannato a viver tutta la vita sua nell’ergastolo, talor s’incresce anche di sé stesso! Per amarci, compatirci, e vivere insieme, ciascuno di noi deve poter dire: «In questo io son libero».

Mezz’ora dopo il mezzodí quasi tutti si coricano, pochi, tra i quali io, escono sulla loggetta a passeggiare, se è buon tempo; se no, si rimane al proprio posto tacitamente, ed io mi distendo su le tavole del letto e o leggo o penso. Quando i dormenti si svegliano (e si dorme anche di questa stagione per non avere che fare) si ricomincia a parlare, passeggiare (passeggiare mo’, si passeggia come il leone nella gabbia, si danno sei sette passi, e si dá la volta), a fumare, a leggere, a sospirare, a fremere, a fare ciò che non si può narrare esattamente, ma può essere immaginato da chi è stato in carcere.

Col cadere del giorno son chiuse le stanze in cui siamo; e chi mangia un po’ di pane e cacio, o qualche cibo rimastogli dalla mattina, chi si aggruppa con un altro sopra un letto a parlare, e chi si mette a studiare. A due ore di notte cessa [p. 380 modifica] lo studio: si chiacchiera un po’, spesso si chiacchiera a lungo, e poi tutti andiamo a letto. Cosí un giorno, cosí tutti i giorni.

Io, per aver tempo di studiare, per non imbrattarmi, e per non fare ciò che non saprei, e che, facendolo, mi darebbe una noia e una stizza grande, mi fo fare il cotto da un buonissimo e carissimo giovane di Reggio, a nome Francesco Bellantonio, che ho creato mio siniscalco. Spesso, forse un due o tre volte la settimana, pranzo col mio carissimo Gennarino, e con Francesco de Simone, galantuomo di Cosenza, condannato alla galera per i fatti del 1844, e poi pei fatti del 1848 condannato all’ergastolo, bravo, affettuoso, leale, amato moltissimo da Gennarino, che lo chiama per celia: «Signor zio», ed amato anche da me per molte sue buone parti. Il mio siniscalco è un giovane di ventisette anni, ma della piú buona pasta del mondo; del piú bel cuore che io mi abbia conosciuto mai. Figuratevi un giovinastro alto, diritto, ben fatto della persona, e con lunga chioma, ma un uccellaccio, scapato, sventato, distratto, che parlando nel suo dialetto pare un tartaro, anzi gestisce piú che parla, e leva le mani in alto, e mugola inarticolatamente: che ora corruga gli occhi loschi e sorride, ora li straluna e piglia un atteggiamento goffamente tragico: facile a sdegnarsi, facile a placarsi, spesso in veste ed aria di gentiluomo, spesso tinto, lordo, affumicato, rabbuffato come un fornaio: e fornaio era la sua arte. Se ha per mano qualche faccenda, ed uno gli dice qualche parola, egli si dimentica la faccenda che ha per mano, leva alto le braccia e comincia a parlare per modo che bisogna chiamarlo, gridare, scuoterlo per farlo attendere. Buono, onesto, leale, affettuoso, sincero, segreto, ha avuto sempre l’affezione di quanti lo han conosciuto. Se i suoi paesani gli cercano qualche cosa, ei non sa dire di no; se non ha danari li toglie in prestito per soccorrere chi non ha. L’altr’ieri lo udii che chiamava a gran voce un ergastolano del pian terreno, e gli diceva: «Vedi, debbo dare un grano ad un vecchierello e non so chi sia: vedi tu, fa uscire tutti i vecchi». L’ergastolano non capiva, chiamava or uno, or un altro. Intanto ci fu [p. 381 modifica] persona che disse a Francesco: «Perché fai tanto rumore? Non ti è stato dimandato il grano, lo darai quando ti sará dimandato». E Francesco prendendo un’aria grave rispose: «Non voglio esser dimandato quando debbo dare, e se si scorda egli, non debbo scordarmi io». Fu trovato il vecchierello, e gli fu gettata la moneta.

Io non potrei mai descrivere a parola lo spasso che ci dá questo festevole e dabbene giovane quando ci narra le avventure della sua vita e le sue disgrazie con certe parole strane, con gesti, con atti, con tuono di voce indescrivibile. Quando egli parla si deve interpretar le parole, togliere le parentesi, e riordinare il discorso che comincia dalla coda e finisce al capo. «Io sono il Napoleone di Reggio», dice egli, «venite a Reggio, dimandate chi è Napoleone: e tutti vi risponderanno: ‘È Francesco Bellantonio’. Nelle sassaiuole che facevano tutti i ragazzi sul lido del mare io era Napoleone». E qui mostra molte cicatrici che ha sul capo e sulla fronte per sassate ricevute. «Una volta la signora spagnuola padrona del nostro forno aveva una bella servetta, io le posi l’occhio addosso, ed essa mi rideva, passò qualche tempo, essa mi dava sempre parole. Una sera la signora ed essa sole sole passeggiavano su lo stradone della marina, io le vedo, mi salta un pensiero di rubarmi la criata, me la afferro tra le braccia, che pareva una piuma, e scappo, e me ne vo dietro certi scogli. Poi mi ritirai al forno, e mi posi a dormire sopra una tavola. Stavo facendo un sonno saporitissimo, quando mi sento rompere le ossa: apro gli occhi e vedo la spagnuola che con una pala del forno mi menava forte, ed io strillava piú forte per farle capire che mi faceva male assai. Poi la signora mi chiamava, e innanzi molti galantuomini mi faceva contare come io rubai la criata. Giovanotto, con un cervellaccio pazzo, ne ho fatte, e ne ho fatte! la polizia m’acchiappava, e ma mamma correva dal cancelliere, portava, racconciava i guasti. Povera mamma! Povera mamma mia!»

Non è a dire se Francesco prese parte alla rivoluzione di Reggio del 1847: fu preso, battuto, strapazzato da persone [p. 382 modifica] di una certa contrada detta la Sbarra, e poco mancò che non fu fucilato. Quando narra questo fatto egli esce di sé, spalanca gli occhi, li fissa sul muro, sovra un letto, sovra una seggiola, sovra un orinale, e scuotendo il capo e col braccio e il dito teso: «Ah, Sbarrati», dice, «santo diavolo! debbo distruggere la Sbarra! Su, portate i cannoni: io sono il generale: assalite, mi ricordo quello che hanno fatto a me». Nel 1848 fu nelle bande armate di Calabria. Una notte una banda alloggiava in un casino, stavano coricati in un grande stanzone: Francesco mezzo brillo faceva la guardia fuori. A un tratto le travi che sostenevano il pavimento dello stanzone, si piegano, si spezzano nel mezzo, e tutti uomini, armi e masserizie fanno un mucchio senza grave danno di nessuno. Sbigottisce il povero Francesco, scende giú, apre una porta per fare uscire la gente, stende le mani, tocca una cosa pelosa, dice: «Fratello, ti sei fatto male?» Poi si sente un grande sbuffo, un fiato caldo, e vede una gran faccia cornuta: «Madonna!» dice: «Il diavolo!» e fugge. Era un bove che tentava di uscire dalla stalla! Passò in Sicilia e fece a schioppettate in Messina e in Catania: andò in Palermo, e di lá fuggi a Malta. Ma senza danari, confidando nell’amnistia pe’ fatti di Sicilia, e nella sua condizione oscura, tornò, ma fu arrestato. De’ fatti di Sicilia non fu accusato, anzi non ne fu neppure interrogato: ma fu accusato di cospirare contro lo stato con un galantuomo in casa del quale egli soleva andare. Egli dice: «Io credeva che l’accusa era una chiacchiera. Cospirazione! che cosa è cospirazione? Ma aspetta la sentenza, e don Cristofaro è condannato alla prigionia, Bellantonio all’ergastolo. Vedete che giudizio di cristiani avevano i giudici! Bellantonio era piú di don Cristofaro. Sapete chi è Bellantonio? E piú di Poerio, il quale fu condannato a 24 anni, e Bellantonio all’ergastolo». «Ma tu che cosa volevi quando pigliasti le armi?» «I diritti miei». «E che cosa sono i diritti tuoi?» «La giustizia».

Io non saprei dire se è peccato o vergogna, ma forse è l’una cosa e l’altra, l’aver mandato all’ergastolo un povero giovane fornaio. Ha imparato qui a leggere e scrivere, e gli [p. 383 modifica] è stato maestro Gennarino, il quale lo ama moltissimo, e scherza sempre con lui, ed è il suo confidente. Giorni fa gli capitarono fra mani non so come le lettere di Annibal Caro: ed egli dopo di aver letto un pezzo, venne da me, e mostrandomi il libro, ed a stenti compitando la parola conciossiacosacché, mi dimandò: «Che significa questa santa diavola di parola?» Io non sapendo che rispondergli per farglielo capire, me ne uscii pel rotto della cuffia: «È una cosa simile al tuo santo diavolo».

Povero Francesco! quanta pena mi fa a vederlo nell’ergastolo!


Note

  1. Gennaro Placco.