Ricordanze della mia vita/Parte prima/XVII. Ritorno al mondo

XVII. Ritorno al mondo

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Parte prima - XVI. Quindici mesi a disposizione della polizia Parte prima - XVIII. Pio IX

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XVII

Ritorno al mondo.

«Sei stato tre anni e mezzo in prigione, hai perduto una cattedra acquistata con onore, la tua famiglia ha sofferto tutti i dolori e tutte le privazioni, tu ingoiate tante amarezze, e tutto questo perché? per una poesia, anzi per una pazzia. Hai fatto gran male a te ed ai tuoi, e qual bene hai fatto agli altri? Chi ti ringrazia? chi ti compatisce? chi ti conosce pure di nome? nessuno. Ma ti pare serio il proposito di ringiovanire l’Italia, di scoparne tutti i principi, e di ordinarla in una grande repubblica? E poi con le chiacchiere e le carte? E non guardi questo popolo, a cui tu sogni di dare libertá, che non la vuole e non la merita? Pensa un poco a te, ed a vivere quieto».

Cosí mi diceva taluno, ed aveva ragione allora. Io non rispondeva, né discuteva mai, perché in cose di sentimento non si discute: ma chi ama un’idea o una persona, piú soffre per lei, piú se ne innamora. Mi messi a lavorare, cioè ad insegnare: andavo per le case altrui, ché in casa mia non potei ottenere mai permesso di avere uno studio. Il commessario Marchese mi disse: «Cotesto non lo domandate neppure, non che sperare di ottenerlo mai». Ma un vecchione liberale del ’99 che mi voleva bene, mi disse: «E non sai tu che in Napoli tutto è permesso senza permesso? Non dare agli occhi, e fa come puoi». Io dunque presi ad insegnare anche in mia casa a pochi giovani, che non mai furono piú di dieci. Era una vita amara quella di andare correndo per le case dei signori, era il mestiere affannoso dello zampognaro, che viene, fa la sonata, e va via; ma io la facevo volentieri, e lavoravo sino a la stanchezza. Cosí campavo la vita, e cospiravo ancora, perché insegnare per me era cospirare e non piú a chiacchiere [p. 140 modifica] con gli adulti, ma fare innamorare i giovani di certe veritá e di certe bellezze, e innamorati che sono faranno da sé e faranno davvero. La polizia mi sorvegliò un pezzo. e come vide che io non mi occupavo che di studi, e che lavoravo da mattina a sera, e non andavo in pubblici ritrovi, e non parlavo di cose pubbliche, e non pubblicavo alcuna scrittura, disse: «L’abbiamo ammaccato: faccia il maestro di scuola per vivere». Non mi vedevano, non udivano il mio nome, mi dimenticarono. Questo io volevo.

Cosí vissi sino al 1848. Di me dunque io non ho a parlare, ma del mondo che mi stava intorno, e del gran dramma che si svolse innanzi agli occhi miei.

Il soldato, il prete, ed il maestro di scuola sono i soli uomini che fanno le rivoluzioni: il soldato ed il prete hanno sinora comandato il mondo, il maestro di scuola attende la sua volta, la quale verrá quando il mondo sará guidato non dalla forza né dal sentimento, ma dalla intelligenza: e pare che si avvicini perché oggi, risorgendo il popolo, prevale il maestro che deve sollevarlo con la scuola. Gli uomini che fanno il mestiere di soldato, di prete, e di maestro di scuola sono pochi e male retribuiti dell’opera loro: chi può degnamente retribuire il soldato, il buon prete, il maestro che educa ed istruisce? E il mondo stima poco quello che paga poco, e però tiene questi uomini in poco pregio. E veramente chi vuol fare uno di questi mestieri per solo fine di guadagno lo fa male, ed è meritamente spregevole: perché senza una grande abnegazione, senza un grande animo, e senza poesia non si è bravo soldato, non si è buon prete, non si è maestro ed educatore degli uomini. Io l’abnegazione, l’animo e la poesia le sentiva in me, e però credevo e credo di esercitare professione nobilissima, necessaria a la mia patria, e dirò ancora principale nella presente condizione dei tempi; io aveva chiara coscienza di quello che facevo, e sapevo di mettere anche la mia mano ad una grande opera. La rivoluzione del ’48, si disse, fu fatta dai maestri di scuola, i quali, come non avvezzi, sbagliarono, ma si corressero nel ’60: io dico che la [p. 141 modifica] grande rivoluzione europea è stata fatta dal popolo, e chi ha educato ed ammaestrato il popolo l’ha prodotta.

Per intendere quello che avviene in Europa da ottant’anni in qua, e prevedere nei limiti dell’umana prudenza quello che dovrá avvenire, bisogna farsi col pensiero alcuni secoli indietro, quando l’Europa era tutta feudale, ed ogni suo stato era composto ed ordinato di tre elementi, re, baroni, plebe. Questo antico ordinamento si scompagina: i baroni odiati dal re di cui vorrebbero usurpare i poteri, odiati dalla plebe di cui sono oppressori immediati, a poco a poco vengono depressi, e poi distrutti. I due vincitori crescono e da prima si fanno carezze tra loro: il re feudale diventa monarca assoluto, la plebe diventa popolo, cioè comincia ad acquistare coscienza d’uomo: i re scrivono nuovi codici pei popoli, i popoli dánno nuove lodi ai re, e nella seconda meta del secolo passato ci furono quarant’anni di pace cordiale. Della monarchia assoluta nel secolo passato sono rappresentanti i Borboni, che depressero il feudalismo in Francia e cacciarono i gesuiti da tutti i loro stati. I due vincitori, come suole avvenire, tosto vennero a contesa tra loro: il popolo, che era nuovo e forte nella novella vita, distrugge interamente i baroni, e comincia un fiero duello col re, al quale dice: «O ti trasforma o muori». Il duello cominciò in Francia, poi si sparse in tutta l’Europa, e tutti riguardarono a la Francia. I Borboni non seppero trasformarsi, e forse non potevano perché essendo stati nobilissimi rappresentanti d’un principio non potevano divenire rappresentanti di un altro principio; e però, dopo di essere varie volte caduti e risorti, sono caduti nè piú risorgeranno. Il popolo vincitore sente il bisogno di riorganarsi, e il riorganamento chiamasi costituzione; quindi ogni grido popolare dice costituzione. Ma quale sará il riorganamento naturale del popolo, quale la costituzione in cui potrá adagiarsi ed acchetarsi? Questo è il gran problema che non si scioglie con le carte e gli statuti che sono ordinamenti esteriori e posticci; ed ogni popolo ne ha lacerati parecchi, e piú di tutti la Francia; ma si scioglierá col tempo e coi travagli, ché il [p. 142 modifica] popolo è come il bambino che impara a camminare dopo molte cadute. Il popolo di Francia poi ch’ebbe atterrato il suo re, sfuriò in repubblica, che negò tutto il passato; poi si compose a monarchia militare assoluta, e con le armi dominò l’Europa, ma accorgendosi che la monarchia militare assoluta faceva rivivere un’idea che non deve piú rivivere, abbandonò l’uomo che la sosteneva. I prìncipi di Europa cercarono di restaurare tutto il passato, e ricondurre i popoli alla soggezione antica: nel 1793 il popolo atterra il re; nel 1815 il re atterra il popolo; sono queste le vicende della lotta, ché né l’uno né l’altro può morire ancora. L’Encelado che pare fulminato è vivo, e sdegnato per l’offesa, e brontola cupamente: tutta l’Europa da un capo all’altro pare un terreno vulcanico, dal quale sorge qua un buffo di fumo, lá una vampa, piú in lá una fiamma, e mentre credi di spegnere in un luogo arde in un altro, finché non si apre terribile il vulcano. Dal 1815 al 1848 in tutta Europa, or qua or lá, non ci fu un anno senza una vampa rivoluzionaria. Non era una setta, e molto meno un uomo, che moveva tutto questo; ma era un moto che nasceva da sotterra, dalla coscienza mutata di tutti i popoli di Europa, da una vita nuova che cominciava: le sette non erano che manifestazioni di questo moto interiore, e l’uomo non era che uno il quale formolava quello che tutti sentivano e non sapevano esprimere. L’Europa ha mutato il suo organismo: il suo feudalesimo è finito; rimane monarchia e popolo, che lottano insieme; e dove la monarchia diventa popolare ella dura, dove no, muore. Se io scrivessi il gran dramma della storia dal 1815 sino ad oggi, io vorrei fare come un quadro di tutti i moti rivoluzionari in ciascun anno in Grecia, in Italia, in Ispagna, in Francia, nel Belgio, nella Svizzera, nell’Austria, nell’Ungheria, nella Germania, e sino in Russia ed in Inghilterra; e mostrare come tutti i popoli d’Europa mossi da comune bisogno si movono allo stesso scopo, e uniti dalle ferrovie e dai telegrafi ormai formano un solo e grande popolo, un gran corpo che si agita perché deve riorganarsi ad una vita nuova e grande. Ma io scrivo le mie [p. 143 modifica] ricordanze, e dico solamente quello che io vidi innanzi a me, un Borbone il quale non vedeva né voleva saper nulla di tutto ciò che accadeva nel mondo, udiva e non intendeva la voce dei suoi popoli che si agitavano con moti piú frequenti che gli altri popoli d’Italia e le altre nazioni di Europa.

Chi leggesse un buon diario politico di quegli anni troverebbe che i moti di rivoluzioni piú frequenti furono nel Regno delle Sicilie e nello Stato del papa. E la ragione è questa: erano i due governi peggiori, che piú opprimevano, ed erano composti non di uomini d’ingegno, e forti, e naturalmente maggiori degli altri, e però temuti e rispettati, ma da ignoranti e stolti, per modo che ogni omicciattolo si credeva maggiore di essi e si sdegnava di dover ubbidire a cosí fatti. E l’oppressione scendeva sino a le ultime classi del popolo; ed in ogni paesello il prete il gendarme regnavano spietati su le misere genti, e con arbítri, estorsioni, e soperchierie d’ogni maniera, pungevano ed irritavano chi stava sotto. Nel Lombardo-Veneto c’era lo straniero, che è peggiore di ogni tirannide paesana; ma lí lo straniero era forte, non stolto, puniva feroce ogni reato politico; ma favoriva la buona amministrazione interna, ed era giusto con tutti fra certi limiti: lí erano come due campi, in uno gli stranieri, nell’altro il popolo tutto unito che pur faceva qualche buona cosa da sè, e non si moveva facilmente perché capiva che non poteva togliersi facilmente dal collo un esercito straniero. Noi altri per contrario si aveva la tirannide fraterna, che è la piú crudele fra tutti, e non era Ferdinando il tiranno, no, ma il prete, il gendarme, il giudice regio, il ricevitore, qualunque impiegato con potere, che non ci lasciavano un’ora di pace, che continuamente, ogni giorno, e in piazza e in casa ci stavano ai fianchi, e ci dicevano come il ladro: «O dammi o ti pungo». Questa oppressura corrompe una nazione sin nelle ossa. Tutti se ne lamentavano, finanche gli oppressori piccoli che erano schiacciati dai grossi: onde ciascuno era persuaso che se pochi arditi levassero una bandiera e si mantenessero per quindici giorni, gli oppressi, che erano tutti, correrebbero a loro e [p. 144 modifica] rovescerebbero un governo stolto e malvagio. Questa persuasione spiega i moti napoletani tanto frequenti, i quali senza essa sarebbero ⟨stati⟩ una pazzia. Basta cominciare, e durare un po’, si diceva da tutti, e non mancavano uomini arditi che rispondevano: «Cominceremo noi», e se fallivano, ne incolpavano la fortuna, e c’erano altri pronti a ritentare la prova. Era giusta quella persuasione? A quelli che vogliono il bene soltanto da la mano di Dio pareva di no; agli animosi pareva di sí, ed ebbero ragione dal tempo.

Mentre noi eravamo ancora in carcere nel 1841 la cittá di Aquila levò il grido di costituzione. Avevano preso accordi coi paesi vicini, e con altre cittá degli Abruzzi, e con Napoli dove dicevano che un reggimento nella festa di Piedigrotta dell’8 settembre si solleverebbe, ed essi l’8 settembre si sollevarono, e uccisero il comandante le armi della provincia colonnello Gennaro Tanfano odiatissimo. Ma né i paesi vicini, né Napoli si mosse, e gli Aquilani rimasti soli provvidero ai casi loro, e i capi si salvarono con la fuga. Fu spedito all’Aquila un generale, e furono tratti innanzi la commissione militare centotrentatré accusati, ne furono condannati cinquantasei, quattro fucilati. Il governo sospettò che il marchese Luigi Dragonetti avesse dovuto aver parte in questo affare, ma non avendo pruove, si contentò di relegarlo tra i frati di Montecassino.

Fallito il tentativo dell’Aquila, ecco Cosenza offerirsi pronta a ritentare la pruova. Ci erano simiglianti accordi, ed il disegno di entrare in Cosenza, farvi la rivoluzione, e poi ritirarsi su i monti, e formare bande, e chiamare all’armi le Calabrie, la Sicilia, il regno. Il 15 marzo 1844 una mano di giovani armati entrano nella cittá, percorrono tutta la via della Giostra, si fermano a Portapiano dove piantano la bandiera tricolore, e attendono i compagni. I gendarmi dopo qualche esitazione escono comandati dal capitano Galluppi, figliuolo del filosofo, il quale li assalse a cavallo. «Capitano, ritiratevi, noi non l’abbiamo con voi, e non vogliamo sangue», disse una voce. Ma il Galluppi spronò il cavallo, e una palla lo colpí in un [p. 145 modifica] occhio e lo fece cader morto. Cominciarono le fucilate; la bandiera fu difesa ostinatamente e vi morirono cinque intorno. Caduta la bandiera i giovani si dispersero e uscirono della cittá, e ciascuno si nascose, e parecchi non furono conosciuti. Si venne agli arresti, ed al giudizio della solita commissione militare: sette furono fucilati: altri quattordici condannati a morte furono per grazia mandati all’ergastolo, molti altri in galera diversamente tormentati.

Intanto in Napoli la polizia arrestò Carlo Poerio, Francesco Paolo Bozzelli, Matteo d’Augustinis, Mariano d’Ayala, Michele Primicerio, Cosimo Assante, Domenico Assante, ed altri, creduti capi ed ordinatori di tutte le rivoluzioni. e li chiuse in Castel sant’Elmo.

La rivoluzione di Cosenza, anche per questi arresti, levò un certo grido, ed i giornali ne parlavano, ed un giornale di Malta, Il Mediterraneo, dando come fatto ciò che era stato disegno, diceva che gl’insorti s’erano ritirati su le montagne, che erano mille e cinquecento, che in vari scontri avevano vinti e messi in fuga i soldati del re, che le Calabrie erano tutte sollevate; «oh, chi va ad aiutare e guidare quei bravi calabresi»? I fratelli Attilio ed Emilio Bandiera, e Domenico Moro, veneti, uffiziali nella marina austriaca, e affiliati a la giovine Italia, si lasciarono prendere a queste bugie; ed impazienti e generosi, credendo che fosse giunta l’ora della grande insurrezione nazionale, disertarono, andarono a Corfú, dove si unirono al Ricciotti, al Nardi, e ad altri esuli italiani, e preso a guida un bandito calabrese detto il Nivaro, colá rifuggito, sbarcarono alle foce del fiume Nieto, e s’indirizzarono verso San Giovanni in Fiore in giugno di quell’anno 1844. Subito il bandito sparí. Come in San Giovanni in Fiore si seppe dal perfido Nivaro che erano forestieri, e gran signori, e con molti danari, le guardie urbane, guidate dal loro capo e dal giudice regio, corsero ad assalirli. «Siamo fratelli, veniamo per liberarvi, eccovi la bandiera italiana». Fu niente: le fucilate fioccavano: essi si difesero, alcuni caddero morti, gli altri furono presi, battuti, spogliati di quanto avevano, [p. 146 modifica] menati prigioni a Cosenza. La commissione militare li condannò; ed il 25 luglio nove di essi, tra i quali i due Bandiera, il Moro, il Ricciotti, il Nardi furono fucilati: gli altri mandati in galera. Morirono gridando: «Viva Italia», intrepidi, ammirati anche da quelli che li condannarono, pianti in segreto da tutti. Il piú giovane tra essi, Domenico Moro, di ventun anno, era bellissimo della persona, e il presidente della commissione avrebbe voluto salvarlo, e gli fece dire che chiedesse la grazia della vita, e penserebbe egli; ma il giovane che aveva l’animo bello come il corpo non volle, e morí senza macchia. Ho detto questo fatto che pochi sanno, perché si è parlato sempre dei Bandiera come figliuoli d’un ammiraglio e piú noti, e pochissimo del Moro. Eppure io ho letto alcune lettere non belle di Attilio Bandiera a re Ferdinando e al ministro Delcarretto, le quali stanno nell’archivio di Napoli, e a me furono mostrate e fatte leggere dal direttore Francesco Trinchera, il quale le serbava chiuse in un portafogli con altre carte riguardanti Agesilao Milano. Il Nivaro ebbe perdono, e visse libero: quei che presero quei nobili giovani furono fatti cavalieri dell’ordine di Francesco I, ebbero pensioni, impieghi, favori: la cittá di San Giovanni in Fiore ebbe pubbliche lodi di fedeltá, larghezze, remissione di alcuni dazi. Degli altri fatti avvenuti prima nel regno si era parlato poco, perché il Governo ne aveva detto quello che voleva, e i condannati erano regnicoli ed ignoti: di questo dei Bandiera, uffiziali austriaci e dei loro compagni appartenenti a diverse parti d’Italia, si fece un gran parlare in Italia e fuori, e re Ferdinando ebbe biasimo di crudele che fece morire nove uomini che avevano fatto come una mascherata di rivoluzione: e che avrebbe fatto di piú se quelli gli avessero sollevata una provincia davvero, e lo avessero combattuto? Ferdinando non usò clemenza, ma non violò le leggi.

C’era un’altra specie di cospirazione senza impazienze violenti, una cospirazione lenta, continua, palese, nella quale prendevano parte tutte le persone colte, tutti gli uomini di buon senno, e parecchi ancora di quelli che stavano intorno [p. 147 modifica] al principe, e gli erano grati per benefizi ricevuti, ma non potevano approvare tutti gli atti del suo governo, e le prepotenze della polizia, e l’onnipotenza del confessore monsignor Cocle. Alcuni sollevavano quistioni economiche, nelle quali era una celata censura del presente, e vagheggiavano l’unificazione monetaria in Italia; altri trattavano quistioni storiche, e Carlo Troya andava pubblicando i volumi della sua storia d’Italia; altri stabilivano in Napoli il primo asilo d’infanzia, quasi a rimprovero del governo che nulla faceva per rialzare la plebe; altri, specialmente il Puoti, si affannava negli studi della lingua, e nella lingua cercava suscitare il sentimento ed il pensiero italiano; altri, e fu Emmanuele Melisurgo, chiedeva di fare la ferrovia per le Puglie, e formava una compagnia di capitalisti, e rizzava la prima stazione, e pregò il re d’inaugurarla, ed egli promise, ma non vi andò, e il giorno appresso andò ad inaugurare la chiesa dirimpetto i Granili; e quella ferrovia non fu mai fatta, e Ferdinando di poi ne fu punito; altri finalmente notavano le stoltezze e le ingiustizie del governo, e ne parlavano senza paura, e lanciavano il motto che era subito ripetuto, e taluni anche fedelissimi non risparmiavano neppure il re. Il marchese di Pietracatella, presidente dei ministri, diceva in sua casa agli amici: «Io gliel’ho detto molte volte. Mettete in carrozza monsignore, e mandatelo ai confini: licenziate il gendarme, a cui avete dato troppo potere; dividete in due il mostruoso ministero dell’interno; ed il governo anderá senza innovazione. Noi leggi ed istituzioni abbiamo buonissime, gli uomini che si scelgono sono cattivi. Ma egli non vuol sentire». «È lui la cagione di tutti i mali», diceva Giuseppe Caprioli, giá segretario del re, e presidente della consulta, e divotissimo ai Borboni; «è lui che non sa fare il re, e rovinerá sé stesso ed il regno».

Stavano cosí le cose in Napoli quando ci venne un libro che fece una rivoluzione profonda in tutta Italia, il Primato del Gioberti. Noi eravamo servi, divisi, sminuzzati, spregiati dagli stranieri che ci dicevano una stirpe degradata, l’Italia terra di morti non di uomini vivi, non altro che un nome [p. 148 modifica] rimasto nella geografia e scancellato dal novero delle nazioni d’Europa; noi stessi ci tenevamo inferiori a tutti gli altri, e per tanti secoli di misera servitú avevamo offuscata la coscienza dell’essere nostro, quando costui ci dice: «Voi italiani, siete il primo popolo del mondo». «Noi?» «Sí, voi avete primato civile e morale sopra tutti». Non mai libro di filosofo, e neppure di poeta o di altro scrittore è stato piú potente e piú salutare di questo. Il Gioberti per fare entrare il libro in Italia e farlo leggere da tutti, e fare penetrare la sua idea nella coscienza di tutti, con fine accorgimento, non propone alcun mutamento, loda i príncipi, loda il papa, loda persino i gesuiti, non dicendo il falso, ma rivelando il bene, ammonendo con benevolenza, e mettendo innanzi una sua idea di una lega tra i príncipi italiani sotto la presidenza del papa. Dell’Austria non parlò. Il libro fu letto da ogni condizione di persone, e tra noi persino in corte, e la regina Isabella madre del re (non il re che non leggeva) lesse con gran piacere il Primato, e volle leggere poi gli altri del Gioberti e se ne scandalezzò, e diceva: «Il Primato sará sempre il primo». Prodigioso fu l’effetto del libro, scosse e sollevò la coscienza di un popolo prostrato: e questo fece non pure con ragioni nuove e potenti e vere, e con parola dominatrice, ma con accorgimento finissimo e senza offendere nessuno. I soli gesuiti se n’accorsero, e fecero scrivere una confutazione da un loro padre Curci: non l’avessero mai fatto; ché il Gioberti entrato in casa, e acquistata la benevolenza di tutti, disse il vero senza riguardi e scrisse il Gesuita moderno. Io non parlo della sua filosofia e della sua dottrina cattolica, che per me è parte esteriore e mutabile del suo libro, e in altri libri egli la mutò, ma considero il solo concetto, la idea madre del libro: la quale a molti parve allora una esagerazione: sí, ma fu un’esagerazione salutare e necessaria, e un’esagerazione, cioè uno sforzo straordinario, una gran fede ci voleva, per dire al Lazzaro quatriduano: «Tu sei vivo, sorgi e cammina». Ma oggi 1875 si può dire che fu veramente ed interamente un’esagerazione? Noi dopo di aver dato al mondo l’impero romano ed il [p. 149 modifica] papato, dopo di aver insegnato all’Europa tutto quello che sa, e di aver prodotti i capilavori nell’arte moderna, cademmo in un abisso di servitú e di miserie, e perdemmo sinanche il nome di popolo: e pure risorgemmo, ci unimmo in uno stato, rifacemmo l’Italia che ora si asside fra le grandi nazioni, ed ha un altro grandissimo ufficio a compiere, trasformare la coscienza cristiana di tutti i popoli civili. Senza grandi e singolari facoltá morali e civili non si fa tutto questo, non si risorge, e a questo modo, e con questo fine. Senza superbia adunque e senza voler dispregiare nessuno, si può dire che noi siamo naturati ottimamente, e che il buon Gioberti fu e poeta e profeta, e come filosofo civile non s’ingannò. L’Italia deve annoverare quest’uomo tra i suoi maggiori benefattori.

Siamo pure i primi, ma che dobbiamo sperar noi? Il Gioberti non ha voluto dirlo, ma bisogna che si sappia, e se ne discuta il come. Prima di ogni altra cosa trovar modo di liberarci da lo straniero; e stringerci intorno al papa, e ai nostri princípi naturali. Cosí diceva Cesare Balbo nel suo libro Le speranze d’Italia, che fu pubblicato un anno dopo, e non ebbe la forza e la potenza del Primato. Era cosa che sapevamo e volevamo da molti secoli. «Non è solo lo straniero ma il papa che è nemico d’Italia, e vi ha chiamato tutti gli stranieri, ed è la cagione di ogni divisione, di ogni corruttela, di ogni servitú nostra», diceva il poeta Giambattista Niccolini nel suo Arnaldo, che fu letto ed imparato a mente dai giovani. Insomma era come una grande discussione, che il Gioberti pose con arte e fece accettare da tutti, e ognuno vi disse la sua opinione, e il concetto si chiarí e dilargò, e piú tardi divenne azione, e poi fatto.

Intanto nel 1845 si raccolse in Napoli il settimo congresso degli scienziati italiani. Il primo era stato in Pisa nel 1839, e negli anni seguenti in altre cittá d’Italia: i príncipi e la stessa Austria li avevano accolti nei loro stati; solo papa Gregorio non ne volle in casa sua. Il ministro dell’interno Nicola Santangelo, che pur fece molte cose buone e sarebbe ingiustizia dimenticarle, lo propose al re, e lo difese: il [p. 150 modifica] Delcarretto e qualche altro consigliere della corona dicevano di no; ma spirava l’aura mossa dal Gioberti, e il re, che sapeva di essere tenuto nemico di ogni sapere, per mostrar falsa l’accusa, volle il congresso ed ordino che gli scienziati fossero accolti ed ospitati splendidamente, ed invitati anche a corte. Il congresso si riuní il 20 settembre nell’universitá, nella bella sala del museo mineralogico, e ci venne il re, e parlò, e disse come egli era lieto di accogliere nel suo stato il fiore degl’ingegni italiani, dai quali sperava che le scienze avessero incremento. Il Santangelo ne fu il presidente. In quei giorni venne a vedermi F. M. che fu mio caro discepolo, e acquistata l’amicizia del ministro Delcarretto era stato fatto giudice regio, e mi dimandò: «Non siete nel congresso anche voi?» «Non mi hanno voluto». «Come? e vi siete presentato?» «Sí, ed ho detto di aver laurea e nomina di professore, e mi hanno risposto che non basta. La risposta non mi ha fatto né caldo né freddo, e mi sono ritirato. Fui tra la folla il primo giorno, e forse ci anderò qualche altra volta per udire. E tu che fai con Sua Eccellenza?» «L’ho lasciato adesso: sbuffa come un toro e dice che questi scienziati gli danno molte noie per sorvegliarli, e mi ha mostrato un fascio di lettere sopra una tavola dicendomi: (Son tutte relazioni su questi signori). Stava nel suo studio, e scriveva, e si nettava la penna sul soprabito bianco che era tutto sporco d’inchiostro. Per voi poi meglio cosí, che non vi hanno voluto; ché il vostro nome sarebbe anche in quelle lettere». Finito il lavoro degli scienziati e delle spie, si cominciò a dire (ed erano voci suggerite dalla polizia) che dei príncipi italiani il solo papa aveva senno, che quegli scienziati eran tutti settari della giovane Italia mandati dal Mazzini in ogni parte per suscitarvi la rivoluzione. E poi che la rivoluzione avvenne: «Avete visto che era la setta? molti di quelli sono stati celebri rivoluzionari». Cosí dicevano e dicono ancora quelli che non sapendo né parlare né pensare se non imboccati dal prete non concepiscono che le rivoluzioni non si fanno per comando de’ superiori e di un capo setta, ma erompono dalla coscienza dei popoli. [p. 151 modifica]

Ma indi a poco quasi come contravveleno a la rivoluzione venne in Napoli l’imperatore Nicolò I di Russia, e fu alloggiato nella reggia. Ci venne con l’imperatrice che era stata alquanti mesi in Palermo per curarsi d’una malattia della quale si era risanata. Le accoglienze a quel gigante dei monarchi furono grandi e magnifiche, e re Ferdinando per questa amicizia si sentí piú forte e sicuro. Durante la sua dimora in Napoli le vie furono spazzate meglio, non si vide piú un mendico; gli agenti di polizia si diedero gran faccende, e il commessario Campobasso seguiva l’imperatore quando usciva in incognito, il quale una volta se ne accorse, e gli fu sopra, e, se quegli non diceva subito chi era, lo strozzava. Tornato a Pietroburgo mandava in dono al re quei due cavalli di bronzo tenuti a mano da due cozzoni i quali ancora si vedono innanzi la porta settentrionale della reggia, e furono lodati come opera di arte, e sono consiglio come s’hanno a tenere i popoli che sono bestie dai monarchi che sono gagliardi uomini.