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Quadro dell'uomo

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Lettera


L’Uomo ci si presenta sotto tanta diversità di aspetti, riunisce in se tante contradizioni, che non può fare a meno di non ci si manifestare ora per una creatura tutta celeste, ora per un ente tutto animalesco. Mediante l’anima ei partecipa con Dio in una maniera la più gloriosa e la più intima; mediante il corpo ei partecipa col niente in una foggia la più umiliante e sensibile. In quella si scorge un giorno il più luminoso, in questo una notte che accieca con le sue tenebre.

Or da questi diversi punti di vista procede che l’uomo secondo Lucrezio non è il medesimo che quello secondo Cartesio, e l’uomo ideato da Spinosa non è quello che è spiegato da Pascal, e che se noi vogliamo definirci in conseguenza delle nostre qualità e imperfezioni, bisogna ricorrere alla Religione per saper di preciso chi noi siamo.

Il Cristianesimo, che non ostante i soffi impetuosi della incredulità, ha sempre saputo reggersi nel giusto equilibrio, ci mostra l’uomo sulla terra e nel seno di Dio, come in un doppio centro da cui si è partito, ed a cui dee ritornare.

Gli sguardi che ogni fanciullo appena nato rivolge al cielo, le lacrime delle quali sparge il suo volto, provano in maniera efficace che la sua origine in un medesimo tempo è carnale e divina. Se la sua anima, simile a un fiore, il quale non sfiorisce che appoco appoco, non si sviluppa che insensibilmente, ciò nasce perchè ella è ristretta in un corpo che è pigro nei suoi progressi.

Ma ecco l’istante in cui la ragione trasparisce; ed eccola una scintilla che produce un incendio, o una luce chiara e benefica, secondo il modo con cui ella vien governata, e secondo gli oggetti nei quali si fissa. Io parlo quivi delle passioni, dei sensi, della educazione, che sono altrettante influenze che agiscon sull’uomo più o meno vivamente. Se egli è dominato dalle cose sensibili, ei divien l’infausto scherzo di quanto lo circonda, e se al contrario lo governano le cose spirituali, egli è re di se stesso, e la sua ragione brilla con tutta la sua vivezza. Allora egli ha sempre presente Iddio, ed ai suoi occhi le creature non sono che beni caduchi, dei quali si serve in modo che sembra di non usarne.

La foggia della educazione, il clima, le impressioni che ricevono gli uomini, gli oggetti che gli circondano, son tante forme dalle quali essi prendono diverse figure: così l’uomo nato nell’Indie, non è l’uomo d’Europa, e l’uomo educato da Aristotele, non è l’uomo educato da Newton: l’essenza è la stessa, ma le rappresentanze sono sì differenti, che in essi si ravvisa una totalmente diversa foggia di pensare, e di apprendere.

Di qui è che noi dobbiam riguardare come l’effetto di una provvidenza tutta particolare il vantaggio di nascere sotto un governo che rettifica i nostri pensieri, e nel grembo di una famiglia che ci somministra dei principii di saviezza.

Il vero però si è che ogni uomo, dovunque ei possa esser nato, ha delle obbligazioni con Dio, col prossimo, con la patria, e che dee cercare di istruirsi della verità, per non s’arrolare tra i seguaci di una religione falsa, e per sottrarsi dalla superstizione. Si aggiunga a ciò che se egli è semplice cittadino, dee sforzarsi di essere utile alla società coi suoi sudori o talenti, e se egli è di un più elevato rango, dee pagare al pubblico un tributo, o mediante la sua applicazione, o beneficenza, o valore. Chiunque lo paga con tutte e tre queste cose, quello è veramente uomo grande, e merita che gli si erigano delle statue.

L’uomo vive quasi sempre in un paese nemico, vivendo con se medesimo. Il sangue che gli bolle, l’immaginazione che lo trasporta, i desiderii che tra di loro si combattono, le passioni che se gli suscitano, formano in lui una guerra intestina, le di cui conseguenze sono il più spesso funeste. Qualora uno si voglia regolar con saviezza, si conduce tutta la vita in una lotta continua contro se stesso, perchè in noi vi sono due uomini, l’uno terrestre e l’altro spirituale, che di continuo si azzuffano, nè si ricompongono finchè una ragione illuminata ed un cuor retto non gli servan di guida. Per tal motivo l’uomo si rende degno di ammirazione o di pietà, secondo la varia maniera con cui egli agisce.

Non si finirebbe mai, se si volessero tutte numerare le sue incongruenze e contradizioni. La di lui anima, il suo spirito, la sua ragione, il suo volere, tuttochè affatto immateriali, son però somiglianti ai quattro elementi, e dall’urto loro continuo ne risultano delle tempeste, e dei vulcani che sfigurano l’immagine del Creatore, e più si esamina l’uomo nelle sue potenze, più si ravvisa tanto in se stesso pieno di maestà e di grandezza, che bisogna neccssariamente crederlo l’emanazione di intelligenza suprema.

L’uomo qualor tenga in freno le sue passioni, e non accordi loro che una libertà ragionevole, merita gli omaggi dovuti alla virtù, ed allora egli è che ei si manifesta per signore degli animali. I differenti stati di vita che ci si offrono, quando la ragione è in stato di decidere, son tanti mezzi per giungere alla perfezione: il tutto però consiste nel bene scegliere, perchè altrimenti noi divenghiamo tanti mostri nella società, e turbiamo l’armonia che dee mantenersi tra le ragionevoli creature. L’uomo per altro quasi sempre sedotto dagli oggetti sensibili, s’inganna spesso circa la sua vocazione, ed ecco donde nasce lo sconcerto di tante passioni diverse che lo rendono di cattivo umore con se medesimo, che turbano le famiglie, che agitano gl’imperi, e sfregiano le virtù.

Da ciò procede che rare volte l’uomo si vede nel suo vero punto di vista. Si crede di osservar lui, e non si vede in sostanza che un ammasso di bizzarrie, di gusti, e di opinioni in parte da lui apprese sui libri, in parte raccolte nelle frequentate sue conversazioni. Gli studi medesimi il più delle volte non servono che a snaturarlo, col dispogliarlo di quanto è di lui proprio, e col renderlo un personaggio chimerico.

S. Agostino diceva che l’uomo considerato nella sua essenza e nei suoi diversi rapporti, è l’enimma il più difficile a spiegarsi. In fatti quasi sempre dissomigliante a se stesso, getta via il pennello nel momento che ci vorrebbe fare il suo ritratto. A cagione della dipendenza che egli ha del suo corpo caduco e carnale, i suoi pensieri si agitano egualmente che il suo sangue, e si assomigliano per la fluidità. Non vi è che Dio che possa unire così intimamente come ella è, un’anima indivisibile ad una sostanza tutta risultante da parti, uno spirito immortale ad una carne destinata a ridursi in polvere, e per dir tutto in breve, i pensieri alle sensazioni, l’idee alle fibre, le affezioni ai nervi.

E’ basta dunque internarsi in noi stessi e considerarci, per vedere un prodigio che ogni dì si rinnuova, ma non vi ravviseremo poi che uno spaventevole abisso, se Dio non occupa il primo posto. Ciascheduno di noi è tenuto ad alzargli nel suo cuore un trono, e facendo altrimenti l’uomo diviene un caos, in cui non vi è più nè ordine nè simetria.

L’anima circondata dai sensi, è come un re circondato dalle sue guardie; che se mai alcuna di queste sentinelle si lascia vincere, e non è attenta a rispingere i vizi che vogliono usurpare la sovranità, e rendersi padroni della fortezza, l’uomo allora in se sperimenta la più crudele anarchia.

Di qui nasce che vi son tanti materialisti, e tante persone corrotte. Si cerca di estirpare il germe della immortalità, e l’anima diventa ciò che ella può, purchè si dia sfogo alle passioni. Si risvegli pure il verme della coscienza di lei fedele ammonitore, che la passione dietro a se la trasporta, le fa apparire simile ad una chimera questa intellettuale sostanza, la quale può giustamente chiamarsi la sorgente dei nostri pensieri, dei nostri raziocini, e delle nostre affezioni.

Erra l’uomo allor quando egli attribuisce operazioni tanto maravigliose all’inerte massa del suo corpo, rifondendone la cagione all’acrimonia della sua bile, o alla agilità del suo sangue, perchè non vi è che un ente spirituale, che possa produrre delle idee spirituali. Si unisca quanto vi ha di parti le più sottili nell’aria e nel fuoco, si agitino queste in quante maniere vi sono, che non se ne potrà mai formare un sol sillogismo. La fiamma, per raggiante e penetrativa che ella possa essere, non può emanare da se un pensiero ed un raziocinio; or come mai questo pensiero che in un batter d’occhio considera tutto il mondo, che tutto l’universo sottomette alle sue osservazioni, che con un volo il più rapido si alza fino all’Ente Supremo, che non ha nè situazione, nè forma, nè colorito, che imperiosamente a tutto il mio corpo comanda, e fassi obbedire, potrà dirsi che egli sia una parte di questo corpo medesimo?

Sarà più difficile adunque a Dio il creare degli spiriti che la materia? E perchè essendo egli essenzialmente potente non potrà creare degli enti puramente intellettuali? E come mai se il pensiero è realmente spirituale, non potrà egualmente essere spirituale l’anima che lo produce? Qui giustamente può adattarsi quello di Orazio: Fortes creantur fortibus, et bonis; nec imbellem feroces Progenerant aquilae columbam.

Bisognava dunque che l’uomo perchè si eseguisse l’idea del sovrano Creatore, fosse nel medesimo istante e terrestre e spirituale; mentre che senza il corpo non avrebbe potuto aver luogo in questo mondo materiale destinatogli per abitazione, e senza l’anima non avrebbe potuto conoscere Iddio, nè sarebbe potuto giungere a possederlo. Or questo maraviglioso composto è in un medesimo tempo soggetto agli elementi, e superiore all’universo. Egli è che applica le scienze a mille cose non men piacevoli che utili, che se ne serve con mirabil vantaggio a rettificar le sue idee ed estendere il suo spirito, ad arrivar per fino alla cognizione dell’Ente Supremo.

La terra senza dell’uomo non è che un vasto deserto, o per dir meglio, un sepolcro: ella abbisogna delle di lui mani per esser coltivata, della di lui società per essere abitata, cosicchè a ragione lo riguarda come suo signore e sovrano, ed attenta in riconoscerne le cure e il dominio, secondo il corso dei tempi ora gli offre i più vaghi fiori, ora i frutti i più delicati ed eccellenti. Il male però si è che quest’uomo a cui obbedisce la terra, come a suo re, dovunque egli passa, lascia dei certi vestigi dei suoi errori e delitti, e non vi ha paese che non sia stato bagnato dal sangue sparso dall’odio, dal fanatismo, dall’amore, dall’ambizione. Le virtù nel mondo non sono apparse che come un lampo nel vasto seno delle tempeste.

Ma come mai poter ridire la perversità dell’uomo, se ella è superiore a qualunque immaginazione? L’ozio medesimo lo ha condotto a più detestabili eccessi che la sua stessa malizia. Le occasioni di fare il male vanno a dismisura moltiplicandosi in un uomo disoccupato, e se si rimproverano le donne, perchè son ciarliere e maldicenti, questo avviene per ordinario, perchè esse non hanno occupazioni. Non ho già preteso di dipinger l’uomo tal quale egli è, ma ne ho detto molto, per veder di darne un’idea la più giusta, e per far capire a lui medesimo che egli è un tutto quando si unisce a Dio, e che ei diviene un nulla quando ei si discosta da lui.

La ragione senza che sia diretta dalla Religione è appunto simile a quelle luminose esalazioni che si accendono in tempo di notte, e non fan lume che per condurre a qualche precipizio. Questo secolo ce ne somministra i più tristi esempi, mentre, nonostante lo spirito e le cognizioni che lo illustrano, semhra che vada scordandosi dello stesso Dio, per seguire i fanatismi suoi vani e chimerici. Tutto il mondo dovrebbe alzarsi contro sì fatto dannevolissimo abuso; ma il nome di Filosofo attribuito a persone che fanno un problema della immortalità dell’anima, e della esistenza di Dio, impone alla moltitudine, e fa sì che si tengano per oracoli infallibili i sofisti i più pericolosi.

Rientri pur l’uomo in se stesso, interroghi la sua anima, il suo cuore, la sua coscienza e tutte le sue interne facoltà, e troverà in esse i più forti argomenti in favore della Religione; ma per far ciò bisogna incatenare, per dir così, i sensi che son dispotici delle passioni, imperciocchè questi non fanno che imposturarci, che preconizzare il materialismo e vantar l’amore dei piaceri.

Qual disgrazia l’avere in se medesimo il potere di inalzarsi fino al trono di Dio, di trattenersi con esso lui, di divenire immortale, sia col coltivare le scienze, sia col distinguersi con le buone operazioni, e poi lo sveller da se rampolli tanto preziosi! Eppure la maggior parte degli uomini niente cura la propria grandezza, e vanno sviando il lor cuore, trasportati da oggetti caduchi, o degradando il loro spirito con occuparlo in cose inutili. Le scienze medesime le più sublimi sono indegne dell’anima nostra, qualora non salgano a Dio, loro principio e loro fine.

Tutto questo male però proviene perchè l’uomo non conosce abbastanza l’eccellenza della sua anima, perchè si invanisce di ciò che veramente lo umilia, perchè fino dalla sua nascita è bruttato dalla macchia nerissima della colpa. Non vi è che la morte che gli sveli l’inganno; nel momento che ei spira conosce perfettamente come gli bisognava alzarsi al di sopra degli oggetti sensibili: ma la morte ci avvisa dei nostri trascorsi, quando non vi ha più tempo di emendarsi. Noi crediamo di essere ancor nella culla, e ci si è già spalancato il sepolcro, anzi nel tempo stesso, per dir così, che noi vi scendiamo, la nostra mente si va seco stessa formando dei progetti. Non può concepirsi come son rapidi gl’istanti che trascorrono tra le due estremità, l’una del principio della vita, e l’altra del fine. Io gli paragono ad un baleno che esce dal seno di una nuvola, e tosto in essa si riasconde, almen per quanto apparisce al nostro occhio, in guisa che giustamente può dirsi che l’uomo nasce e muore nello spazio di un giorno. Il suo nascere è come il crepuscolo, la sua infanzia l’aurora, la virilità il mezzo giorno, la sua morte la sera. Allora tutti gli oggetti per esso spariscono realmente, una notte eterna gli avvolge dentro alle sue tenebre, seppure egli non è investito da quella increata luce che forma la beatitudine dei giusti.

Questo è il punto a cui dee riguardar sempre l’uomo, e qualora ei voglia essere ciò che è necessario che sia, bisogna che spesso si rappresenti la morte che tiene la ferale urna dove tutte le passate generazioni non son che un pugno di polvere. Ecco il nostro spettacolo, quando noi vogliam farla da filosofi cristiani. L’uomo in questo basso mondo non è che un’ombra che passa, e se vogliam formarci di lui un’alta idea, bisogna che il contempliamo nella eternità. Lì è dove fa più bella mostra di se che il firmamento medesimo, mentre egli in un batter d’occhio da questa terra passa fino al seno di Dio, si vede privato di una vita temporale e caduca, per esser reso partecipe di una vita divina, ed eterna.

Or come non dee far stupore che questo uomo nato per cose sì grandi, sia tanto poco curioso di comprenderle, e mentre egli è aspettato in un altro mondo per identificarsi colla Divinità medesima, cerchi di incorporarsi con gli oggetti più vili e meschini?

I filosofi non han ben considerato l’uomo, come importava che facessero in questo istante, in cui non è più che un nulla sulla terra, per divenire un tutto nella eternità. Tutte le loro considerazioni si son fermate su del sepolcro, e l’anima, la di cui immortalità sembrava che dovesse subito rapire i lor pensieri, dopo di essersi sciolta da quei legami che la tenevano avvinta, per essi pare che più non abbia esistenza o durazione, giacchè più non vi pensano.

So che l’orror del sepolcro è un caos impercettibile all’uomo finchè languisce in questa valle di lacrime, e so che non ostante tutto quello che su tale articolo ci insegna la Fede, noi rimarremo affatto estatici all’entrar che faremo nella eternità; ma egli è assai conveniente che un filosofo innamorato del vero consideri l’anima anco in quell’abisso dove si perde l’umana ragione, che solo comprenderemo appieno, quando il vedremo.

Di qualunque persona che noi veggiamo passare all’altro mondo, dobbiamo assicurarci che tutte le facoltà del suo spirito acquistano in quel momento una attività sorprendente, che le fa in maniera ineffabile sentire la sua felicità o disgrazia eterna.

L’uomo trapassa all’altra vita come egli è venuto nella presente, cioè senza sapere dove ei si vada. Ma perduta che egli abbia la prospettiva di questo mondo a cui egli è usato, gli se ne presenta un altro, ma tanto da quello dissomigliante, che non può fare a meno di non rimanerne stupito.

Noi abbiamo un bello applicarsi alle scienze, e mediante la Religione inalzarci fino all’Esser Supremo, ma questa vita a parlar propriamente non è che la vita del corpo, talmente siamo tiranneggiati dai sensi e dalle necessità, dovecchè la vita futura è propriamente la vita dell’anima. Ella si troverà come nel suo centro, non sarà più impedita da quella massa di carne che ora ritarda le sue operazioni, che la confonde con degli oggetti terreni fino a sorprenderla, se ella non veglia con cura a frenar le passioni.

Per bene adunque comprender l’uomo bisogna unire insieme il presente e l’avvenire, la terra e il cielo, perchè egli propriamente e a quella e a questo appartiene, altrimenti se noi non lo seguitiamo anco al di là del sepolcro, noi non ne ravvisiamo che la semplice ombra. Là è dove egli è aspettato, e dove si vedrà come una nuova fenice che risorge dalle sue ceneri, tutto bello e raggiante, e capirà allora che egli non era nato per vegetare, ma per vivere in seno dell’Ente eterno.

Se l’uomo fosse attento a non considerarsi nel mondo che in quel punto solo di vista in cui dovrà trovarsi alla morte, egli si distoglierebbe dal perfezionare, come va lusingandosi, la sua esistenza col fervore dei propri desiderii, e vorrebbe che spesso gli si parlasse di quel momento felice in cui sarà spogliato di questa miserabil vita che ritarda la sua felicità e la sua gloria.

La morte per cui si ha tanta avversione è senza dubbio il momento più felice, e più glorioso per un uomo che abbia fedelmente eseguiti i suoi doveri, giusta le leggi prescritte dalla Religione. Io vado rappresentandomi alla immaginazione un uomo tale nel punto che ei muore, simile al Sole che dopo di essere stato coperto da una densa nube, finalmente col vigor dei suoi raggi la dissipa e si scuopre al mondo più luminoso. Tale egli è, non vi ha dubbio, giacchè le necessità della vita, egualmente che le passioni, sono altrettante nuvole che ci oscurano e tolgono a noi medesimi la vista della nostra grandezza, e delle luminose nostre interne facoltà.

Non mi arreca perciò meraviglia l’udire che la morte formava il soggetto delle continue meditazioni dei cristiani filosofi. Allorquando ella è nel suo vero punto di vista, non offre all’uomo che grandezza e consolazione. Ma siccome noi non ne giudichiamo che dall’orror del sepolcro, vale a dire, da tutto ciò che ha unicamente rapporto al nostro corpo, così egli addiviene che ci apparisce come lo spettacolo il più tetro a vedersi. Questa considerazione appunto fu quella che facea dire a S. Carlo Borromeo che se la morte era nemica del corpo, era la più stretta amica dell’anima, e che non capisce bene i propri interessi quello che non la desidera.

E come infatti dovremmo noi odiare un momento che ci ricolmerà di gioia, e ci renderà felici? Il corpo è un fragile edifizio che necessariamente dee rovinare, affinchè l’anima vada al suo centro. Egli è come quei sostegni, dei quali gli architetti si servono per l’appoggio delle lor fabbriche, e che bisogna poi togliere quando esse sieno nella lor perfezione.

Egli è indubitabile che ci rimprovera la coscienza quando siamo tanto timorosi della morte. Ella è certamente da temersi a cagione dei sempre impenetrabili giudizi di Dio: ma Iddio è la misericordia medesima, che non vuole la morte del peccatore, e che ci assicura di scordarsi affatto delle nostre iniquità moltiplicate ancora più che le arene del mare, quando noi totalmente e con sincerità, vogliamo tornare a lui.

Agli occhi della Fede non è la morte la distruzione dell’uomo, ma anzi una seconda creazione assai più ammirabile della prima, perchè invece delle miserie, delle quali ci troviam circondati nel nostro nascere, morendo anderemo incontro a consolazioni e beni che occhio mortale non ha veduti, e che umano intendimento non può attualmente comprendere.