Ricordanze della mia vita/Parte terza/XLVI. Le domande di grazia

XLVI. Le domande di grazia

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XLVI

(Le domande di grazia).

Santo Stefano, 22 dicembre 1856.

 Gigia mia carissima,

Iermattina ho ricevuto per Giuseppe la tua carissima lettera, lo zucchero, il caffè, lo spirito, il rosolio; e te ne ringrazio.

Per l’affare di don Salvatore1 debbo dirti chiaramente che hai fatto male. Queste cose non si consigliano, né si sconsigliano a nessuno, ma si deve lasciare che ognuno faccia da sé, secondo l’animo, il sentimento, la persuasione che ha. E non è a dire che uno rappresenta il principio, e un altro non lo rappresenta: perché tutti i prigionieri politici rappresentano il principio politico. Se fosse stato possibile io avrei desiderato che nessuno avesse fatta dimanda, desidero che la facciano quanti meno è possibile; non impedisco ad alcuno di farla, non lo consiglio ad alcuno. Qui nessuno l’ha fatta, e nessuno vuol farla. Salvatore dice, e mi pare che questa sia una delle poche volte che dica bene, che egli non otterrá mai grazia, anche facendo mille dimande; e se anche ottenesse la grazia, egli in Napoli, continuando lo stato presente delle cose, non potrebbe dare alla famiglia l’aiuto che da lui si spera. Qui forse non verrá la dimanda per farla sottoscrivere da lui, ma se verrá, egli dice che non la sottoscriverá, perché non gli conviene dimandar grazia. Sai che significa fare una dimanda? Riconoscere che tutte le oppressioni, le illegalitá, le persecuzioni, le condanne, tutto il procedere del governo da otto anni in qua è stato giusto: che quel che abbiamo sofferto e sofferiamo è poco, e ce lo meritiamo. Ti credi tu che [p. 434 modifica] queste dimande si vogliono perché il governo è mutato, e ci vuol bene, e si dispiace di quel che ha fatto? Tutto al contrario: per pubblicarle dipoi, per avvilire e calpestare quelli che le fanno, e per poter dire ai forestieri: «Vedete quanti si sono riconciliati con me, hanno accettato quello che io fo, hanno riconosciuto che il mio operare è giusto: gl’irreconciliabili, i liberali, sono un centinaio: e per un centinaio volete che io muti condotta?» Il fare la dimanda non è un discapito di dignitá personale, ma è un offendere un rinnegare quella fede politica, che tutti dai primi agli ultimi siamo obbligati per onore di mantenere salda e pura; è un affare pubblico non particolare. Io so bene che molti sciagurati ed ignoranti, senza fede e senza coraggio sono discesi sino alla bassezza di dimandar grazia: so che continua una febbre, una libidine sfrenata di queste dimande: e me ne duole assai per la mia patria. Mi compiacqui del modo onde tu rispondesti per me. Io ti predico una cosa, che poche di queste dimande saranno esaudite, pochi avranno grazia di libertá: agli altri per grazia sará offerto di andare in America. Vedi dunque di tirarti fuori da questo impaccio, facendo osservare a donna Mariannina la difficoltá anzi l’impossibilitá di una grazia per don Salvatore; e che questi, ancorché avesse l’impossibile grazia, non potrebbe per dar pane alla sua famiglia rimanere in Napoli.

Attendo che tu mi dia altri ragguagli, che avrai giá saputi da tuo nipote, sul nostro esilio in America. Filippo non ci crede troppo, e dice che non verrá, e resterá qui: cosí dicono molti altri vecchi o ammalati che non reggerebbero a sí lungo viaggio. A Silvio è stato scritto che la nostra andata potrebbe effettuasi anche prima di aprile o maggio. Io vorrei che fosse presto per ritornar presto, e per riunirmi presto a te, o mia diletta, e a quel caro figliuolo nostro. Chi sa se l’attentato contro la persona del re potrá impedire, o ritardare questo fatto, il quale per altro ne è indipendente2, e potrebbe [p. 435 modifica] effettuirsi sempre: ma il volere del re non può mutare? Desidero che tu mi dica che ne pensa tuo nipote, e se il Panizzi sa niente di questo contratto, e che ne dice. Per me non mi spaventa né il viaggio, né nulla: vedo solamente dietro a me il terribile ergastolo che abbandono, ed innanzi a me la mia Gigia ed il mio figliuolo, che io ritrovo dopo sette anni di lontananza e di dolori.


Note

  1. Il fare la domanda al re per ottenere la libertá. [N. di R. S.]
  2. Il testo ha erroneamente: «non è indipente». [N. d. E.]