Prose (Foscolo)/V - Scritti e frammenti vari dal 1802 al 1805/IV. Commentari della storia di Napoli (1803-4)

IV. Commentari della storia di Napoli (1803-4)

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IV. Commentari della storia di Napoli (1803-4)
V - Scritti e frammenti vari dal 1802 al 1805 - III. Frammenti su Lucrezio

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IV

COMMENTARI DELLA STORIA DI NAPOLI

[1803-4].

LIBRO SECONDO

frammento

Giunti i francesi a Napoli, aveano perduta la prima riputazione, tanto che continuavano ad esserne fautori soltanto chi volea vendicarsi o chi sperava signoria ed averi. Onde si videro correre licenziosamente armati i patriotti, affettando sovranitá. Oppressero questa licenza i francesi. Tornò la calma. Qualunque governo, dopo tante calamitá e dissensioni, soddisfaceva. Riempievansi le contrade d’uomini dabbene, giá chiusi in casa; baci; narrazioni de’ propri ed altrui casi, come dopo gravi pericoli: orazioni nelle chiese; né pareano stranieri esservi e conquistatori in cittá. Sparsesi Championnet permettere, compenso e coraggio ai soldati, il saccheggio; patriotti avere ricevuto biglietti di sicurezza. Moliterno ed altri capi placavano il generale. Non parer giusto la cittá, amica de’ francesi, che per altro faceali liberi, pagar la pena del furor pazzo de’ lazzaroni. Il sacco fu esentato con due milioni e mezzo [di] ducati alla sola cittá, e furon tutti contenti. Arcivescovo canta il Te Deum. Championnet lo ascolta con grande ceremonia, come col re. Moltitudine ama la devozione da’ francesi mostrata; Championnet donò un anello al santo, e distribuí danaro a’ lazzaroni, uscendo di chiesa. Aggiungi il Vesuvio da cinque anni quieto; apprensione perciò in cittá; perché il tardare facea lo scoppio veemente e rovinoso; quella sera fece una eruzione mite, dissipò i timori, [p. 208 modifica] e fu preso per santo indizio. Ne profittarono i patriotti: avere il favore del cielo tutto, doversi attribuire ai presenti signori. Avere il re tre volte rotta la pace con Francia; tasse enormi per far guerra sleale e capricciosa, senza assenso de’ seggi, violando le leggi del Regno e la nazione. Spogliate le case e gli altari degli argenti; diciannove milioni di ducati tolti da’ banchi, sante sostanze de’ privati, rapitili in Sicilia; involati i pegni de’ monti di pietá; fatte incendiare sotto gli occhi le navi fabbricate, demolite le batterie del cratere senza scudo a’ barbareschi corsari ed a navi inglesi; avere ordinato, partendo, al vicario di incendiare i magazzini e l’arsenale, e punirlo per non l’aver fatto. Acton re; ben se era partecipe anche del talamo; e poi storia d’avarizia di antichi ministri, paragonata alla generositá de’ francesi, che spesero il sangue per propria salute, e convertirono la conquista nella libertá di Napoli. — Ma altre erano queste speranze de’ patriotti, altre le mire di Francia. [Il] Direttorio temea l’Italia, massime la Cisalpina, e quindi unione degli italiani. Lunga catena di cospirazioni per l’unitá, e quindi tremenda rivale. Quindi le spese riforme in Cisalpina, e i Trouvé, i Brune, i Rivaud; persecuzione ai patriotti forti, e, temendo unione ne’ francesi dimoranti in Italia per matrimoni e commercio, spogliò di cittadinanza gl’impiegati fuor di Francia. Richiamò generali, ordinò d’altri arresto, sfuggito perché commesso a comandanti patriotti. Era sí potente la parte repubblicana, che, per acquetare i furori temuti di lei dal Direttorio, s’indusse alla conquista di Roma; ma altra costituzione le diede e l’aggiogò.

Fece finalmente il Direttorio la guerra di Napoli per indebolire quel re, onde non fosse alle spalle de’ francesi, nuovamente combattenti con l’imperadore. Conchiusa la tregua di Capua, era ottenuto l’intento. Ma Championnet, a cui fu commesso l’affare, era patriotta: entrò in Napoli: imprevidente per troppa gioia, e forse per trarne profitto [e] possanza, fece questo editto: «Il vostro tiranno, napoletani, ha da se stesso rinunziato al trono, provocando la Francia, clemente per piú volte. Sottentrate a’ diritti usurpátivi. Avrete un governo fondato su’ principi della eguaglianza e libertá. Sorgete». Elesse un governo [p. 209 modifica] provvisorio di venticinque membri; presidente Carlo Lamberti, con lui Bassal, benché, come di unitari italiani, avesse il Direttorio decretato l’arresto, e fra vari mercatanti di rivoluzione, creature del Lamberti1. Il medico celebre Cirillo e filosofo, Flavio Pirelli, giá presidente di Camera e avvocato di lesa maestá, disperarono delle cose, e sdegnarono siffatti colleghi, insolenti, ignoranti, ed [in] odio al popolo geloso, circuíti da affamati ed ambiziosi, vantanti anima libera succhiata col latte, chi un de’ primi congiurati, chi la presa di Sant’Elmo, prigionie, persecuzioni, emigrazioni; quindi gelosie, e questo partito diviso in piú, e odioso il titolo di patriotta dell’Ottantanove.

Fasulo e gli altri avean liste di favoriti, che o piaggiavano o minacciavano. Faypoult tutti i beni del re pretendeva essere della Francia, i farnesiani, i feudi della corte, i gesuitici, gli acquisti, l’ereditá da Carlo terzo suo padre, gran parte insomma delle pubbliche rendite. Championnet negò. Faypoult allegava ordini ed interessi della Francia, e il generale usò della forza. Partí il commissario, maturando vendetta. Il popolo amò piú il generale. Ma chiari troppo erano i disegni e gli ordini del Direttorio; non i commissari, ma i suoi generali avea per nemici. Non raccolse il disperso esercito del re; non usò dell’entusiasmo de’ patriotti, pronti a guerreggiare nelle province. Disarmata la cittá tutta, appena concesse quattro compagnie di guardie nazionali, ove, tutti concorrendo, non ascrivevansi che gli antichi congiurati e i principali baroni, e con favore e con danari ottennero il fucile e si videro far la guardia al palazzo. Odiavano i lazzaroni il governo, amavano il Championnet, vociferandolo napoletano, perché uno di tal nome trovavasi inscritto ne’ libri battesimali: approfittò della credenza, e creò capo di battaglione francese Michele «lo pazzo» M. Temprava i favori con rigore, per mantenere soggezione. Moschettò alcuni assassini di un monastero. Michele in quell’incontro arringò, esortando all’ordine.


(a) Michele Capono, soprannominato il «pazzo» [F.]. [p. 210 modifica] Ogni governante faceva leggi; demolivan l’antico senza fabbricare; Bassal compartiva la repubblica con carta antica; confusi i limiti, usurpò nomi, oggetto di riso. De Renzis persuase la diserzione e la congiura a tutti gli antichi uffiziali, abolendoli. Piantavansi alberi, non con pubbliche feste, ma privati bagordi. Giovinastri mandati nelle province ad ordinare il governo. Suntuose vesti nei magistrati, magnifici editti di libertá, e fame nelle famiglie non partecipanti del governo. Nasceva la miseria pubblica dal discredito delle polizze di banco, principale sostanza de’ cittadini. Per antica politica depositavano in vari banchi il contante, da ripigliare quando che fosse, o trasferirlo altrui; e, perché acquistava, cosí pagato, una giuridica cauzione, tutti quasi i pagamenti per tal mezzo facevansi. Mercanti e fino artigiani lá deponevano il danaro, traendone la fede di credito, la qual carta era anteposta all’effettivo, credendo il governo non esposto ai rischi ed alle necessitá. Cominciò la guerra, ridomandava, chi per bisogno, chi piú per sospetto, il denaro, molto n’era levato dal re, si restrinsero i pagamenti, scaderono le polizze. Cresciuti i bisogni, crebbero i prestiti, fino in argento e in masserizie, rilasciando polizze. Partí il re, levò il contante, e le polizze perderono l’ottanta per cento. Il denaro rimasto in cittá doveva pagarsi ai francesi: diffidenza quindi ne’ ricchi, penuria ne’ cittadini e fame nel popolo.

Moliterno confermato generale, inviso a’ patriotti perché fresco repubblicano, mandato oratore a Parigi col principe d’Angri per rallegrarsi della nuova conquista della Francia e ringraziare della libertá. Il generale Roccaromana occupò un giardino reale del principe di Francavilla, e attendeva a donne e a mollezze.

Frattanto provinciale deputazione ogni giorno a Championnet. Partí Duhesme alla volta della Puglia: taglie; e ogni capo di battaglione o di legione le levava a proprio conto; viveri il doppio, e gli avanzi derubati si vendevan pubblicamente agli stessi municipali, e notato e ingiuriato chi si doleva. Non pagarsi abbastanza il sangue de’ francesi, che acquistò a’ popoli la libertá. Le armi, termini ignoti, atterrivano; ma le province lontane e le due Calabrie protestarono voler libertá, ma non [p. 211 modifica] francesi. Calabresi vendicativi di padre in figlio, e gli odii in dote e in ereditá, piú rispettato chi meglio tira con l’archibugio, con cui duellano; la morte e la vita de’ duellanti parimente gloriosa; vituperio, la morte comune. Cacciatrici le donne, sprezzanti pericoli, briganti cogli uomini, che sono assai gelosi. Deboli i magistrati, non attentano d’imprigionare, perché ammazzano i ministri e poi vivono masnadieri. Superstiziosi, e credon divini i preti. Benché scontenti del re, odiavano i francesi per le rapine. Biagio Rinaldi, parroco di Scalea nella Citeriore, ne profittò: predicò, complottò2, scrisse al re il primo di febbraio e domandò persone autorevoli: non gli fu risposto. Riscrisse invano. Non per speranza, ma per allontanar Ruffo, i cortigiani [e] il re lo mandarono. Fe’ costui quel che né tanti armati, né generali, né re poterono. Educato a Roma, accetto a Pio sesto; prima per i meriti dello zio, poi per le cognizioni, eletto tesoriere apostolico con lucro e dignitá. Innamorato d’una donna imperiosa, con scandalo e danno pubblico; il papa, dopo inutili riprensioni per togliergli onorevolmente la carica, lo creò cardinale. Abbandonato dall’amica, avvezza a piú lusso, ambizioso, disgustato, andò a Napoli, malgrado il papa, per le vertenze di allora. Accusò al re il papa d’ingratitudine. Lo fe’ il re intendente di Caserta, inferiore al cardinalato. Scrisse il papa lasciasse la carica, tornasse a Roma, sarebbe ben provveduto. Ruffo rispose altèro all’amorevolezze, corteggiò la regina, e ottenne l’ordine di San Gennaro. Ma né fede aveva dalla corte, né stima da’ cittadini. Si ritirò in Sicilia col re, e, parlando assennatamente di ricuperare il regno con Nelson, ne acquistò l’amicizia; ma fu del pari temuto. Fu dunque mandato nella Calabria, e ben s’avvide l’astuto che era piú l’odio che la fede che lo mandavano. Chiese, ma non ebbe né denaro né truppa, e per acquistare un regno s’imbarcò con quattro familiari e tremila ducati. S’imbarcò a Scilla di notte [con] Angiolo Fiori avvocato, e con lui raccolse cinquecento calabresi. Passò a [p. 212 modifica] Bagnara, feudo di sua famiglia. Rinforzato dal preside Winspeare con altri armati, scomunicò con autoritá pontifícia chi non si armava per la religione. Una croce bianca al cappello fu il segno; acquistar la vita in paradiso chi per tal causa la perdesse. Scrisse a’ vescovi e l’ubbidirono, e i preti armati di croce e d’archibugio. Perdonò a sbanditi e a tutti i rei, purché si armassero. I capi masnadieri erano generali. Rinaldi primo, con due cannoni tolti al vecchio castello di Scalea, accrescea l’esercito. Galeotti, carcerati di Napoli lá rifuggitisi, ferro e fuoco nelle case dei ricchi, chiamati «giacobini». Primo era Pan di grano, masnadiere, terror delle Calabrie, che avea per trofei anche le spoglie di piú regi procacci. Poi Panzanera, reo di quattordici omicidii, capitano di masnada. Sciarpa, caporale di sbirri di Salerno, capitanò tutti i carcerati, e sollevò la Basilicata. Ruffo raccolse tutto alla volta di Monteleone; passando, saccheggiò, imprigionò i piú ricchi, vendendo la vita a proporzione delle sostanze. Molti patriotti, per fuggire il martirio, davano danaro e s’incorporavano nelle truppe del cardinale. I meno sicuri, disperato ogni scampo, si ammazzavano, e fra questi monsignor Serra, vescovo di Potenza, letterato. Sconfitti i pochi patriotti di Monteleone e di Cotrone, lasciò Ruffo le cittá a discrezione dell’esercito; delle cui crudeltá atterriti, quei di Catanzaro chiuser le porte e muniron d’artiglieria le mura.

Ruffo senza cannoni propose condizioni. Furono accettate: non entrare le truppe nella cittá, riubbidire il re, pagar contribuzioni pel proseguimento della guerra, amnistia. Si osservò per allora il trattato; e, formatavi una guardia nazionale de’ partigiani del re, marciò verso Cosenza, metropoli della Citeriore. Il re lo dichiarò vicario del regno di Napoli: gli spedi Micheroox, giá suo ambasciatore in Cisalpina, e il principe di Imperano col suo reggimento di cavalleria. E a questi principi s’affidarono i realisti ritirati in Sicilia e si unirono. I cosentini patriotti escon in campo aperto per dar battaglia. De Chiara generale li tradisce, e il partito reale della cittá prende le armi per toglier loro la ritirata. Ma i patriotti si difendono da per tutto con sommo coraggio; rientrano a viva forza in Cosenza, [p. 213 modifica] e dopo tre giorni di ostinata difesa si rendono onorevolmente. Poco dopo, caduta Rossano ed incendiata Paola, le Calabrie al cardinale. Giunsero allora i rinforzi da Sicilia, onde Ruffo proclamò laudi del re a’ calabresi, promessa di dieci dí d’esenzione di tributo dopo la guerra. Avrebbe mandato in avvenire il figliuolo suo primogenito ad udire i lamenti. Poi Ruffo spedí commissari alle province per tagliar l’albero e innalzar la croce. Pubblicò filippiche e manifesti contro francesi. L’armi russo-imperiali aveano invaso la Lombardia. Napoli quasi gli inglesi. Quarantamila russi e turchi attendersi da Corfú. Lecce, Taranto, Brindisi, e il contado di Molise, e quasi tutta la Puglia, instigati da pochi, si armarono e si ridussero al re. Sciarpa, Rinaldi mandaronsi a guardar Campestrino, parti importanti per custodir le Calabrie ed entrare in Basilicata. Col resto egli si condusse ad Altamura, luogo eminente e difeso da assai patriotti. Frattanto i francesi di Duhesme, inoltrandosi nella Puglia, trovarono resistenza in San Severino popolatissimo, e il posero a ferro e fuoco. Poi Andria, malgrado gran valore, fu presa d’assalto dal duca medesimo, giá feudatario di quella cittá, allora comandante d’un corpo di patriotti, e spogliata. Duhesme si stabilí a Barletta, per impedire i soccorsi di Corfú, e poi passare in Calabria contro il cardinale. Né venendo soccorsi e avvicinandosi i francesi, raffreddavansi le Calabrie e la Puglia. Ruffo rivestí un certo giovane còrso regalmente, e lo mostrò come primogenito del re; arringò il popolo, e cosí fe’ in molte province. Le principesse di Francia, allora in Manfredonia, prevenute, fecero accoglienze al falso principe, e convalidarono lo strattagemma.

Frattanto il governo democratico in Napoli, ottenuto finalmente da Championnet lo assenso di formare la guardia nazionale, armò dodicimila giovani. Spanò, veterano, capitan generale. Gennaro Serra di Cassano, suo luogotenente. Tribunali per delitti di lesa nazione. Patriotti fuggiaschi nelle province turban le gioie. Popolo d’Arpino, donde passa la truppa francese, insorge. Dá il sacco a possidenti. Trucida francesi dispersi. Strade coperte di cadaveri ignudi. Giovanni Turco, commissario [p. 214 modifica] di governo, trucidato, e sollevazione di province in province. Prete Pronio, sulmonese, capitano della ribellione d’Abruzzo; Mammone, di Sora; fra Diavolo, di gran parte della Campania, e, tenendo tra Itri e Fondi, toglieva la comunicazione tra Napoli e Roma.

Personaggio arpinate d’alta nascita, scortato da cento giovani, traversa la ribellione, e a Napoli informa di tutto; chiedeva di molti cacciatori del giá reggimento Siri ed altri soldati del disperso esercito. Derelitti domandan servigio. Chiese di arruolare una legione, denominata Tullia, a spese del dipartimento. Championnet non acconsente, o non potesse, o non credesse. Manda Dombrowski con quattromila a sgombrare la via di Roma. Ruffo vinceva, patriotti disanimavansi. Calabrie perdute. Baroni lá possidenti propongono dal principio una spedizione, e tremila uomini pronti a loro spese. Francesco Pignatelli di Strongoli e Schipani disputan preminenza. Rabbia di parti, e alienamento dalla spedizione. Schipani vince, repubblicano, intrepido, temerario, stravagante, libertino, avido, giocatore, e i piú seguaci del Pignatelli si confortarono. Egli raduna calabresi. Parte. Sicignano e Terranova si oppongono: a viva forza prese, spogliate ed arse. More in zuffa Spinelli, patriotta e commendatore di Malta. Rinforzato di dugento uomini, espugna Rocca d’Aspide, piccola cittá in altura. Castelluccia domanda patti. Pagherebbe contribuzione, ma non entrino i patriotti nella terra; i patti rigettati, si difende. Sta il paese sul monte scosceso da parte di Salerno; ad un lato una montagna, che la domina, donde è meno dubbio l’attacco. Ma egli comanda assalirla per l’erta, e venir sul fatto alle mani. I suoi dimostrano la facilitá dell’altro lato e i pericoli di questo. Egli rampogna. Rampica primo. Tutti lo seguono. Ma i nemici ruotolano macigni dall’alto. Si sperdon le file. Sedici ufficiali muoiono. La fortuna salva Schipani. Tornano a Napoli, debellati non dall’armi nemiche, ma dalla temeritá del comandante. Gli oratori a Parigi alteramente cacciati, Faypoult rimandato a Napoli. Championnet deposto. Sottentrato Macdonald, burbero e prepotente. Faypoult rinnova le pretensioni. Governanti esosi. In questa, sconfitti i francesi in [p. 215 modifica] Lombardia, Macdonald deve accorrere. [La] truppa di Duhesme occupa a forza Trani. Ebbro di vittoria il soldato e di desio di preda, ammazza i patriotti, che gli venivano incontro a festeggiarlo, saccheggia, incendia senza distinzione. Macdonald lo fa ritirare a Caserta, dovendo partire, temendo Ruffo, masnadieri e la plebe napoletana. Tutti nemici alle spalle. Lasciò le briglie a patriotti, godessero dell’intera libertá, si sostenessero da sé, assoldassero truppa, custodisser castelli. A lor senno governasi e combattano contro a’ ribelli. Furon conosciute le ragioni di tanta generositá; ma eran giá troppo trascorsi i patriotti: dover affrontare, non potendo piú retrocedere, e sperare nell’avvenire.

Chiamasi l’arpinate. S’assolda con 200 svizzeri veterani la legione Tullia contro fra Diavolo. Troppo tardi s’incammina, né può oltrapassare Teano.

Giunge commissario procuratore3 Abrial da Parigi; ma in fatto osservatore e operatore secondo le circostanze. Interesse era in quel punto il Direttorio aver partito a Napoli. Il commissario stringe amicizia, esamina, interroga, onde dare il governo a cittadini che il facessero amare. Domenico Cirillo, Flavio Pirelli, Pietro Signorelli accettarono, vinti dalle preghiere e dalle speranze, che lor si dava, d’esser utili alla patria. Con proclama s’affezionò il popolo, destituendo il Provvisorio e dipingendo gli abusi. Formò Direttorio e corpo legislativo. Espone i nomi alla pubblica censura, e universalmente s’approvano. Cirillo presidente de’ legislatori, che erano i piú egregi del clero, nobiltá e magistratura. Direttori Ercole Dagnesi, venuto con Abrial di Francia, Ignazio Ciaia, Giuseppe Abbainomi, Giuseppe Albanese, Melchiorre Delfico, riputatissimi. Tutti entrano in carica, tranne Delfico, ch’era in Abbruzzo. Scatenasi il popolo contro i despoti. Laubert passeggiava sul molo, e fu arrestato, temendo che non isfuggisse. Laubert al popolo insultatore arringò, e fu accompagnato a casa in mezzo agli applausi. [p. 216 modifica]

Il nuovo governo soccorse, con truppa assoldata sul fatto, Altamura: capitano Mastrangelo altamurano. Altri diede a Schipani contro gli ammutinati di Lauro, terra della Puglia. Spedi Celentano presso la Cisalpina, il duellino di Cassano alla Ligure, e il duca di Canzano a Roma.

Manthoné ministro della guerra, De Filippis interno, Pigliatelli polizia, Doria marina, Macedonio finanza. Ma tremendo irreparabile male la giornaliera miseria. Cirillo fe’ stabilire case di soccorso, e fu primo a versarvi gran parte delle sue ricchezze, frutto della medicina, sua professione. Molti ecclesiastici e probi imitarono. Poi scelto in ogni via un cittadino reputato e una matrona, detti «padri e madri de’ poveri», visitando e arrecando soccorso a’ tuguri, e procurare lavoro agli artigiani, ecc. ecc. Poi, vuotandosi la cassa, propose Cirillo convertire gli emolumenti e gli abiti in pubblico soccorso, egregiamente arringando. Poveri e infermi si soccorrevano, e successe a quegli orrori * l’amor della patria. Ma la vera causa della miseria eran le scadute polizze.

Manthoné pose ogni studio per assoldare. Provvide i soldati e gli ufficiali del re, sino a che fossero uniti in legione. Presidiò Napoli, il Castello Nuovo, il Castello dell’Ovo, ed esercitava la guardia nazionale.

Macdonald, crescendo le avversitá in Lombardia e temendo tolta la ritirata, è in lui posta l’ultima speranza. Partí, ma per non dar ansa a’ realisti e disanimare i patriotti, vociferò levar l’esercito dalla mollezza della metropoli: accamparli sulle colline, pronti a’ bisogni. Pochi ingannò. I capitani di alcune navi del re, che con gl’inglesi assediavano il porto, sbarcarono a’ paesi vicini al golfo con bandiere, oro, armi, uffiziali. Sollevarono i popoli, presero Castellamare, su cui misero le bandiere regie, che si scorgevano da Napoli, e meditavano l’assalto alla cittá, avvilita dalla partenza de’ francesi. Sciarpa s’avanzò nel tempo istesso fino a Salerno4. Macdonald, benché decisa [p. 217 modifica] la partenza, marciò su Castellamare e Salerno la mattina de’ 4 maggio, ruppe i sollevati, [fece] trecento prigionieri, fugò sulle navi gl’inglesi, riprese il Castello, domò Salerno, distrusse Cetara, e la sera tornò a Napoli, recando in dono alla guardia nazionale tre bandiere riportate e i prigionieri. Pubblicò suo accampamento a Caserta, e voleva quindi relazione di quanto di dí in dí avveniva. Partí, lasciando a Sant’Elmo mille soldati col capo brigata Méjean, duemila a Capua col generale Girardon, settecento a Gaeta, e con Abrial e gli ospedali partí.

Prete Pronio e fra Diavolo ardirono fra le montagne d’Itri e Fondi d’azzuffarsi con Macdonald, ma sconfitti, e tutti i paesi, che avean prese le armi, spogliati ed arsi: pretesto ed ésca ai saccheggi, onde poi cosí licenziosa divenne quell’armata, e fu il flagello della Lombardia e la totale rovina di quella campagna. De’ quali diremo nei Commentari cisalpini. Gioia indicibile a’ patriotti fu questa partenza: clamori, libelli, giornali, antiche glorie, sprone per le presenti. Ruffo capo di pochi sbanditi, flotta gallispana a vista di Genova, donne arringavano, teatri republicani, eroi di Grecia e di Roma portati ad imitazione; molte societá patriottiche e la societá filantropica, predicando per le piazze e le taverne e affratellandosi alla plebe. Michelangelo Ciccone volgarizzò il Vangelo, accomodando i dogmi alla democrazia. Parrochi ed altri ecclesiastici obbligati alla stessa cosa. Piú di tutti Belloni, francescano bolognese, in piazza predica con profitto al popolo. L’arcivescovo settuagenario incoraggiava col suo esempio il clero. Negò assoluzione a’ nemici del governo ed a’ macchinatori della sua rovina, fuorché in punto di morte, o se non rivelavano congiure ed armi. Diresse pastorale a tutto il regno come primate, smentí Ruffo, dichiarandolo scellerato, scomunicò lui e i suoi seguaci. Cosí fecero il vescovo di Vico e quello della Torre. I devoti, benché in ambiguo, anteponevano al Ruffo l’arcivescovo per la sua giurisdizione e fama di santitá.

Trovò la societá degli Amici delle leggi giunta ad ottomila membri. Sorvegliava il governo, spregiava i giá ligi de’ francesi; doversi escludere da cariche. Propose commissione censoria, tutti gli impiegati esaminarsi, rimuoversi i tristi, onde il governo [p. 218 modifica] elesse cinque, che, rimuovendo i sospetti, presentavano o piú degni o piú cari.

Cosí era tranquilla Napoli, ma turbolla l’espugnazione di Matera. Cedé Altamura al numero, e il gran valore irritò i vincitori. Macello nel primo furore, violamento di vergini, sacrilegi di chiese, bambini lattanti svenati in seno alle madri, moribondi strascinati, e le membra crollate5 fitte nelle aste. Orrendi avvenimenti, piú orrendi dal timore de’ fuggitivi, che, orrore inspirando e compassione, confermarono i patriotti nel proponimento di vincere o morire.

Ma discordie intanto fra legislatori e Direttorio smentirono la pubblica fama; Dagnesi colla vanitá e l’ignoranza; Abbamonti, Albanese vinti dalla grandezza del carico; tutta l’autoritá in Ciaia, tenuto virtuoso, ma romanzesco ed avido di potenza; domandò tre milioni di ducati al Legislativo. Bruno, Pignatelli, Doria negarono acremente, né concedere verun denaro senza il conto del giá conceduto. Ignavo il Direttorio, doversi rivolgere gli occhi a Luigi Medici d’Ottaiano; accrescerebbe con l’esperienza gli affari, e riputazione alla repubblica colla propria fama. Fu tratto a questa sentenza anche Abrial. Ciaia chiamò a sé Franco Salfi: il governo ritardarsi da continue societá patriottiche, riunirle in una moderata dai piú zelanti, che sarebbe alla repubblica gloria, al governo sostegno. Conceduta ampia sala nell’antica accademia de’ nobili a Santa Lucia. Niuno impiegarsi, se a quella societá non inscritto; e, come Ciaia distribuiva gl’impieghi, niuno gli si opporrebbe. Convocossi la societá; presidente Salfi. Potentissima divenne la fazione di Ciaia. Onorati e piaggiati, i piú furibondi accusano Medici. Egli essere quell’inquisitore regio che sentenziò a morte i repubblicani, onde, a richiesta della Societá, il Direttorio, come sforzato, imprigionò Medici. Quindi Ciaia si volse colle stesse arti, ma con piú difficoltá, contro Bruno, Pignatelli e Doria, incolpabili. Suscitò i furibondi contro questi tre, come fautori de’ feudatari. Avea il Legislativo [p. 219 modifica] per lo innanzi aboliti i diritti feudali con questa legge, rinnegata sempre da Macdonald: che, oltre la perdita de’ diritti, presentassero i baroni i titoli di compra de’ boschi e pascoli, presumendosi usurpati colla forza nell’evo medio, e quindi, in mancanza di carte, distribuirsi i beni alle povere famiglie, risarcimento della lunga tirannide. Inoltre le liti pendenti fra baroni e sudditi decidersi in favore di questi; perocché grande ragione ed ultima necessitá conducono l’oppresso ad irritare con le accuse il padrone potente. Molti legislatori, benché possessori di feudi, giudicano dover approvare la legge; ma altri, considerato il potere dell’abitudine ne’ popoli, e la riverenza per gli antichi padroni, e il danno della repubblica nell’inimicizia de’ baroni, a cui si lasciava la vita per vendicare le tolte sostanze, chiamarono inopportuna la legge, ed ottima soltanto quando fosse ferma la repubblica. Doria e gli altri due parlarono in questa sentenza, per cui fu giurata pubblicamente nella Sala patriottica la loro morte, se non venivan deposti; e il presidente Salfi mandò una deputazione ad accusarli al Corpo legislativo, dichiarando non sciogliersi l’adunanza fino al ritorno6 degli oratori. Partivano i rappresentanti, quando s’intima loro da parte della Societá di riadunarsi. Si accusano i tre. Oltre la contraddizione alla legge per proprio interesse e de’ parenti, tenere corrispondenze e trame in Sicilia. Bruno fra gli altri; e si mostra una lettera intercetta alla posta come delitto evidente. Conteneva la schietta descrizione delle cose. Doria, codardo per ministro di marina, avere chiesto passaporto per Genova, e abbandonare la carica e la repubblica ingratamente ne’ frangenti. Conchiusero: al tribunale i tre ed a giudicio, secondo le leggi; a Doria non il passaporto, bensi dimissione, e, se conveniva morire, morisse con tutti. L’accusa si discusse, dicesi, a lungo per far venire guardia nazionale e ribattere la violenza; ma i tre accusati con moderazione rinunziano alle cariche ed abbracciano l’accusatore [p. 220 modifica] Ardire quindi alla Societá die’ questo primo evento. Usurpò il diritto a’ censori di nominare a’ tre posti vacanti, e, per evitare timore di guerra civile, si cedé. Scelse il Salfi, che, piú sperando dalla presidenza e per levarsi l’odio, non accettò, e due reputati popolari.

Festa in maggio di san Gennaro, vescovo di Benevento, protettore del regno. Popolo aspetta il sangue conservato in una ampolla: e la testa del santo si mette dirimpetto. Se il sangue, quasi [per] desio di congiungersi alla testa, si liquefa presto e di opaco e denso vien vermiglio, lieto il popolo; se tarda, minaccia ed ammutina. Segnansi quindi annualmente per le piazze i minuti dello indugio, per calmare il popolo. L’anno, in cui il re dovea guerreggiare, tardò il miracolo, orrendo presagio; e la persuasione di sconfitte, da ciò entrata nel popolo, forse le avverò. Ora i patriotti dichiararono a quattr’occhi a’ canonici: o presto il miracolo o la lor vita; e in meno di due minuti il popolo è giulivo e tripudia.

Necessaria intanto truppa. Manthoné buone intenzioni, ma danaro? Le duchesse di Cassano e di Popoli, virtuosissime, fanno a richiesta del governo una colletta. Vanno alle famiglie, pregano, arringano per la repubblica, e si ritraggono sussidi per qualche legione. Se ne erano decretate quattro di seimila l’una. La Tullia giá richiamata da Teano; la Bruzia, calabrese, giá capitanata dallo Schipani; la Sannite da Carafa d’Andria; la Campana da Spanò, che avea ceduto il generalato della guardia nazionale a Basset; le quali quattro appena tutte arrivavano a cinquemila. Pericolosa leva violenta, difficile la reclutazione. Uomini d’armi, di birri. Lazzaroni e ciurmaglia capitanati da Fasulo, mille. Altrettanta cavalleria da Pignatelli Strongoli.

Domestiche congiure de’ fratelli Baccher, mercanti coi lazzaroni e realisti. Corrotte guardie nazionali, e tutto presto al macello de’ patriotti. Un figlio di Baccher era innamorato della Sanfelice, e, volendola salvare dalla strage, le offriva biglietto, che ricusò, volgendo l’offerta in ischerzo. Addormentatosi il giovine, levò ella il biglietto di tasca, lo copiò e lo rimise. Dicesi che fu un tal Guerra, che la esortò a scuoprire; ma che Cuoco [p. 221 modifica] voleva che no, esortandola a non compromettersi. Ella scoprí, o per timore o per altra ragione. Donne e nazione napoletana incapaci di secreto; o perché temea del Guerra, il quale egli stesso l’accompagna al governo. Baccher visitati, trovansi distintivi e bandiere reali e nota di duemila congiurati. S’imprigionano. Onori solenni alla Sanfelice, come salvatrice. Il numero sbigottisce il governo. Temea non l’impunitá desse ardire, non la severitá inferocisse. Ordina cose da far piú congiure e respingere libertá: tutti si chiudano a un colpo di cannone, e si stiano, chiuse le finestre, in casa. Ogni ascritto alla guardia nazionale si armi e vada a suoi designati quartieri; a un altro colpo uscirebbero: chiunque a quell’ora preso, moschettarsi se armato, carcerarsi se disarmato. Esperimento pericoloso ma grande dalla quiete del popolo, che diviene furente spesso anche per il troppo timore. Tutti ubbidirono: e i piú senza sapere il perché. Guardie nazionali accorsero. Busset generale visitava tutti i quartieri, lodava, animava; il Corpo legislativo ondeggiava immerso nel pensiero de’ mali. Colobrano principe era di guardia al palazzo legislativo. Nascita illustre, ricco, versatile ingegno, ambigua fama; passò per delatore della regina, di cui fu intrinseco; patriotta per ambizione. Avvisarono i legislatori di udire il suo parere. Egli disse di aver parlato cosi:

«La repubblica minacciata da parti, quasi invasa dagli esterni nemici. Ben vuole politica nascondere le avversitá al popolo, ma non acciecare noi stessi, anzi e vederle e prevederle. Ruffo in Calabria, Puglia e Basilicata. Sciarpa sino a Salerno. Sollevati i circonvicini popoli al golfo. Pronio e fra Diavolo armati gli Abruzzi, Terra di Lavoro e Campania. Gl’inglesi signori del mare. Congiura. Popolo, e per la natura de’ volghi incostante, e per sua feroce, e per miseria sperante nell’avvenire, e per esperienza credente agevoli rivoluzioni. Né il re amava, temevalo per abitudine e forza e riverenza; né noi ama, che né forti crede né può riverire. Questo è lo stato. Né amico o parente, né allento difende chi non seppe, quando avea l’armi, difendersi. Presa Napoli, non v’è scampo, saranno inutili i consigli, se inutili le armi: in queste tutta la salute. Né mancano mezzi. [p. 222 modifica] Abbiamo tremila francesi, ottomila soldati, quattromila patriotti rifugiati dalle province; dodicimila guardie nazionali, le quali non essendo tutte forze fedeli, conterò soli diciotto separati o vinti, e le nazionali dannose7. Forminsi quattro legioni, tre formino tre campi, Portici, Poggio reale, Caserta, e sempre al caso di unirsi e formare un solo campo. La quarta resti alla cittá e nei castelli in presidio. Cosí lontano il nemico dalla metropoli, e soldati assuefaransi a’ campi e disciplina, e la forza stessa conterrá i turbolenti interni. Imprigioninsi allora quanti sono i rei o si scoprono: poi le legioni progrediscano con lo stesso ordine. Ove Ruffo avanzasse, o lo scontrassero, ben avrebber vittoria legioni disciplinate, e ciò darebbe anima a noi ed infamia a Ruffo, giá odioso nelle province, che, stanche da tanti assassinii e tasse, aprirebbero le porte, e avremmo ingrossato l’esercito da tanti patriotti, o fuggiaschi, o nascosti. Se sará avversa la fortuna, ricordatevi di Altamura: la vendetta de’ tiranni è implacabile. Vedremo le spose e le figliuole in preda alla libidine di gente crudele e barbara. Imploreremo una morte, che sembrerá troppo tarda. Sfoghi il re il suo furore sopra queste mura deserte e ne’ suoi schiavi. E noi con figliuoli, mogli, cose preziose, con tutti i patriotti, uniamoci e andiamo per Gaeta e Capua verso Roma, serbandoci a vendicarci quando che sia, o a morire in libera terra».

Approvò e si riconfortò il Legislativo; chiamò Manthoné e fu di pari avviso. S’ordinò che si eseguisse. Lassò la notte in profonda tremenda calma. Tremavano i realisti e tante famiglie avvolte nella congiura in un paese donde non v’era scampo. Ognuno in casa temea il macello degli altri consanguinei. La mattina sparò il cannone, niuno osò per gran pezzo uscire, temendo di trovare amici morti, e cangiata in carneficina la cittá. Ma, quando la Sala patriottica ciò seppe, assordano strida, venir tutto da nobili, peste; ammutinare essi la cittá; disanimare con queste paure i patriotti. Che armate? che Ruffo? ladroni essere [p. 223 modifica] di campagna, bastare un pugno di veri patriotti. Aspirare Manthoné alla dittatura; sí sí; serva, finché se ne ha mestieri, e poi sia pugnalato. Cosí dalla tribuna si dissiparono gl’inimici. Lascinsi da parte Abruzzo, Terra di Lavoro e Campania. Guardie nazionali di Gaeta e Capua le frenano; e Carafa d’Andria. Dominsi i ribelli di Puglia e l’armata di Ruffo: il resto agevole. Matera, uno de’ primi fuorusciti napoletani, giá dai francesi, con cui guerreggiò, appresa l’arte e fama e ladreria, fatto, per avere in una battaglia salvato il general Berthier, capo di brigata, serví co’ francesi tutta la campagna d’Italia, e Spanò, capo della legione campana, furono scelti per questa spedizione. Al primo si unirono, fungendo come soldati, tutti gli ufficiali da Manthoné presi al soldo della repubblica, con ordine di arruolar truppe nella Puglia, formare legioni e riprendere il loro grado; a questi si aggiunsero i fuggiaschi pugliesi e il generale Federici: colonna questa di tremila, sei cannoni. S’avviò verso Poggio reale ad Avellino. Spanò, con duemila e due pezzi d’artiglieria, andare per Portici a Nocera, esplorare e riferire.

Formansi a Napoli i calabresi8: custodiscono Castelnuovo, dal governo tolto non senza ragione alle guardie nazionali. Ben se ne mostrano degni. Scrivono che combatteranno. Saranno o liberi, o morranno vendicati. Rispose Manthoné ringraziando e rianimandoli: poi si volse a’ patriotti della Sala. Non turbassero l’operazioni con dicerie; andassero a combattere; in pace, dopo la vittoria, sacrificassero i loro salvatori, se avevan voglia; ma prima lasciassero salvar la patria, senza di che e gli accusatori e gli accusati erano involti in eguale rovina. Per dare alla cittá spettacolo e conforto, si schierò la fanteria nella strada di Toledo, la cavalleria nelle piazze e la truppa assoldata presso Castelnuovo. Si trassero quindi i prigioni e le bandiere riportate da Macdonald. Trascinansi per terra vergognosamente; passano legati i prigionieri, per lo spavento moribondi. Arrestansi sul piedistallo dell’albero della libertá posto su la piazza, [p. 224 modifica] dove i prigionieri a capo chino aspettano il colpo di morte. Spettatori inteneriti gridano grazia, popolo insieme tutto e soldati. Sciolti, abbracciano l’albero, e gridano «viva la repubblica». Si raccolse lá sulla piazza denaro, si distribuí: si rimandano a raccontare le feste e la generositá repubblicana, da cui Ruffo trasse forse argomento di vittoria. Si arde pira per gettar le bandiere. Patriotti tumultuariamente le sbranano, danno ai soldati, che le portavano su le loro baionette in trionfo.

Gl’inglesi intanto, che con la flotta assediavano il golfo, s’impadronirono d’Ischia e Procida. Sbarcano a Miseno, ma sono fugati da’ patriotti; pure animano i popoli a sollevare, e dánno armi e danaro, e comunicano coi congiurati in cittá. Caracciolo, che aveva accompagnato il re in Sicilia e ch’era tornato, fu fatto ministro della marina in luogo di Doria. Delle navi inglesi non comparivano piú che una fregata e qualche legno leggiero. Manthoné propose arrischiare una battaglia colle poche bombardiere e cannoniere conservate a Castellammare e i feluconi ch’erano nel porto; procurarne uno sbarco nelle isole, scacciando gl’inglesi. Procida dalla parte di terra fa un seno con due promontori, ch’erano stati dagl’inglesi muniti di batterie. I repubblicani n’avevano una in un luogo detto Miniscola, e in fretta ne costruirono un’altra nella medesima linea. Tiensi a Miseno Consiglio di guerra. Il comandante delle due batterie dice doversi la flottiglia spingere trasversalmente a sinistra in salvo dall’artiglieria de’ promontori, e lá battagliare con la fregata, che doveva a forza venire per opporsi allo sbarco nella costa laterale. Tener pronte le tartane, perché, rese le navi nemiche, potessero con cinquecento uomini fare lo sbarco. Ma tutto di notte, perché sull’alba alzavasi solitamente un vento fresco, che avrebbe spinta la flottiglia nel canale verso Partigliene. Fato forse della repubblica. Caracciolo, benché reputato grande ammiraglio, o perché meglio credesse, o per aver tutta la gloria, o per non arrendersi al parere di un giovane, stese la flottiglia in linea retta fra le batterie dell’isola e Miniscola sull’altra. Marinai, ufficiali, prodigi di valore; le navi nemiche in pessimo stato; la fregata appena poteva far fuoco con un [p. 225 modifica] cannone e lentamente, ed erasi giá quasi resa. Le truppe delle tartane giá pronte a sbarcare, levossi il vento dell’alba; la corrente spinge la flottiglia alle artiglierie nemiche, che la avrebbero distrutta, se, abbandonando l’impresa e perdendo il frutto di tanto sangue e di tanta speranza, non si fosse affrettata a prendere il largo per ritirarsi.

Tuttavia il valore e il disegno di nuova impresa attira le laudi del governo. Danno alle vedove de’ marinai, morti nella battaglia, cinquanta ducati per una e la paga stessa de’ mariti, i figli riguardati come prediletti della patria. Ordinasi convito in piazza, perché tutti quei che si trovavano nella zuffa v’intervenissero.

Ma gli animi erano tutti in aspettativa per la truppa di terra. Speranze d’ambi i partiti, e ingiurie. Unioni de’ realisti nelle campagne o in case di solitudine bucinavano contro a’ giacobini: discoli e spender tutto in bordelli, servi de’ francesi: ov’è religione? Presto Ruffo, presti turco-russi. Schipani sconfitto, agli altri pronto il supplicio. Ma i patriotti insolentemente gente bassa chiamavano; schiavi; tutti pezzenti. Letterati, clero, nobiltá, fiore dei cittadini erano del loro partito, fuori che pochi nobili, schiavi del re. Generositá de’ liberi avere lasciata la vita, ma ponessero mente pronte le forche. Non prestassero fede alle spie siciliane. Se forzavano di venire al sangue per consolidare la libertá, non mancherebbe di Robespierro. Poi vantavano loro truppe, avere elle forte combattuto con quei ladroni degni discepoli di Ruffo. Matera, discepolo francese, in Avellino: alterigia e lusso nimicarolsi popolo e soldati. Spanò, in Nocera, moderato, facevasi partito. Esplorato il nemico del numero e della posizione, ne scrisse a Manthoné. Era sbarcato di fresco a Salerno il reggimento Valdemone e compagnie degli esteri venute da Palermo. Murano la porta di Salerno verso Napoli, per aspre strade di montagne fra la Cava e Cetara vanno nella valle tra San Severino e Montuori a poche miglia d’Avellino, campo di Ruffo. Un Costantino Papa capitana i sollevati di Montefusco; recluta soldati disertori e spese, e conduce seimila all’antico comandante delle bande di Montuori. Soldati [p. 226 modifica] veterani del re circa seimila, con cinque cannoni dati dagl’inglesi, ma disagevoli per essere sugli affusti di marina. Ma infinita la gente ragunaticcia. Calabresi, pugliesi, tutti insomma i su nominati convennero. Tanto esercito, parte non fedele, parte indisciplinato, trovasi in valle angustissima; ha alle spalle ed a fronte due inaccessibili montagne, due strade a sinistra, una ardua per Salerno, l’altra per Materdomini e Nocera, e due a destra: una per Avellino, l’altra alpestre per la Puglia. Resta il cardinale a Salerno. Contese, risse di quei banditi e veterani, chi deve capitanarle. Tutti andavano senz’ordine, senza disciplina, tutti cercavan nemici, erravano per le montagne, saccheggiavano, portavano teste di miseri, quasi trofei di nemici, gozzovigliavano. Spanò tutto scrive a Napoli: la porta Salerno essersi chiusa per far impeto dalla parte di Avellino, penetrando Napoli per Nola e Poggio reale. Opportune le angustie, per sorprendere l’inimico ove il numero è dannoso, e finire in un di tutta la guerra e la fortuna della repubblica.

  1. Il manoscritto, che fino a questo punto è autografo, qui comincia ad essere copia di amanuense [Ed.].
  2. Il ms., certamente per errore, «completò» [Ed.].
  3. Il Foscolo probabilmente scrisse cosí, ma l’amanuense non seppe leggere, e copiò «Eroensatore» [Ed.].
  4. Qui cessa la copia e ricomincia l’autografo, che dura soltanto fino al termine del paragrafo; dopo il quale ripiglia la copia [Ed.].
  5. Cosí nel manoscritto [Ed.].
  6. Qui cessa la copia e ricomincia l’autografo, che va sino al termine de! frammento [Ed.].
  7. Il periodo, nel quale probabilmente manca qualche parola, è cosí nell’autografo [Ed.].
  8. Formavano i calabresi duemila uomini di tutte buone schiatte: meno (?) questi tutto aveano perduto e di tutto disperavano [F.].