Protesta del popolo delle Due Sicilie/Capo II

Capo II

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CAPO SECONDO


AVVENIMENTI DAL 1820 AL 1847.


Le nostre antiche sventure sono state sì lunghe e sì crudeli che son conosciute in ogni parte d’Europa e [p. 6 modifica]sarebbe superfluo ricordarle. Ma se quello che abbiamo sofferto da parecchi anni, ed ancora soffriamo, non è noto a tutti, perchè il governo ha curato sempre di nasconderlo, ora noi lo sveleremo.

Nel 1820 su le montagne di Avellino un branco di uomini alzò il vessillo d’una Costituzione, che fu gridata da tutti i popoli, e solennemente giurata dal re Ferdinando I. La nazione non ricordò che questo re era quel desso che nel 1799 non riconobbe la capitolazione di Castelnuovo dicendo che un re non patteggia co’ suoi sudditi, e che aveva le mani ancor lorde di sangue; onde ingannata, venduta, svergognata da pochi traditori, credette che egli andrebbe al congresso di Laybac per far riconoscere la Costituzione: egli tornò con un esercito di tedeschi. Quel che si fece non diremo: solamente in tanta vergogna, mentre i tedeschi erano a poche miglia da Napoli il deputato Giuseppe Poerio scriveva una protesta, che il Parlamento napolitano si scioglieva per forza straniera, ma che non cessava nè poteva cessare di esistere, perchè fu sempre legale. Quella protesta sta nell’archivio del regno, e con essa un giorno i popoli chiederanno ragione de’ mali che ora patiscono dal nipote del re spergiuro.

Tornato Ferdinando in Napoli, rizzò forche, ordinò tribunali, i quali condannarono molte migliaia di uomini alla morte, alla galera, all’esilio, alle carceri, alla frusta. Le pene pe’ delitti di stato furono con rabbiosa crudeltà cresciute; creata una Commissione di Stato permanente, tribunale terribile più infame dell’Inquisizione. E più terribile e più infame di questo fu la Giunta dello Scrutinio generale, che prendendo conto delle persone dalle spie, dai ladri, dai servi, dai confessori, e facendo l’uffizio di una spia legale, indicava al Governo le vittime a colpire. In mezzo a tanti mali, tanti errori, e tanti tedeschi, trionfava quel tigre di crudeltà incredibile, il [p. 7 modifica]principe Canosa, e quell’anima più nera e più venale che l’anima di Giuda, il ministro Luigi Medici. Questi due famosi scellerati gareggiarono per ruinare e sprofondare, la nazione: il Canosa dandola a lacerare ai birri ed al popolazzo più infame, il Medici vendendola e rendendola schiava dell’Austria. La quale comandò, e il Canosa fu cacciato; ma rimasero i suoi discepoli numerosi, furiosi, assetati di sangue, il generale Nunziante, il marchese di Pietracatella, Monsignor Olivieri aio del secondo Ferdinando, e molti altri ancora tra magistrati, militari, preti, impiegati civili, dei quali parecchi ancor vivono e canoseggiano.

Moriva nel 1825 re Ferdinando non sazio delle lagrime di un popolo ammiserito, e lasciava per ischiacciarlo maggiormente il figliuolo Francesco I, il quale (rimandati gli affamati tedeschi) per altri cinque anni seguitò a spremere le lagrime ed il sangue di questi popoli per mezzo dei preti, dei frati, di crudeli ministri, e di un suo rapacissimo servitor favorito Michelangelo Viglia. Questi, che aveva salvata la vita al re avvelenato da quella tigre che l’aveva partorito, e Caterina de Simone, compagna ed aiutatrice delle bestiali lascivie della regina Isabella, posero a prezzo ogni cosa. Chi voleva campar la vita da una condanna, dava danari al Viglia: chi voleva impieghi civili, ecclesiastici, militari, dava danari al Viglia: gli diè ventiduemila ducati Cammillo Caropreso e fu fatto Ministro delle Finanze. Insomma il cameriere Viglia, che aveva l’uffizio di affibbiare i calzoni al re e di grattargli le reni quando la sera andava a dormire, e la ruffiana De Simone furono gli arbitri delle vite e delle sostanze di tutti i sudditi. Sapevalo il re, e ne godeva, e diceva al Viglia: Fa’ buoni affari, e profitta del tempo, chè io non vivrò molto.1 Intanto, [p. 8 modifica]mentre Francesco era tirato pel naso da un servitore, il ministro Medici lo atterriva mettendogli innanzi agli occhi l’Austria, la santa alleanza, e Metternich: Niccola Intonti, ministro di Polizia, empiva tutto di spie, di terrori, di supplizi; i Canosini meditavano ed operavano per risorgere. Tra questi Niccola De Matteis intendente in Cosenza, cercando scoprir congiure dove non erano, e facendole nascere, riempì le Calabrie di spaventi, di sangue, di torture che egli stesso faceva, o comandava che si facessero innanzi agli occhi suoi. Questo crudele e furioso carnefice vinse in ferocità lo stesso ferocissimo Manhes; onde i Calabresi stanchi, con l’aiuto ed il consiglio del Medici, nimicissimo del Canosa e de’ suoi seguaci, accusarono il De Matteis, che fu menato innanzi ad un tribunale insieme col Procurator Generale della Corte Criminale di Cosenza, ed altri complici e cagnotti. Allora si svelarono gl’intrighi infami e tenebrosi, le crudeltà oscene e nefande: allora fu udita quella iena, che in mezzo ad una moltitudine di regnicoli e di stranieri che lo maledicevano, disse ad alta voce: che tutto egli aveva fatto per Cesare, e Cesare doveva essergli grato e perdonarlo. Il Medici morì durante la causa: il De Matteis fece banchetto; ma egli era sì reo che anche giudici canosini non potettero non condannarlo a dieci anni di relegazione per le sole torture: per i suoi complici si cercarono altre prove.

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Intanto nella provincia di Salerno i popoli fremevano: i tre fratelli Capozzoli, della piccola terra di Bosco, perseguitati dal Governo, li aizzavano; nel 1828 fu gridata la costituzione in Bosco, Centola, Camerota, Licusati, Rocca Gloriosa, S. Giovanni a Piro. Francesco atterrito vi mandò con pieni poteri un Francesco Saverio del Carretto capo di gendarmi. Questo sbirro, che pochi anni innanzi aveva fatto il carbonaro, divenuto boia, col cannone spiantò Bosco fin dalle fondamenta, vi rizzò una colonna a perpetuare l’infamia del sagrifizio, diede la caccia a ribelli, e formò una Commissione di suoi sbirri, che fece morire venti persone, fra le quali il canonico De Luca vecchio ottagenario ed un guardiano di cappuccini, condannò quindici all’ergastolo, quarantatrè alla galera, molte centinaia a varie pene minori: confiscava i beni de’ condannati. Nel dì 8 novembre 1830 moriva lo stupido e crudele Francesco, e nell’agonia della morte vedeva intorno al suo letto le ombre di coloro che aveva fatto uccidere; onde negli ultimi delirii fu udito dire: che son queste grida? il popolo vuol la costituzione? dategliela, e lasciatemi tranquillo.

Saliva sul trono Ferdinando II figliuolo di quella Isabella, che fu moglie di Francesco e donna di molti altri. La giovanezza del re, la recente rivoluzione di Luglio in Francia, e i movimenti di Romagna alzaron la nazione a novelle speranze. Il giorno 10 Novembre Ferdinando con un proclama firmato da lui, si annunzia re per diritto divino, biasima il governo del padre morto da due dì, e promette giustizia. Ed il primo atto di giustizia fu di far ministro dell’Interno il canosino Pietracatella, e di dar pieno perdono al De Matteis ed a suoi complici. Per consiglio dell’Olivieri diede una pensione al De Matteis, e voleva anche farlo Consigliere della Suprema Corte di Giustizia; ma questi morì aiutato da un medico. Intanto per cattivare i popoli fece richiamar dall’esilio e [p. 10 modifica]cacciar dalle prigioni alcuni di coloro che furon men rei negli avvenimenti del 1820 al 1828. Il Ministro Intonti, uomo astuto, ambizioso, e fieramente malvagio, sentendosi abborrito da tutti, e mal sicuro, fu questa volta ingannato dall’apparente bontà del giovane alunno dell’Olivieri; e consigliato dalle condizioni in cui allora trovavasi il regno, l’Italia, e l’Europa, proponeva al re un nuovo disegno di governo: un largo e nuovo Consiglio di Stato; rifar tutta l’amministrazione e dar impieghi ad uomini abili ed onesti; richiamar gli uffiziali cacciati; formar una guardia nazionale. Si dice che il re in prima si piacque di questo disegno, e gli promise di torre tutti i Ministri; ma i Ministri e l’Olivieri si unirono, dissero al re che l’Intonti era un partigiano del governo francese; il re comandò che fra ventiquattr’ore il Ministro uscisse del regno, e gli fossero sequestrate tutte le carte. Tutti godettero alla caduta di questo uomo feroce che dopo essersi pasciuto di sangue si mostrava benigno soltanto per fina malvagità; ma i popoli presto disingannati videro il carnefice di Bosco fatto Ministro di Polizia: il re fanciullo d’anni e d’intelletto spassarsi co' soldatelli, afforzarsi di preti e di frati che mantenessero i popoli nell’ignoranza. Onde presto cominciarono gli sdegni, le congiure, le rivolte, e le condanne delle Commissioni militari e della Commissione di stato; chè da questo punto non vi fu un solo anno senza uno sforzo, un tentativo dei popoli, e senza una crudeltà del governo.

Sfortunati furono gli sforzi de’ fratelli Rosaroli, del frate Angelo Peluso, e di altri uomini, di oscuro nome, ma di nobile cuore, i quali tutti gemono ancor nelle galere. Nel 1837 il cholera devastava le nostre regioni, ed il governo spensierato non vi poneva cura, non cercava previdenze, godeva che i popoli fossero atterriti; onde i popoli, sospettosi, credettero che il governo lasciasse spargere e dilargare il morbo per ispaventarli e non farli [p. 11 modifica]pensare alla politica: la plebe gridò che era avvelenata. In Calabria si disse che furono veduti uomini avvelenar le fonti delle pubbliche acque, che il veleno era mandato in cassettine agl’Intendenti per ispargerlo: in Siracusa e in Catania la plebe si mosse a rumore, uccise alcuni sventurati creduti avvelenatori, uccise l’Intendente di Siracusa. Commissione militare condannò a morte dieci persone, il re ne fece giustiziare undici. In Cosenza fu mandato con assoluti poteri l’Intendente di Catanzaro Giuseppe de Liguoro, sotto-carnefice di Bosco: ed ecco la Commissione militare condannare a morte parecchi avvelenatori, gente che si trovava in carcere per delitti politici, condannar altri alla galera come spargitori di voci rivoluzionarie:2 ecco afferrare ogni persona sospetta, gettarla in carcere, farle un processo; ecco mostrarsi una gran congiura, e i grandi servigi che si facevano per spegnerla. In Sicilia fu versato più sangue; chè ivi era il Ministro Del Carretto: ivi innumerevoli condanne di ogni genere, innumerevoli infamie e tradimenti di chi cercava farsi merito ed avere impieghi. Siracusa per decreto del re non fu più capo provincia; e così quella città che un tempo fu l’emula di Atene, la regina della Sicilia, la più bella e ricca città d’Italia, e popolata di un milione di abitanti, ha ricevuto l’ultimo colpo alla sua rovina dalla mano di re Ferdinando, e fra poco diverrà un meschino villaggio. Ecco le opere di re Ferdinando e del suo Ministro, il quale ritornando da quella carneficina fu rimeritato della fascia dei cavalieri di S. Gennaro.

Negli anni seguenti non mancarono altre congiure ed altri martirii. Nel 1842 l’Aquila alza un grido e comincia dall’uccidere il comandante le armi della [p. 12 modifica] provincia, Gennaro Tanfano, che era stato capo di briganti col cardinal Ruffo, spia e cagnotto di Carolina in Sicilia, membro della Commissione dello Scrutinio, codardo e crudele tanto quanto era infame. Fu spedito all’Aquila il generale Casella, e furon tratti innanzi alla Commissione centotrentatrè accusati, ne furono condannati cinquantasei, quattro fucilati. Nel 15 Marzo ecco un altro grido a Cosenza. Francesco Salfi, Michele Musachio, Emmanuele Mosciaro, Francesco Coscarella, Giuseppe de Filippis, muoiono combattendo, dopo di aver ucciso il Galluppi capitano di gendarmi. Furono fucilati per sentenza della Commissione militare Niccola Corigliano, Antonio Rao, Pietro Villacci, Giuseppe Camodeca, Giuseppe Franzese, Santo Cesario, Scanderbec Franzese. Ad altri quattordici condannati a morte fu commutata la pena, e stanno nell’ergastolo; molti altri in galera diversamente tormentati. Nel mese di Luglio giunsero in Calabria i fratelli Bandiera, il Ricciotti, il Moro ed altri compagni. Questi sventurati e generosi giovani vennero tratti dalle voci sparse ad arte che i rivoltosi di Cosenza stavano su le montagne, combattevano, e desideravano capi: un bandito Calabrese detto il Nivaro rifuggito a Corfù, li guidava: s’indirizzarono verso S. Giovanni in Fiore, chiamarono fratelli quelli che incontrarono, dissero che erano venuti per aiutarli e liberarli; non furono compresi: furon battuti, rubati, spogliati, nove di essi fucilati, gli altri mandati in galera. Moriron col coraggio dei martiri, intrepidi, dignitosi, ammirati anche da quelli che li condannarono, pianti in segreto da tutti. Il Nivaro che al metter piede in Calabria era sparito, ha avuto intero perdono dal re, e vive libero; ed un tal Bocchechamps, la cui corsa progenie è ricordata nella storia napolitana, dopo poca prigionia fu assoluto per aver solo tradito i suoi compagni. Quelli che presero i Bandiera e gli altri furon fatti cavalieri dell’ordine di Francesco I; ebbero [p. 13 modifica]pensioni, impieghi, favori. Alla città di S. Giovanni in Fiore pubbliche lodi di fedeltà, favori, remissione di alcuni dazi. Ecco quali meriti bisogna avere per esser premiato dal governo delle Due Sicilie.

Or tanto sangue sparso, tanti sforzi fatti l’un dopo l’altro, tanti uomini che gemono nelle galere, e tanti altri che sono pronti a fare lo stesso, senza temere le stesse e maggiori pene, mostrano chiaramente che la nazione soffre mali insopportabili, che non è degna della sua oppressura, e vuole e deve cangiar condizione.


Note

  1. Quando Francesco andò in Ispagna a dar la
  2. Il Re comandò con suo decreto di menarsi innanzi alle Commissioni quelli che eran creduti spargitori di veleno e quelli che dicevano che si spargeva veleno.